Il merito e il sistema: le fughe di cervelli e l’Italia che non ce la fa

La bella intervista di Michele Boldrin che Phastidio ha riportato è tutta da ascoltare, perché è una fotografia tagliente e sintetica del marasma che stiamo vivendo come paese. Chiariti i meccanismi che hanno portato alla creazione del nostro debito pubblico con un linguaggio pacato ma lucidissimo – e comprensibilissimo persino per chi non mastica granché di economia -Boldrin giustamente individua quella che forse è la piaga maggiore dell’Italia di oggi: cioè non i guai contabili in se stessi, ma la mancanza di una classe dirigente in grado di affrontarli e di metterci una pezza.

Secondo Boldrin il nodo della mancata crescita dell’Italia sta principalmente là, cioè in un sistema trasversale in cui il merito non viene premiato e nella stragrande maggioranza dei casi nemmeno riconosciuto; per cui i giovani pieni di talento, quelli preparati e con la marcia in più che potrebbe suggerire nuove soluzioni e vie di uscita, finiscono, dice Boldrin, per essere costretti ad emigrare all’estero; e un paese in cui ogni anno c’è una emorragia di 1000, 2000 persone altamente qualificate che vanno a portare altrove le loro competenze è un paese destinato al declino.

Ecco, io temo che l’analisi di Boldrin, da questo punto di vista, sia persino troppo ottimistica, perché, vista da dentro, in Italia la situazione è persino peggiore. Oltre all’emorragia dei 1000/2000 talenti che fanno o han fatto al valigia e se ne sono scappati verso lidi più ospitali, la crescita italiana è bloccata anche dal mancato riconoscimento del valore di quelli che, per mille motivi contingenti (famiglia, vicende personali, forse una valutazione iniziale errata delle possibilità offerte dal paese o l’intento missionario di fare una battaglia dall’interno per cambiare la situazione) hanno deciso di restare. È una intera generazione di 30/40enni che, oggi come oggi, quando sono fortunati, si ritrova però bloccata in una sorta di limbo: anche qualora abbiano raggiunto – e non capita a tutti – la sicurezza di un posto di lavoro coerente con gli studi fatti, le loro mansioni sono quasi sempre al di sotto delle reali competenze acquisite, e la rigidità del sistema impedisce loro nella quasi totalità dei casi di proporre e far adottare soluzioni innovative.

La situazione nel campo universitario è un bell’esempio di come vanno le cose. Nella stragrande maggioranza dei casi, salvo poche isole felici legate alla presenza di singoli maestri illuminati e capaci di battersi come leoni per procacciare fondi e tenere in piedi equipe valide (formate però in larga parte da precari), i ricercatori si ritrovano ad essere sotto la tutela di “baroni” non solo vecchissimi di età, ma spesso meno qualificati scientificamente di loro e assai meno aggiornati: professori universitari la cui ultima pubblicazione risale a decenni addietro, ignoti ai simposi internazionali, saliti in cattedra all’epoca perché facenti parte della cordata politica giusta, spesso privi di veri contatti con il mondo accademico estero che conta e nonostante questo finanziati per anni in tutti i loro capricci. Tizi del genere non sono in grado di promuovere il talento, anche quando per caso lo incrocino per via; peggio, di solito ne sono sospettosi e cercano di farlo fuori alla prima occasione, o lo tengono in posizione di subordine a vita, facendosi belli dei suoi risultati ma evitando accuratamente di adottare le soluzioni, anche organizzative, da lui suggerite, perché esse minerebbero quel sistema di clientele che li tiene in vita. Meccanismi molto simili si trovano anche nelle grandi aziende, in cui il “cane sciolto”, pur se assunto per meriti del suo sfolgorante curriculum, si trova però poi a dover fare i conti con le cordate interne, politiche o di fazione, per cui è costretto a schierarsi e cercarsi un protettore, o viene presto isolato come un batterio pericoloso.

