Il figlio di

perplesso

Nino Rizzo, a Spinola, è il figlio di suo padre. Nonostante abbia ormai quarantacinque anni suonati, e con tutta l’orchestra, sempre e solo figlio di suo padre rimane. Domenico, il padre, era un uomo tetragono e potente, sia di fisico che di statura politica. Per anni gran capo, anzi dominatore assoluto del locale Pci, era la versione veneta e in sedicesimo di Stalin. Come lui era venuto fuori da un seminario, come lui era una montagna d’uomo che non passava per le porte; come lui era il più straordinario e pericoloso figlio di puttana che potessi incrociare ad una assemblea o ad un tavolo di trattative. Non importa quale fosse la posta in gioco, lui ti fregava. Persino se della cosa in sé non gli importava nulla. Ti fregava così, per principio, perché quello era il suo ruolo, la sua missione e il suo credo. Domenico non si fidava di nessuno e s’era costruito ad arte fama e carattere per far sì che nessuno si fidasse mai di lui. Gestiva il suo potere all’interno di un clan, come i capitribù unni, facendosi temere da chiunque: chi era dentro era dentro, chi era fuori un nemico: per gli esterni nessuna pietà, per gli interni nessuna compassione. Le decisioni di Domenico non si discutevano: si accettavano o si subivano, per quanto disastrose potessero rivelarsi in seguito. Ribellarglisi sarebbe stato più disastroso assai, perché Domenico conosceva a menadito gli scheletri degli armadi di tutti, e partiva dal presupposto che nessuno è mai così santo da non nascondere in qualche cassetto almeno un ossicino.

Quando alla fine la morte se l’è portato via, anche quello è avvenuto solo dopo lunga trattativa, e c’è chi giura che la pure Morte abbia dovuto patire qualche colpo gobbo.

Crescere all’ombra di una sequoia del genere non sarebbe stato facile per nessuno, e figuriamoci per Nino, che di suo si farebbe fare ombra persino da una margherita nel prato. Fatto sta che nel partito, pur in tutte le sue reincarnazioni, Nino è rimasto, pressappoco come segretario, o quasi. Se c’è una cosa che ha imparato, per poter sopravvivere a tanto padre, è a stare zitto. E quella è la sua fortuna. Perché tacendo, alle assemblee o nelle contrattazioni, tutti pensano che taccia perché sa molto, ma non lo vuole dire. Partendo dal principio che è figlio di suo padre, se non parla, danno per scontato nasconda qualcosa; quando parla, poi, e dice cose che non c’entrano, tutti presuppongono che, da figlio di suo padre, lo faccia per sviare e confondere. Negli anni, quindi, Nino si è ritrovato cucita addosso una sorta di leggenda nera, di cui è beatamente inconsapevole, perché di suo, povera creatura, invece, è quanto di più inoffensivo si possa immaginare. Se durante gli incontri politici il suo sguardo si perde nel vuoto a fissare il soffitto, non sta elaborando strategie, cerca solo una scusa per uscire a fumare una sigaretta; alle assemblee, vivaddio, non ci andrebbe proprio, non fosse per gli ex compagni di papà e colleghi di partito, che considerano la sua presenza poco meno che fondamentale e ce lo tirano dentro, salvo poi spiare preoccupati ogni sua smorfia, cercando di oracolare quali siano i suoi pensieri arcani. Lui, bambìn, invece, semplicemente non se la sente di dir loro no, e viene, con la piatta rassegnazione con cui si fanno le cose che si portano avanti per dovere. Il padre viveva per la politica, lui non ne capisce nulla e non ha in merito alcuna idea; il padre godeva nell’avere in mano l’organizzazione di ogni cosa, lui non è capace di tenere in ordine neppure la sua agenda: difatti, ogni volta che la apre, gli cadono giù foglietti, bigliettini e post it che ha dimenticato di archiviare.

L’altra sera, ad una riunione cui ero stata invitata anche io, ci doveva essere lui pure. La sua partecipazione era stata annunciata dai colleghi di partito con una certa enfasi, a sottolineare il fatto che stavolta si muovevano le massime cariche disponibili. Fatto sta che, dopo tre quarti d’ora di attesa, di Nino non c’era traccia né notizia; al che i suoi hanno cominciato a mostrare un certo nervosismo. Che fare? Iniziare senza di lui? Inconcepibile, manco fosse un reato di lesa maestà; ma far attendere ancora i convenuti era cafonaggine bella e buona, specie perché i convenuti, appartenenti ad altro partito, cominciavano a dar segno d’insofferenza. Dopo un breve e febbrile consulto, Memo Bognolo ha cominciato a smanettare con il cellulare, per chiamarlo. Squillo, squillo, squillo, ma nessuna risposta; un altro squillo, e poi la voce della signorina telequalcosa, che annunciava l’utente al momento irraggiungibile.

