Socrate, il re dei troll

Lo dice anche Platone, e se lo ammette lui, che era il suo allievo prediletto e fedelissimo, c’è da credergli. Socrate era un mostro. Brutto di una bruttezza brutta che, ad incrociarlo per strada, faceva spavento. Grasso, basso, calvo, tarosso, con il ventre prominente, le gambette tozze ed arcuate: un nano da giardino obeso, un Babbo Natale mal riassunto, insomma, un vero insulto per una civiltà che ha prodotto i Bronzi di Riace e teorizzato proprio in quegli anni che il bello fosse il buono. Peggio di così ha fatto solo Hitler, che propugnava la bellezza della razza ariana e poi era un tappo gracilino dai ridicoli baffetti nerastri.

E passi la bruttezza: quello che ti colpiva in lui è che, oltre che brutto, Socrate era soprattutto un ossessionante scassamaroni. Te lo vedevi lì, seduto ad uno degli angoli dell’agorà, pacioso e apparentemente tranquillo come i tanti perdigiorno che passavano il tempo in non meglio identificate attività sulla piazza, e non gli davi due soldi; anzi, glieli davi, magari, perché si comprasse al bar un aperitivo. E invece era in attesa e in agguato, come un predatore sul ramo, perché Socrate un mestiere, anzi una vocazione ce l’aveva, e sviluppatissima. Non era un perdigiorno, era un acchiappagonzi. Se ne arrivavano da lui tronfi, con quella convinzione tetragona di essere inattaccabili che è il vero marchio del cretino, e iniziavano sicuri a parlare. Che diamine, erano intelligenti, loro, e ricchi, e persino belli, figurarsi se non sarebbero riusciti a polverizzare con due battute quello zotico orripilante, quella fetecchia che per qualche bizzarro motivo attirava nugoli di giovani accanto a sé, ma solo perché si sa, i giovani, in qualsiasi civiltà ed epoca, si fanno infinocchiare dai fenomeni da baraccone senza talento, si chiamino Socrate o Beatles, per dire.

Così, dicevamo, arrivavano là e iniziavano a pontificare. Era una civiltà, quella greca, che, oltre al bello uguale al buono, aveva anche inventato di recente la retorica, cioè l’arte del bel parlare, di sedurre le folle con i discorsi ben torniti, con le catene di parole che ti assoggettano e ti portano dove vogliono loro. Erano i re della piazza, i retori di Atene, capaci di rivoltare un uomo come un calzino, terremotargli le convenzioni più salde, ribaltargli addosso i luoghi comuni, e convincerlo a fare e votare ciò che fino a pochi istanti prima aveva giurato e spergiurato che non avrebbe fatto e votato mai. Erano bravi, i retori, ma erano bravi a parole: questo era la loro somma abilità e questo il loro limite, perché finché ti tenevano nel campo delle parole incastrate fra loro, tessute come arazzi preziosi sotto il naso dell’ascoltatore, non li si batteva mai, vincevano a mani basse, set, game e partita. Ma Socrate, ai loro discorsi, non reagiva come il l’uomo comune, che si faceva schiacciare da quella magnificenza di damasco prezioso. No, Socrate si comportava come la massaia che va al mercato per comprare il tappeto per il lavello, e quindi guarda sì il colore e il disegno, ma soprattutto la bontà della stoffa: lo gira, lo rimena, lo palpa, chiede al venditore di che materiale è fatto, controlla se i nodi della trama tengono, nota con occhio implacabile se qua e là c’è una falla o un’usura. Socrate era una massaia tignosa. E loro, i retori, abili venditori di fumo, davanti a lui si trovavano disarmati, perché ogni volta che provavano ad usarne una, delle loro parole ben acchittate, si trovavano lui che, con sguardo candido e sadico al tempo stesso, chiedeva: «E che vuol dire? Mi sai definire questa cosa? Me la sai spiegare meglio?»

No, non la sapevano spiegare. Se ne rendevano conto lì per lì, e soltanto quando Socrate gli poneva l’apparente ingenua domanda. Perché, come molti ancora oggi, si sciacquavano la bocca con alti concetti come il Bene, il Male, la Gloria e la Virtù, tutti corredati della maiuscola d’obbligo; ma erano stati sempre così presi a trasformarli in parola con la maiuscola che non s’erano mai presi la briga di riflettere cosa volessero dire di preciso, quelle robe lì che citavano in continuazione. Abituati a vincere a mani basse game, set e partita, ponfavano invece giù come pugili suonati, per knockout tecnico, mentre Socrate, sempre più implacabile, li randellava di domande, senza tregua, senza lasciar loro respiro.

Così quel satiro pacioso e grassoccio cui nessuno avrebbe dato una dracma, se non per offrirgli un aperitivo, si trasformava in un gigante, in un eroe, agli occhi dei giovani che stavano lì sulla piazza, e seguivano lo scontro come seguivano le corse dei cavalli o gli incontri di lotta ai giochi olimpici, e lo scontro si trasformava da discussione a lotta epica fra l’apparenza e la sostanza, fra l’abilità fine a se stessa e la logica, fra la Techne, come dicevano i Greci, ed il Logos.