Nel tanto lodato mondo della piccola e media impresa non è che le cose vadano molto meglio. Là, diranno i liberisti, il mercato dovrebbe spingere la selezione dei migliori, perché sennò la fabbrichetta fallisce e buona notte. Ma nella pratica le cose sono più complesse. Nelle imprese medio-piccole la conduzione è familiare, ma questo vuol dire che spesso è rigorosamente familistica: l’imprenditore-fondatore-paròn de la baraca è il padre, e la filiera del potere passa in automatico ai figli e nipoti. Difficile che vengano assunti “estranei” a meno che non siano in qualche modo già inseriti nel circolo delle conoscenze: operai ed impiegati vengono preselezionati, nella maggioranza dei casi, fra coloro che sono parenti/amici/conoscenti di chi c’è già. Certo, il manager “foresto” può arrivare, ma spesso e volentieri si scontra con un ambiente che pretende da lui integrazione immediata e totale, una sorta di “assorbimento” ed omologazione, anche nella vita privata. Inoltre la struttura piccola e familista non offre poi grandi possibilità di carriera al suo interno, perché, alla fin fine, quando si vanno a prendere le decisioni strategiche, el paron xé sempre el paron e i so’ fioi i soì fioi, e la fabbrichetta/industria/impresa viene vissuta come proprietà esclusiva e feudo della famiglia.

Il deficit di competitività dell’Italia, dunque, non è solo dato da chi se ne va, ma anche da chi resta, che è bloccato all’interno di questa serie di meccanismi perversi: se cerca di combatterli, spesso viene isolato e quindi diventa poco incisivo; se accetta di adeguarsi, oltre alla naturale frustrazione che comporta il dover rinunciare ad una parte di se stesso, ha poi poco da offrire di nuovo al sistema, perché di fatto è diventato una tessera del “vecchio”. Chi riesce poi eventualmente ad emergere, ce la fa a prezzo però di ferocissime battaglie consumate nel segreto di corridoi e stanze: in buona sostanza, vince, magari: ma per farlo ha dovuto spendere una tale quantità di tempo e di energie che poi la sua reale competitività sul mercato è ridotta dalla stanchezza accumulata per strada, e vincolata ai favori dovuti alle cerchie che lo hanno aiutato nella scalata verso la vetta.

Quindi la fuga verso l’estero, se uno ne ha la possibilità, sembra davvero la sola cosa da consigliare ai meritevoli, e difatti ormai i docenti di tutti i livelli lo fanno con i loro alunni più bravi. Ma anche qui si sentono sinistri scricchiolii. Finora, infatti, il sistema scolastico italiano, checché se ne dica, soprattutto al nord e soprattutto nei licei, ha fornito, pur con tutti i suoi limiti, una buona formazione, e decoroso era anche il livello delle lauree. Ma questo sarà ancora valido in futuro? La scuola italiana sta mostrando in questi ultimi anni le corde, è al collasso, e l’intero sistema della formazione, a tutti i livelli, richiederebbe un ripensamento generale e generalizzato (non gli aborti prodotti negli ultimi decenni, fra tagli indiscriminati e restyling di facciata senza alcuna vera ricaduta sulla qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento). Il rischio è che i talenti del futuro, ahimè, non abbiano nemmeno più la scappatoia o la valvola di sfogo che i più coraggiosi e fortunati hanno avuto fino adesso: se vorranno emigrare, con quello che avranno imparato in patria nessuno all’estero li vorrà più.

30 Comments

  1. D’accordissimo su tutto, anche se forse sul fatto che il livello delle lauree sia decoroso è un’affermazione un po’ ottimista. 😉

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  2. @groucho: Se si vanno ad esaminare i ragazzi che si laureano con buoni punteggi in Italia (parlo delle lauree quadriennali del vecchio ordinamento o di quelle attuali specialistiche) ci si rende conto che, dopo il conseguimento del titolo, molti di loro partecipano a bandi di borse per l’estero e non hanno alcuna difficoltà a vincerli. Amici che lavorano come docenti all’estero spesso negli anni passati mi hanno raccontato che in realtà gli studenti italiani borsisti arrivano molto ben preparati e spesso là poi rendono molto di più, anche perché in Italia han perso anni a combattere e perdere tempo con pastoie burocratiche assurde, mentre all’estero, dove la burocrazia è più efficiente, si possono finalmente dedicare solo allo studio e alla ricerca e sono apprezzatissimi.