Chissà cosa c’è sotto!” ha bofonchiato Antonio, l’amico seduto accanto a me.

Magari si è dimenticato che doveva venire…” rispondo io.

Ma chi, Rizzo? Ma dai, non lo sai di chi è figlio?”

Sto per rispondere che, alle volte, il dna fa strani scherzi di trasmissione, quando alle nostre spalle si sente un trambusto: è Nino, trafelatissimo, che entra, tutto bagnato, con un ombrello mezzo rotto in mano, l’impermeabile che gronda, i capelli molli di pioggia, gli occhiali semiappannati per l’inaspettata zaffata di calore.

Bognolo gli si fa incontro, con tono deferente: “Nino, Santiddio, eravamo preoccupati!”

Ah, scusatemi, ma avevo sbagliato giorno….”

Ti abbiamo cercato al cellulare!” dice l’altro sodale di partito.

Uh, avete ragione! – replica lui, toccandosi perplesso la tasca – L’ho dimenticato a casa! E aveva anche la batteria scarica…”

Quante balle, figuriamoci, si vede che non voleva essere disturbato, chissà cosa sta tramando!” commenta a mezza bocca Antonio, soffiandomi nell’orecchio per non farsi sentire, mentre i suoi compagni si scambiano occhiate che vogliono sottintendere: se ha fatto così ci sarà un motivo.

Nino si avvicina al tavolo, un po’ frastornato, mi sorride con aria mite, come a scusarsi di esistere, e fa per sedersi accanto a me, essendo quello l’ultimo posto libero. Nel farlo, però, si impapocchia fra le gambe della sedia, e l’agenda gli cade dalle mani, lasciando profondere il solito diluvio di foglietti volanti e appunti spiegazzati, che invadono il tavolo.

Con gesto istintivo, lo aiuto a raccoglierli, stupita che nessun altro si presti a farlo, ma mi rendo conto che non osano toccare l’agenda suddetta, manco fosse un filo dell’alta tensione. Nino arrossisce quasi, mi getta un’occhiata che è a mezzo fra la gratitudine e l’imbarazzo, ficca dentro i foglietti alla bell’e meglio nell’organizer, e, quando Memo Bognolo inizia a parlare, si mette a braccia conserte e guarda, con aria mezzo assente e mezza rassegnata, il muro.

Antonio si china verso di me.

Ma che c’era scritto nei foglietti?” chiede.

Boh, non ho idea, sembravano le ricevute della lavanderia…” replico, sorridendo di quella ansia da complotto, manco si aspettassero che Nino giri con dei fascicoli Sisde al seguito.

Non mi piace, non mi piace… con quell’aria perennemente svagata, pare un cretino… anche adesso, sembra addormentato, ma va’. Bisogna stare attenti con lui, è come suo padre… apparentemente non fanno nulla, e poi sono lì, capaci di fare chissà che giochi di corridoio… tienilo sott’occhio, mi raccomando”

Io me lo guardo, Nino, che per nascondere lo sbadiglio si sta quasi slogando le dita della mano. Forse sarò troppo ottimista sugli esseri umani, ma a me, uno così mi sa che se si ferma in un corridoio non è per tramare nell’ombra: è che da solo non trova l’uscita.

8 Comments

  1. E’ l’Italia; e si ereditano cose ben più sostanziose, purtroppo. Cattedre universitarie, seggi parlamentari, iscrizioni ad albi professionali, carriere bancarie, tribune televisive…
    Il tuo Nino fa tenerezza, davvero.

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  2. Notevole.
    Hai reso perfettamente l’idea della sinistra italiana d’oggi: padri ingombranti,figli che si iscrivon per saga familiare, idee zero.
    Se almeno avesse trovato un lavoro che gli piace,il Nino Rizzo si sarebbe salvato.
    Invece manco quello,par di capire.
    Ed allora, politica sia, quasi fosse l’impresa familiare: che invece non c’è.
    Poraccio.
    Inchino e baciamano.
    Ghino La Ganga

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