L’Isola è piccola, e il borgo ancora di più. Un grumo di cinque case cinque, raggomitolato sull’ansa della strada, dove passano appaiati sì e no due motorini, e, quando arriva una macchina, prima della svolta l’autista comincia a smadonnare in preventiva. Nei venti metri di slargo precedenti la curva a gomito successiva c’è tutto: l’edicola, che è anche il negozio di qualsiasicosa; la macelleria, che è anche polleria e rosticceria; il negozio di alimentari, che è negozio di alimentari e basta, ma di fianco, in quello che pare un garage dismesso, c’è il fruttivendolo. Il bar, invece, è proprio un bar, con fuori i tavolini, due, su una terrazzina in affaccio sulla strada. Sembra uscito da una pellicola degli anni ’50, tanto che t’aspetti da un momento all’altro di vederci entrare dalla porta De Sica vestito da maresciallo e la Bersagliera. Ha il bancone in finto legno con inserti in acciaio, dietro le scansie con il retro a specchiera, zeppe di amari che pensavo fossero ormai fuori di produzione da quel dì, il frigo a vetrinetta per i semifreddi, quello basso e tozzo per i ghiaccioli e i cremini, e sulla destra persino, giuro, un calciobalilla con gli omini rossi e blu e un flipper di quelli con la pallina e il tabellone che si illumina. Unica concessione alla modernità moderna è la tv, che in un bar del genere ti aspetteresti di quelle ancora in legno con l’accensione a manopola, magari in bianco e nero, sintonizzata sul primo canale perché non l’hanno mai informata che nel frattempo ne hanno inventati un fottìo. Invece lo schermo è un ultrapiatto di ultima generazione, e becca tutto, satellite, digitale terrestre, forse anche qualche messaggio criptato dell’Enterprise che il Capitano Kirk ha seminato per il cosmo.
Gli indigeni del paese abitano tutti lì, concentrati nelle quattro case prospicienti il bar e la strada: le ville, che sono quasi sempre grotte rimesse a nuovo da qualche architetto biocompatibile con il design, le tengono i stranieri, cioè tutti quelli che vengono da fuori Isola, fosse pure da Roma, Anzio e Napoli, che pure sono a un tiro di schioppo e d’aliscafo; anche a Venezia, del resto, consideriamo irrimediabilmente foresti e campagnoli tutti coloro che sono nati anche un solo passo giù dal Ponte della Libertà.
Sono arrampicate sui crinali del Monte Ritto, le case per le vacanze dei forestieri, perché i ricchi, si sa, hanno il complesso dell’attico; ma lo pagano, questo complesso, perdendo i polmoni pezzo a pezzo sui gradini per arrivarci, al loro buen ritiro isolano: nel mondo normale gli attici sono forniti di ascensori, o per lo meno montacarichi motorizzati, e qui no, invece, si va su a sola forza di gambe e di fiato, per certi calanchi a perpendicolo che farebbero ansimare fino le capre scalatrici.
Rossana sull’Isola è un po’ meno straniera degli altri: ha casa da così tanti anni che ormai la considerano quasi una di loro: è per tutti la Veneziana. Così si qualifica al telefono, quando chiama il suo amico del tassì, e quello corre, avvertendo nel contempo i vicini che la Veneziana è giunta. Al suo apparire in paese i locali la salutano, le domandano come va, si informano sulla famiglia, gli amici, gli ospiti fissi che, a tornate, porta su ogni anno.
“Be’, ti considerano quasi una parente..” dico io, al terzo entusiastico saluto.
“O mamma, spero di no- risponde lei, ridendo allegra – qui esser parenti è un pericolo.”
La frase sibillina mi si chiarisce a poco a poco, man mano che compiamo il giro per le spese nel borghetto.
La prima tappa all’edicola-negozio di qualsiasicosa è per prendere il giornale e salutare Gegia, la proprietaria, una cinquantenne dall’aria esausta, che si sventola dietro al banco dei ricordini.