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  3. Non posso che concordare con Galatea, anche per quanto riguarda la sua risposta delle 7:43. Da docente universitario ormai all’estero da 17 anni posso dire che almeno nel mio campo gli studenti italiani, specialmente a livello di dottorato, sono in media ottimi e spesso possiedono una preparazione superiore ai loro colleghi inglesi e americani grazie a una maggiore cultura generale.
    Per il resto, vorrei aggiungere che il “baronato” nelle università italiane è nocivo non soltanto perché non premia i più meritevoli, ma anche perché incoraggia una mentalità deleteria sotto tutti i punti di vista: accademico, civile, politico, ecc. Si premiano la fedeltà cieca ed assoluta, il servilismo, la “discrezione” (leggi: omertà), le parentele e le relazioni personali. Insomma: è vero un sistema mafioso in cui invece di uccidere l’avversario lo lasci fuori dai posti che contano o cerchi di allontanarvelo. E gli studenti non sono stupidi, ma si rendono conto di tutto questo e ne traggono la ovvia lezione su come comportarsi in Italia se vuoi “arrivare”, come si dice.

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  4. Bel post, complimenti. Secondo me uno dei problemi, oltre a quelli che tu hai lucidamente elencato, è un sistema scolastico che nella sua struttura risale alla riforma Gentile ed era pensato per una elite, massimo il 10% della popolazione. Per l´istruzione di massa, necessitava una riorganizzazione che non c´è mai stata, in quanto si è sempre preferito rattoppare.
    Dove poi la scuola italiana è drammaticamente indietro, è nel campo delle lingue straniere. Sentite i giovanissimi tedeschi, olandesi, svedesi come parlano in inglese e confrontateli coi nostri adolescenti che di norma sanno a malapena tradurre una canzone…

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  5. molto ben scritto, sono d’accordissimo con te e con guido dalla germania. La nostra scuola non è mai stata rinnovata come si deve, si sono solo messe delle “pezze”, senza parlare della parzialità con cui si trattano scuole pubbliche e private.

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  6. @guido: Sì, concordo. Si è pensato e si pensa ancora che la scuola di qualità per la massa possa essere realizzata semplicemente “aprendo” ai grandi numeri le scuole pensate originariamente per l’elite. Ma non è vero, non funziona, anzi diventa discriminante per chi non ha alle spalle una famiglia in grado di supportarti sia economicamente che culturalmente. POi in questi anni spesso ci si è battuti più per salvaguardare i posti di lavoro che per creare un sistema efficiente e con personale competente e motivato.
    Quanto alle lingue straniere, lo so. Ma anche solo mandare dei film non doppiati in tv alcune ore al giorno sarebbe utile, e costerebbe in pratica nulla, eh.

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  7. Concordo in pieno.
    Mi hai ricordato il caso di una media azienda delle mie parti dove il padre ha dato ai figli degli splendidi uffici e titoli altisonanti, dopo di che ha detto a tutti di ignorarli 🙂
    Purtroppo è un’ eccezione.

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  8. @guido
    Per i tedeschi non ci sono alibi, ma gli olandesi(e credo pure gli svedesi) hanno TUTTA la TV in originale sottotitolato (nota di colore: perfino molti programmi in olandese hanno i sottotitoli in olandese per via dei dialetti).
    In Belgio i fiamminghi a 10 anni parlano inglese correntemente, i valloni son poco meglio dell’ italiano medio.
    Va detto che i tedeschi parlano molto meglio di noi ma non quanto gli olandesi, ad occhio li metterei a metà strada.

