Le porte

Le porte. Nella sala sono tre, di legno grezzo: una chiusa, una aperta su una saletta con un gomitolo di acciaio che riempie tutto, la terza aperta ma chiusa da un muro di pietroni. Nel caldo africano di un sottotetto di Venezia, un muro fatto di porte, varchi aperti sul nulla o su un qualcosa, che, come tutto ciò che indefinito e inafferrabile, è una specie di nulla anch’esso.

Ti risucchiano, le porte, persino quando non ci passi attraverso, perché se ti sei spinto al di là anche solo col pensiero non sei più lo stesso di prima, sei già andato altrove; la soglia è sempre un limite e, se pure non lo varchi, già sapere che c’è e riconoscerlo per esistente ti rende diverso. Le porte aperte, le porte chiuse, sono i confini dei mondi e delle relazioni: la porta che si spalanca per accogliere quando arrivi in case amiche, quella che sbatte con rabbia ed è sinonimo di amore che finisce, un addio. Le porte come vertigine dei mondi possibili, ma scelti consapevolmente, perché oltrepassare la porta è un atto di decisione, una scelta, non qualcosa che ti capita, ma qualcosa che vuoi: andartene, fuggire, crescere o ricominciare.

Guardare le porte, nel caldo africano di un abbaino di Venezia, che è una porta lei stessa, aperta da sempre sul mare, l’Oriente, l’altro e l’infinito. Guardarle come si guardano le opere d’arte, come opere d’arte, che sono comunque qualcosa di diverso  ed altro dalla vita. Fermarsi davanti ad una tavola di Hugo Pratt, in cui il suo eroe parla di un cortile, a Venezia, pieno di porte, e in cui i Maltesi, se ne varcano una, possono trovarsi in qualsiasi altro luogo del mondo e in altre storie.

«Al Ponte delle Meravegie. – dico – Se vuoi ti ci porto, poi.»

Così, usciti dal museo, nel caldo africano, percorriamo il dedalo delle calli, budelli che si intorcolano fra ombra e lame di sole, attraversando infiniti archi e confini, ed arriviamo al cortile, con un pozzo al centro e le porte, chiuse. Ma c’è un cancello ad inferriata, e non si può entrare. Una porta, ancora una, sbarrata, che ci ferma, ci blocca, ci inchioda. Peccato, penso, perché sarebbe stato divertente prenderti per mano e varcare una di quelle porte, per vedere in che altrove si sarebbe piombati, con la allegra incoscienza di ragazzini che giocando si inseguono in un corridoio e aprono porte a caso.

Ma le porte sono così: dispettose, a volte, e chiuse. Sorrido. Andiamo a mangiare. Del resto, non è detto che funzionasse, il gioco: non siamo Maltesi, noi.

Il racconto è un racconto, ma la mostra è qua: Palazzo Fortuny, The Edge of becoming. Se vi va, è bellissima.

4 Comments

  1. Bello, il racconto. La mostra la vedrò è un sacco che non vado al Fortuny. Come mostre in questo periodo di biennale mi ha sorpreso una di arazzi contemporanei a San Servolo.
    Visto il Milione ieri sera San Trovaso. Sono un sentimentale e perciò mi è ripiaciuto moltissimo.

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  2. una porta la vedi e pensi «cosa c’è lì dentro?», poi ti guardi attorno e comprendi: «sono io che sono dentro, oltre la porta c’è il fuori»

    in realtà si passa gran parte della giovinezza sulla soglia, non esci, ma non ti decidi a rimaner dentro

    beato chi, alle porte, non ci fa caso

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