Il meccanico e il mondo di Luca Sofri

Dedicato a Marco Nurra

Ieri, per esempio, avrei avuto tanto bisogno che il meccanico desse una controllatina alla mia macchina, che ha i suoi anni e ogni tanto una registrata la richiede. Allora ho provato a fargli un discorso impostato così: «Caro meccanico, il mondo è cambiato in questi ultimi anni, te ne sei accorto? Voglio dire, questa cosa che tu mi controlli il motore per dirmi che tutto va bene, no? Ecco, perché poi vuoi che io ti paghi? Guardami negli occhi, caro meccanico: il tuo, in fondo, è un lavoro che ti dà tante soddisfazioni. E’ quello che sognavi di fare fin da quando eri piccolo! E non dirmi di no, meccanico, perché io me lo ricordo quando andavamo assieme alle elementari, e tu smontavi le macchinine di nascosto durante l’ora di storia, invece di seguire le spiegazioni della maestra! Quindi, non essere ipocrita, meccanico: tu a fare il meccanico ti diverti. Ci ricavi un sacco di soddisfazioni, un sacco di visibilità, perché tutti quando vedono la mia macchina in ordine dicono: «Eh, sfido, va dal suo meccanico, lei, che è bravissimo!». Quindi, meccanico, parliamoci chiaro: visto che tu ricavi un sacco di massaggi al tuo ego per il lavoro che fai, sulla mia macchina, dovresti accontentarti di questo, e non presentarmi il conto. Che poi, detto tra noi, è anche una cosa volgare.»

Mi ha guardato e mi ha presentato il conto lo stesso.

E’ perché non legge Luca Sofri, secondo me.

9 Comments

  1. Ma il meccanico e il giornalista sicuramente si divertono e hanno soddisfazioni altre oltre il vile denaro e farebbero a meno di essere retribuiti. Anche io lo farei, se potessi. Solo che poi dovrebbero (dovremmo) convincere la banca e il fruttivendolo e tutti gli altri a non farsi pagare il mutuo, la frutta, eccetera. Ci riusciranno (riusciremo)?

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  2. Dacché il meccanico ha smesso d’occuparsi del motore a cui stava lavorando, t’ha squadrato per bene da testa a piedi, soffermandosi nei punti nevralgici con quel suo sguardo penetrante da disertore della Legione Straniera, s’è grattato la barba incolta di tre giorni cresciuta a chiazze negli spazi di pelle lasciati liberi dalla clemenza del vaiolo, s’è dato una bella rimescolatina soddisfatta al pacco, s’è ripulito per bene le mani sporche d’olio e di grasso su di un canovaccio ch’era già più lurido delle sue stesse mani, t’ha regalato un bellissimo sorriso a quattro denti d’oro messo di traverso a una magnifica cicatrice che percorreva tutto il viso dal mozzicone d’orecchio sinistro alla punta del mento, se avvicinato compiaciuto al tuo lobo e t’ha sussurrato dolcemente con quel suo fiato all’essenza di King Kong [*]: “Eccome no, Signurina. Venga di là un minutino, nell’ufficietto, che ne parliamo a quattrocchi e poi magari telefoniamo pure a Luca”.

    [*] China Martini e cognac.

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  3. Negli anni 60, Asimov prevedeva che nel momento in cui le macchine avrebbero eliminato gran parte del lavoro, tutto il lavoro rimanente, che giocoforza sará quello intellettuale, di grande specializzazione o di grande passione, sarà comunque poco e quindi chi lo vorrá fare dovrá (in qualche modo) pagare per farlo.
    Se consideriamo che questo momento è vicino (anzi, qualcuno dice che ci siamo già), forse l’uscita di Sofri è inopportuna in un mondo di precariato, come è il giornalismo, ma è c’è pure tanto precariato (e sfruttanento) perché molti ci vogliono entrare a qualsiasi costo.

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  4. Io credo che il lavoro del giornalista non sia «scrivere» ma mettere in azione un insieme di attività che trovano, di solito, nello scrivere una delle principali forme di produzione. Io scrivo, ogni tanto, perchè mi piace, e ogni tanto vengono pubblicate le mie righette. Ma io non sto tutto il giorno alla redazione, non sono nelle more di gestire un’attività complessa e con delle tempistiche spesso stringenti, perfino nocive alla salute. Quindi è ben giusto che i ragazzi della redazione siano pagati, ed io no, anche se la mia penna fosse quella d’uno scrittore di talento. Il giornalista «fa» un giornale, non è che «scrive» e basta. Sulla faccenda del meccanico, direi che la metafora seppur gustosa di Galatea non è troppo calzante. Chi sogna di fare il meccanico include, fin da ragazzino, l’idea di esser pagato per farlo. In un lavoro manuale, l’esser pagati fa parte del suo contesto naturale, proprio perchè tornando a casa la sera stanchi e imbrattati, fa parte della «poesia» l’idea di aver guadagnato la pagnotta. Un meccanico si sente tale se lo pagano altrimenti è un pensionato con l’hobby dei motori.

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  5. Se fosse un’analisi economica, che dice che non sempre il lavoro è pagato potrebbe anche avere ragione: noi consideriamo lavoro il lavoro fuori casa che viene retribuito, tutto il resto è “non lavoro”.
    Succede con i lavori domestici e di cura, le donne che non lavorano fuori casa di fatto lavorano come signore delle pulizie, qualche volta come baby-sitter dei figli o come badanti degli anziani genitori. Gratis. Fanno risparmiare alle famiglie un botto di soldi, che però non sono quantificati perché si sa che le donne si realizzano in questo modo, fa parte del “genio femminile”, diceva coso. Poi ci sono gli artisti e quelli che si sentono artisti, penso a Oliviero Toscani che ha più volte ribadito che a lui non sembra di lavorare ma si sente in vacanza da una vita. Anche questo è genio, ma l’arte è più maschile, diciamocelo. La logica di Sofri è analoga: il giornalista è un artista, e per di più lavora a casa, ma vuoi anche pagarlo? Che cosa volgare.

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