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  9. Vedi, mia cara, ciò che denunci nel post è tutto vero. Ma è anche figlio d’una certa mentalità che prese piede, a scapito di tutto, negli anni ’70. Tu sei troppo giovane e non rammenti certo i manifesti del tipo “Lavorare meno ma lavorare tutti”, “Il salario è una variabile indipendente”, oppure l’ostracismo sistematico – che a volte diveniva vero e proprio “mobbing” (anche se allora non sapevamo cosa volesse dire) – che la sinistra propugnava nei confronti di qualsiasi riconoscimento meritocratico. Da quegli anni provengono gli automatismi di carriera “a prescindere”, l’inamovibilità quasi assoluta, gli scandalosi nepotismi made in DC e PSI che, dalla involontaria ed autolesionistica complicità degli altri, costruirono le fondamenta d’un potere (il sottobosco degli incarichi) che s’è semplicemente trasferito ai suoi attuali detentori. Se oggi perfino i commercianti (non i metalmeccanici, ma i commercianti, ossia quelli che dovrebbero essere gli “stakanovisti” per antonomasia, in quanto mossi dal miraggio del profitto) si rifiutano di aprir bottega due ore in più, perché anche loro “hanno diritto di riposare” e pretendono che pure chi vorrebbe non possa farlo, dobbiamo solo ringraziare quegli anni. Non lamentiamoci, dunque. C’era allora chi l’aveva predetto che ci saremmo ridotti così: le solite Cassandre, ovviamente derise e vituperate, come lo è per certi versi oggi il prof. Michele Boldrin. Ma io me le ricordo molto bene, anche se tanti – troppi – fingono d’avere la memoria corta.

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  10. Cara Galatea,

    ottima riflessione, corretta da tutti i punti di vista.
    Dato che faccio parte del sistema universitario, (sono un 39enne fortunato che è riuscito a vincere un concorso appena in tempo) vorrei solo aggiungere un meccanismo troppo spesso sottovalutato che agisce in tutti i campi delle società, e quindi anche all’interno delle università. Se è vero che molti docenti sono dei baroni (quanti non saprei dirti), e alcuni sono “eroi”, in realtà c’è una grandissima parte di docenti che, sebbene riconosca in astratto i problemi, nei comportamenti di tutti i giorni si adegua all’andazzo, ripetendo meccanismi e ragionamenti triti e ri-triti, senza avere la forza o la voglia di provare a cambiare le cose per paura di perdere il proprio orticello.

    E’ una generazione che è cresciuta seguendo certe regole, e trova difficile liberarsene cambiando totalmente mentalità. Il conservatorismo è la vera rovina di questo paese, il riformismo nessuno sa cosa sia.

    Ti faccio un esempio concreto. Ora che il ministero taglia barbaramente, molti colleghi saranno costretti a rinunciare ad alcuni dei loro fondi, cosa che potrebbe portare a ridurre o eliminare alcune delle miserrime borse che erogano ogni anno ai loro studenti. Si tratta per lo più di docenti dei settori di scienze sociali, come economia, scienze politica, giurisprudenza, etc, ma anche docenti meno bravi di alcuni settori scientifici.

    Molti docenti nelle discipline tecniche, invece, con in testa ingegneria, godono ancora di una buona quantità di fondi non ministeriali, erogati dalla comunità europea in seguito all’approvazione di progetti di ricerca, o erogati direttamente da aziende private per applicazioni pratiche della ricerca. Su tali fondi le università operano un prelievo che va a coprire le spese indirette (utilizzo dei laboratori, carta, telefono, e altre infrastrutture). Nella mia università tale prelievo ammonta al 12% circa, una quantità in fondo abbastanza bassa. Posso garantire che quasi mai le risorse rimanenti vanno in tasca ai docenti che lavorano al progetto; semmai vengono utilizzate per borse di studio, contratti di ricerca, etc. Si crea quindi una massa di precari non indifferente, gente che preferisce fare cose interessanti pagata decentemente, piuttosto che andare nel privato a fare cose meno interessanti ma pagati meglio. E’ un bene per il paese? Io credo di sì, nonostante tutto, ma se ne può discutere.

