Giù le mani da Mameli, ovvero: vi prego, non taroccate gli inni per l’Expo

Ora, diciamocelo in tutta sincerità: lo sappiamo tutti che il testo di Fratelli d’Italia è bruttino, bruttino forte. È retorico, astruso, sta a metà fra il generoso slancio del cuore e la pattaccata da sagra di paese. Forse per questo è meravigliosamente italiano. Se lo teniamo così com’è e lo canticchiamo, non è perché ci piace, ma perché ci siamo affezionati. È come la coppa del Nonno o il Cornetto Algida, che mica li mangi perché sono buoni, ma perché ti ricordano quando eri piccolo o adolescente e mangiavi quei gelati. 

Ha dei termini dentro, l’inno di Mameli, e delle frasi che sono ottocentesche e come tali vanno cantate. Solo l’Ottocento romantico e strapaesano d’Italia poteva partorire certi vertici di ridicolo senza venirne sepolto: i protagonisti delle opere di Verdi, tipo quel pasticcione intronato di Manrico nel Trovatore, o quel cretino col botto di Alfredo. E solo l’Ottocento romantico poteva creare un inno in cui la metrica produce quella schifezza immonda di “Stringiamoci a coorte/ siam pronti alla morte”. Che fa a botte con ogni senso del verso e del ritmo, tanto è vero che poi tocca cantarla di fretta e pronunciando “stringiamci”, o, per quanto ti stringa, sulla musica non ci sta. 

È che Mameli non era un poeta. Era un ragazzo ventenne che s’è fatto ammazzare mentre tentava di difendere la Repubblica Romana, già morta di fatto, dai Francesi incombenti. Il come sia morto non è nemmeno chiaro, perché la vulgata lo vuole colpito dal piombo nemico, ma una versione meno generosa lo descrive accoppato da un fendente di baionetta menato da un commilitone scemo. La sagra di Ciccio Pasticcio o Fantozzi va alla guerra, in pratica. 

Il fatto è che l’inno, per quanto brutto, e ridicolo, e astruso, è un documento d’epoca. Va preso così com’è, perché o lo tieni o lo butti. Non lo puoi rimaneggiare, perché sarebbe come prendere il dagherrotipo della nonna giovinetta e ritoccarla con Photoshop per farla più simile alle bellezze di oggi.

Quindi, cari spin doctor dell’Expo, che avete ritoccato l’inno per trasformare “sian pronti alla morte” in “siam pronti alla vita”, no, non si fa. 

Tanto l’inno resta letterariamente brutto uguale, anche con la vostra variante, anzi peggio. Infatti così non ha neppure più il fascino del reperto storico originale. Sembra una di quelle brutte vecchie che si rifanno le labbra a canotto e le tette a melone, e così, oltre che vecchie, certificano anche di essere mignottone in sbaracco, pronte a qualsiasi inganno pur di tentare di restare sul mercato. 

Che poi anche questa, a ben pensare, sarebbe una foto d’epoca: quella dell’Italia di oggi, temo. 

6 Comments

  1. non è un fatto banale: il significato, il messaggio sottotraccia dell’aver osato la modifica è «attenzione, noi cambiamo tutto, anche laddove gli altri non avevano osato»

    ovviamente questo per alcuni è un pregio e per altri una iattura, ma il significato, neanche troppo nascosto è quello lì

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  2. Se il messaggio che si voleva fare passare è “noi cambiamo tutto, anche quello che gli altri non avevano osato” in questo caso il messaggio che é passat sarebbe “Noi cambiamo tutto, per il solo gusto di cambiare, e non stiamo a ragionare se il cambimento è migliorativo o peggiorativo”

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  3. Il cambiare per il gusto di cambiare non è mai produttivo o foriero di buone nuove. E’ un po’ come voler raddrizzare una casa sbilenca e orribile a vedersi, Il risultato non è mai piacevole da vedersi, anzi.
    Voler aggiornare l’antico è del tutto simile a certe persone, ormai avanti con l’età che si agghindano per far concorrenza ai nipotini di 10 anni. Sono ridicole e basta. Non diventano di certo moderne.

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