Dei dell’Olimpo, che batoste che si prendevano, i retori. Dure da digerire, poi, perché pubbliche, e ancor più dure da gestire sul piano politico, perché il guaio di Socrate è che, in una città in cui tutti facevano politica, ecco, lui no. Non lo potevi incastrare dandogli del democratico o del filoligarca, non si ricordava una volta in cui avesse espresso una chiara critica contro il governo in carica o un elogio in suo favore. Niente, cittadino modello, obbediva alle leggi, andava in guerra quando glielo chiedevano, tornava a casa quando lo richiamavano, non bofonchiava e non protestava, non inneggiava alla rivoluzione e non presentava emendamenti in assemblea. Stava lì, sull’agorà, apparentemente a non fare nulla se non seguire con i suoi discorsi con l’implacabile filo logico del ragionamento, che lo portava a confrontarsi ed incastrare gente di tutti gli schieramenti, e far franare a tutti le loro più tetragone convinzioni. Avesse avuto internet, all’epoca, sarebbe stato il re dei Troll, il commentatore che si azzecca al moralizzatore di turno e commento dopo commento gli fa perdere la calma ed il senno.

Ma non c’era internet, allora, e quindi quel fastidiosissimo Socrate non lo poterono fermare con un semplice ban. Ricorsero ad un ban più definitivo e radicale, la cicuta, che gli fecero bere condannandolo a morte con l’accusa di aver introdotto nuovi dei nella città. Era una scusa, perché degli dei vecchi e nuovi Atene se ne sbatteva, ormai: la colpa di Socrate era di aver minato la fede nelle parole vuote che formavano gli slogan della propaganda, nell’aver insegnato a smontare le frasi retoriche e perfette cercandone il significato vero, nel aver preteso che tutti usassero la logica per radiografare le fregnacce che venivano loro propinate come verità assolute. Quando si definisce Socrate come un martire del pensiero, la frase suona ridicola, ed anche un po’ usurata, perché tanti dopo di lui sono stati etichettati così, magari anche a torto. E invece per lui la definizione è adatta, anzi è l’unica calzante: perché la sua colpa, la sua colpa somma, è stata proprio questa, di voler pensare, pensare, pensare. Continuamente, senza riconoscere steccati e limiti a quell’esercizio di critica e di verifica delle fondamenta che vengono date per scontate e invece così scontate non sono. Pensare, pensare, pensare, senza tregua, senza accettare mai una pausa o una fine. Pensare, pensare, pensare. È questo che non ti perdonano, eh.

12 Comments

  1. Bellissimo aritcolo che raggiunge l’apice con “…con quella convinzione tetragona di essere inattaccabili che è il vero marchio del cretino”
    Grazie!

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  2. L’ha ribloggato su Appunti Spettinatie ha commentato:
    Socrate era un troll.
    E quelli che blateravano “con quella convinzione tetragona di essere inattaccabili che è il vero marchio del cretino” esistono ancora, e probabilmente (quando trovano un troll coi contromazzi) si chiedono qual è il corrispettivo della cicuta ai tempi di internet, che il ban non è sufficiente.

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  3. E sì, a pensare, ed a esprimere i tuoi pensieri, passi e/o diventi scassamaroni.
    Oggi come allora (si parva licet, ovviamente). Gli “idola fori” son + vivi ora che allora, raffoprzati dai

    Anonimo SQ

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  4. ci si puo’ domandare: perchè nell’internet non è facile sviluppare quel rapporto dialettico, quel confronto d’argomenti, quella sana competizione di concetto e di parola? Perchè invece che questo virtuoso sviluppo assistiamo all’insulto facile, alla parola sguaiata e, nella maggior parte dei casi, inutile?

    la risposta è semplice semplice: Socrate e i suoi interlocutori intrecciavano l’incontro dialettico a viso scoperto, senza la facile viltà dell’anonimato che consente l’internet

    sulla qualità del pensiero socratico credo che basti la lettura dei magnifici dialoghi platonici, e nulla credo possiamo aggiungere che valga la pena d’esser letto in alternativa

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  5. Niente da dire, amo Socrate. E questo post gli hai reso pienamente giustizia. Complimenti!
    p.s. bellissimo il paragone con i Troll della rete! 😀

    G.

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  6. Magnifico.
    Il problema è distinguere quei troll socratici dalla massa di cafoni che insultano per maleducazione su internet come nella vita reale. E sono due categorie che i media e i politici continuano a mettere sullo stesso piano, giustificando con la censura della maleducazione la censura del libero pensiero…e soprattutto la censura di chi fa notare pubblicamente la stupidità dei “retori” (brividi) di oggi.

    Ho scritto la tesi di laurea su questo argomento, e di questo parlo nel mio blog. Mi farebbe piacere un feedback da chi scrive un post come questo, se ti va passa!
    tranelli.wordpress.com

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  7. Divertito e dico poco o nulla ma ogni frase dovrebbe essere messa in cornice e appesa fuori dalla porta. Di chi? Di tutti quei retori che sproloquiano tutto il giorno. Ci credo che i troll sia rivaklutati: alla testa c’è Socrate.
    Allora come oggi ci fanno bere la cicuta, così smettiamo di rompere.
    Complimenti

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  8. Insegnava a pensare e ad utilizzare il pensiero in maniera semplice e ragionevolmente ragionato.
    Insomma una brutta persona.

    Questo é entrato direttamente nella mia personalissima classifica dei dieci migliori post del 2014.

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