    Orbene, quali incentivi ha un docente universitario a fare proposte di progetto alla UE, o ai privati? Solo due: quello di ingrandire il proprio gruppo di ricerca, e quello di tenere con se gli studenti migliori. Per contro: in tasca non gli entrano soldi, dal punto di vista curriculare tale abilità di raccolta fondi vale poco o niente, e i progetti sottragono tempo alle pubblicazioni scientifiche. Insomma, bisogna essere un po’ matti per fare queste cose. Persino in Spagna una parte piccola del fondo va a incentivare lo stipendio del docente, in Italia no.

    Naturalmente, i docenti di scienze sociali sono sempre stati invidiosi dei colleghi che fanno le “marchette”. Proprio così: un mio collega insiste con la parola “marchetta”, con voce sprezzante, velatamente insinuando che invece ci mettiamo qualcosa in tasca in nero.
    Orbene, in quest’epoca di tagli, che fanno i colleghi di scienze sociali? Propongono di alzare la “tassazione” sui progetti esterni al 30%, in modo da redistribuire i fondi aggiuntivi così ottenuti presso i colleghi più sfortunati a pioggia, cioè senza differenziazione di merito. Io lavoro, e loro godono dei frutti.

    Chiunque se ne intenda di economia sa bene cosa succederà: molti colleghi “eroi” smetteranno di fare gli eroi, e cominceranno a fare consulenza privata per le aziende, all’italiana, come già fanno quasi tutti i docenti di giurisprudenza con i loro bei studi di avvocatura. L’università si impoverirà, non beccherà neanche più il 12%, ci perderanno tutti. Ma hai voglia di provare a spiegare questo elementare meccanismo: illustrissimi docenti con tanto di pubblicazioni internazionali semplicemente non ci arrivano. Ognuno vuole continuare a coltivare il proprio orticello, portare avanti i propri raccomandati, brigare al Senato accademico, in regione, al ministero per ottenere quell’emendamento che gli porterà qualche migliaio di euro in più l’anno. Meritocrazia? boh, se ne sente tanto parlare…

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  11. Brava Galatea, concordo in pieno con la tua analisi.
    Io sono un fisico quarantenne, faccio il ricercatore in un ente pubblico di ricerca e sono uno dei fortunati che sono riusciti a rimanere. Vorrei descrivere tutta la frustrazione che mi porto dentro nel vedere, giorno dopo giorno e anno dopo anno, che il mio brillante curriculum, i brevetti, le pubblicazioni su riviste prestigiose, non solo non servono a niente ai fini di una eventuale carriera, ma sono visti con fastidio da chi non tollera interferenze nella sua gestione del potere e delle clientele. Però non aggiungerei nulla di più a ciò che hai brillantemente descritto con poche frasi. Quindi, mi limito a ringraziarti, perché ogni tanto fa bene sentirsi capiti da qualcuno.
    Un giorno la mia riserva di entusiasmo si esaurirà, e tirerò anche io i remi in barca come tanti altri, barattando l’anelito all’eccellenza e la passione per la scienza con il quieto vivere e la tranquillità. E forse starò meglio di come sto adesso.

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  12. Un paio di cose però:

    1. che i ricercatori vadano all’estero è normale e succede in tutti i Paesi. Lo fanno dal medioevo ed uno dei punti di forza dell’accademia. La differenza è che negli altri Paesi dicono “che figo vado a lavorare all’estero”, in Italia ci si mette a piangere perché oddio oddio devo andare all’estero morirò di fame e di stenti ucciso dalla malaria con i cannibali che mi mordono le caviglie. Bisognerebbe misurare quanti ricercatori stranieri vengono in Italia, quanti studenti vengono in Italia a prendere una laurea, per capire meglio la situazione.

    2. chiunque abbia passato più di un semestre in una facoltà qualunque sa benissimo che la carriera accademica significa leccare il culo al docente di turno. E’ del tutto inutile intraprendere quella carriera e poi lamentarsi di questo fatto, che sta alla base della carriera accademica.

    Chi ha voluto fare il ricercatore lo sapeva da prima e ha accettato di far parte di quel sistema, non c’è nulla di cui lamentarsi ora (tra parentesi, ovviamente sperando che la livella faccia il suo lavoro e gli liberi un posto, che i baroni mica sono immortali e in 50 anni di storia repubblicana di baroni ne sono morti tanti, ma l’andazzo non è cambiato mai, segno che quelli che hanno preso il posto dei baroni si sono ben guardati dal far diversamente, così come quelli che prenderanno il posto dei baroni di oggi non cambieranno niente domani).

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  13. non so se far leggere questo post ai miei figli. magari si, così ho una scusa valida per andarmene pure io. nell’azienda dove sono io da qualche anno sono entrati dei giovani neolaureati, la maggior parte per chiamata diretta. ottimi ragazzi, con idee ovviamente nuove e linee di pensiero fuori dagli schemi.
    tutto andrebbe bene, se non fosse che la classe dirigente utilizza questi ragazzi per scalzare i lavoratori più vecchi. io, ed i miei colleghi, che non abbiamo il rispetto reverenziale verso i nostri dirigenti, spesso non esitiamo a far notare le castronerie che tentano di farci fare.
    un giovane, appena laureato, con un posto di lavoro spesso a tempo indeterminato, chiamato direttamente dal dirigente Tizio, per mantenersi il posto farà di tutto per assecondarlo anche in scelte aziendali obiettivamente errate.
    è in questo modo che ci si crea un esercito di persone che, prese per il collo, accetteranno qualunque orario imposto, qualunque mansione, pur di mantenersi il posto. mi dispiace per questi ragazzi, mi dispiace sul serio e naturalmente non ce l’ho con loro, capisco che hanno bisogno di tenersi il lavoro e magari pensare ad un futuro.
    proprio perchè non voglio che i miei figli siano ridotti così che farò di tutto per mandarli via da qui.

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  14. @Tommy: 1)Ricercatori stranieri o professori stranieri che vengono in Italia? I dati sono sconsolanti.Giusto per sei mesi, e quasi sempre sono docenti di materie umanistiche, che sfruttano la possibilità per farsi un grand tour del Belpaese, in puro stile gentleman che fa un giro fra i cannibali. Gli altri non sono affatto attirati: e perché dovrebbero, poi? Pastoie burocratiche a non finire, gelosie degli indigeni, fondi ridicoli…persino il famoso decreto che doveva favorire il “rientro” dei cervelli italiani in fuga si è rivelato una ciofeca pazzesca: non riusciamo nemmeno a convincere i nostri a tornare, figuriamoci ad attrarre altri a venire da noi.
    2)No, chi va all’estero non frigna. Semmai fa un sospiro di sollievo. A quarant’anni è ordinario e in Italia ci torna giusto per le vacanze. Chi invece va all’estero per una esperienza di qualche mese o anno parte spesso con grande entusiamo, impara la lingua, accumula esperienze internazionali. Poi torna in Italia, presenta il suo bel curriculum e viene scartato in favore di un tizio che non si è mai mosso da casa, parla sì e no il dialetto, ma è il nipote del cugino del figlio di uno zio.
    3) il problema è questo: si fa carriera leccando il culo, o ti adegui o sei fuori. Quindi la soluzione, come dici tu, quale sarebbe? Smetterla anche di dire che fa schifo? Quelli che hanno accettato il sistema sono uguali uguali ai vecchi baroni di cui sono stati pupilli: morti i baroni, gli succedono con la stessa mentalità. Stiamo anche zitti, che va ben così?

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  15. C’è solo un problema : Boldrin, e lo dimostra la critica che ha fatto alla lettera degli economisti di cui si è parlato sul Sole 24 Ore a Giugno, dà del debito pubblico una visione assolutamente fuorviante (altro che semplice). Seguirlo sulla sua strada ci porta solo ad una visione utopistica (da destra) che ci porta sempre e comunque a vedere nello Stato il male e nell’impresa il bene. Anche nel criticare i baroni, Boldrin tende a coinvolgere ad es. nel campo dell’economia i keynesiani, mentre i bravi isolani sarebberi gli ultraliberisti come lui.
    Penso che egli non ci possa dire nulla che non sia capzioso.

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  16. Pingback: Phastidio.net
  17. Stiamo anche zitti, che va ben così?

    A parole non si è mai risolto niente. Sono 70 anni in Italia che ci si lamenta, non mi pare sia servito a molto.

    Io dico solo una cosa: quando mi sono laureato, potevo scegliere di continuare il percorso accademico. Ma avevo sotto gli occhi cosa volesse dire e a me non stava bene.

    Invece, tutti i miei colleghi che, pur sapendo e vedendo, hanno voluto continuare, non possono lamentarsi di come funzioni il sistema: non è questione di giusto o sbagliato, ma di realtà fisica.

    Sapevano qual’era la realtà, non gli piaceva la realtà che vedevano, ma hanno fatto finta che la realtà non fosse quella ma un’altra e hanno preso delle decisioni in base alla realtà che esisteva nella loro testa.

    E di conseguenza hanno dato il loro contributo al perpetuarsi del sistema che dicono di non apprezzare.

    Possiamo scrivere e dire tutto quello che vogliamo, ma prima bisogna fare i conti con la realtà, poi ci si fa filosofia attorno.

    Tra l’altro, se a scuola e all’università mi avessero insegnato questo, invece della realtà a misura di ricercatore che piace tanto a molti ma che non esiste, magari mi sarei risparmiato anni e incazzature e ora starei pure economicamente meglio…

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  18. @pensatoio: Personalmente io cerco di evitare di decidere se uno sta dicendo delle cose intelligenti basandomi sul fatto che voti da una parte o dall’altra. Per quanto riguarda l’intervista di Boldrin linkata, mi pare che abbia detto cose molto sensate sull’analisi di come si sia formato il debito pubblico italiano a partire dagli anni ’70 (in realtà, a risalire nella storia, l’andazzo era lo stesso ereditato dal Fascismo): i partiti hanno spesso e volentieri concesso indennizzi, incentivi etc. come dei foraggiamenti a pioggia, un corrispettivo moderno delle antiche frumentationes, per evitare il conflitto sociale. Dimenticandosi però che quando si spende (e per di più a pioggia e senza nemmeno controllare dove e a chi vanno a finire i soldi) prima o poi ci si ritrova immersi nei debiti. L’idea che non si può spendere più di quanto si guadagna o si va a remengo non mi sembra particolarmente di destra, mi sembra buon senso molto proletario. Quanto poi a Boldrin, non so se sia di destra, ma ho dei dubbi. Peraltro, se non ho capito male, credo che sia consulente del governo Zapatero. Vedi un po’ tu.

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  19. @Tommy: Forse sono un po’ ottusa io, ma mi continua a sfuggire la costruttività del tuo intervento. Ok, tu te ne sei andato perché avevi capito che l’ambiente era di merda, e quindi tutti i colleghi, che sono rimasti, sono invece dei venduti e asserviti, che ora non hanno il diritto di lamentarsi, quindi anche scrivere che l’Università oggi è un ambiente che fa schifo è inutile e scontato.
    Cominciare a denunziarlo, caro Tommy, è proprio iniziare a fare i conti con la realtà come tu dici: se si sta anche zitti e non si dice che il sistema è ridotto ad una fogna e per questo l’Italia non è più competitiva, ci si comporta esattamente come quei tuoi colleghi che tu tanto vituperi: si tace e si lascia che le cose vadano così.
    Vedi, Tommy, dire:”Io ho capito che era uno schifo e me ne sono andato!” non è che risolva la questione: perché se tutti se ne vanno, nel sistema restano in circolo solo i peggiori. Inoltre le università servono: se tutti se ne vanno a fare altri lavori, la ricerca, quella che si può fare solo nelle università e con il personale specializzato, chi la porta avanti? Nessuno, e l’Italia non è più competitiva manco in quello.

    Ah, una piccola notazione ortografica (scusa, ma è un pugno su un occhio): ti sei laureato e sei certo competentissimo nel tuo settore, ma, per favore, “qual era” si scrive senza apostrofo.

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  20. Boldrin è un esponente dell’ala più liberista degli economisti nostrani, di quelli che “meno stato e più mercato” è la vera (e quasi unica) parola d’ordine.
    Se questa intervista risulta ragionevole anche a me, è solo perchè Boldrin dice solo cose scontate e non prova nemmeno a proporre soluzioni…

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  21. quindi tutti i colleghi, che sono rimasti, sono invece dei venduti e asserviti

    Sì certo, ho detto proprio questo: “venduti” e “asserviti”, c’è scritto a chiare lettere no?

    se tutti se ne vanno, nel sistema restano in circolo solo i peggiori. Inoltre le università servono: se tutti se ne vanno a fare altri lavori chi la porta avanti? Nessuno

    Quarant’anni di tenebre, eruzioni, terremoti!
    Morti che escono dalle fosse!
    Sacrifici umani, cani e gatti che vivono insieme! Masse isteriche!

    Ah, una piccola notazione ortografica (scusa, ma è un pugno su un occhio): ti sei laureato e sei certo competentissimo nel tuo settore, ma, per favore, “qual era” si scrive senza apostrofo.

    Uh, mammamia, ho fatto un errore di ortografia. Scrivici un post a riguardo, un semplice commento non mi pare abbastanza incisivo.

    Guarda, ho capito il tenore della discussione. Ti auguro una buona denuncia del sistema italiano, siete in così tanti ormai a denunciare su internet che ne otterrete sicuramente qualcosa, no?

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  22. @Tommy: Sì, certo, Ok, il mondo viene sempre salvato invece da chi si limita a dire: “Ossignora mia è tutto un mangia mangia e quelli che sono dentro sono tutti ladri! Per fortuna che io sono l’unico onesto e davvero intelligente ne sono stato fuori.” Se il livello della tua replica è questo, hai ragione: è inutile continuare.
    Stai bene.

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  23. Quanto poi a Boldrin, non so se sia di destra, ma ho dei dubbi.
    Ma cosa vuol dire “è di destra”? E poi, di quale destra?
    La destra reazionaria, monarchica e filoclericale, di Joseph de Maistre? Quella espropriata a Nietzche da più parti o la destra “delirante” di Evola? La destra filovaticana di Rosmini o quella di in “doppio petto” di Giovanni Gentile, col suo “stato etico”? La destra antistorica di Schopenauer o quella abborracciata di Berlusconi, col suo finto liberismo? La destra populista dei dittatori sudamericani o quella “elitista” di Vilfredo Pareto? La “destra sociale” di Fini e Armani o quella conservatrice di Benedetto Croce? La destra razzista di Alfred Rosemberg o quella “decisionista” di Carl Schmitt?
    Certe persone non possono essere etichettate con attributi che competono solo agli sciocchi, e ciò perché le menti veramente libere non accettano pastoie di sorta.

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  24. Boldrin è sostanzialmente un libertario: di solito li classificano a destra, ma non hanno nulla a che vedere ne con il PDL ne con i reazionari alla Bush (i repubblicani hanno una corrente libertarian, ma ha fortissimi attriti con la fazione confessionale e reazionaria maggioritaria nel partito)

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  25. Nel mio commento c’è un link, Gala, e la tesi sostenuta non si limita al Fochi. Mi sembra interessante, soprattutto per te che sei un’addetta ai lavori. Io, se permetti, non m’impelago più di tanto in cose che non so e che m’interessano relativamente. Giudico l’italiano una lingua eccessivamente (ed inutilmente) complessa rispetto alle esigenze comunicative d’un mondo globalizzato. Altro che dialetti: se fosse per me, inglese per tutti.

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