“Uì, Rossa’, si’ arrivata? I comme stai?”
“Bene, bene, e tu?”
“Ihh, e comme ho da stare? Come vuole Iddio! Sempre penzieri…Ci mancava solo la causa per la grotta di nonno Lui’ a Punta Madonna…”
E si addentra immediatamente e spiegare una intricata vicenda di case, anzi, di pezzi di case e lacerti di terreno, ereditate da un avo e da spartire con i fratelli, che però sono sobillati dalle cognate, e favoriti dagli zii, ma impicciati dai cugini; un grumo di interessi familiari, insomma, che non si sciolgono e non si disfano, tanto che alla fine fine sono tutti in mano di vari avvocati.
Quando passiamo al negozio di frutta, nuovo saluto, nuova sosta, e narrazione di altra diatriba legale in corso: stavolta è Ignazio, il proprietario, cugino di Gegia e già in causa con lei per la grotta di nonno, a lagnarsi di Luigi, il cognato:
“Uè, ma vi rendete conto? Chillo m’ha tirato su un muro a pochi passi dalla cammara mia, e m’ha fottuto la vista, con rispetto parlando, ma proprio fottuta fottuta! Ma mo gli ho feci mandare lettera dal mio avvocato, uè. Mica perché si sposò a mia sorella, adesso può fottere me, vi pare?”
La terza sosta è da Silvestro, il macellaio, che ci accoglie con un gran sorriso, e mentre batte e macella il coniglio per la cena, spiega l’infinita lite con la sorella Eufemia, che, dopo avergli venduto una porzione di casa avuta in dono dal prozio Salvatore, quando lui ha iniziato i lavori di ristrutturazione gli ha mandato in casa nientepopodimeno che i Carabinieri, ‘sta strunza, sostenendo che lui s’era preso un millesimo più del dovuto. La mima con gran dovizia di particolari, Silvestro, la visita dell’Autorità Costituita, con in mano la mannaia spaccaossi, e l’impressione è che la sua soddisfazione massima sarebbe avere sul bancone da squartare non il povero coniglio, ma la testa della congiunta.
Usciti dal negozio, Rossana è un fiume in piena. Per ogni finestrella che incrociamo, per ogni porta socchiusa lungo la via, lei conosce non solo i nomi dei proprietari ed i relativi mestieri, ma anche la cronistoria delle loro infinite cause gli uni contro gli altri, che si trascinano per generazioni e passano di padre in figlio, tanto che qui, alla fine, uno eredita dai genitori non solo il cognome e, chi ne ha, le sostanze, ma soprattutto le cause in piedi e quelle in corso, nonché i prodromi per fondare quelle a venire.
“Sarà un’isola piena di avvocati..” medito io.
“Eh no! Sull’isola credo che di avvocato non ce ne stia nemmeno uno, e i giovani non li mandano a studiare legge, farebbero la fame! Nessuno affiderebbe la causa ad parente avvocato, perché mica si fiderebbero: lo sospetterebbero in combutta con gli altri parenti, o penserebbero che li vuol fregare per conto suo. Quindi gli avvocati sono tutti presi fuori, e per andarli a trovare fanno su e giù con l’aliscafo ogni volta…”
E a me vien da ridere, pensando al Postale che parte alla mattina, verso il Continente, carico di parenti che si guardano in cagnesco, pronti a conferire separatamente con i loro rispettivi legali. Me li immagino carichi di carte e scartoffie, mutangoli, incastrati l’uno vicino all’altro sulle sediole dell’aliscafo, mentre ostentatamente fingono di ignorarsi in quello spazio schiuso nonostante siano stretti e pigiati come sardine all’interno della scatola, o meglio come un tempo stavano pigiati nelle loro case, durante i pranzi di Pasqua e Natale. Perché quando la famiglia si litiga, per riuscire a riunire i parenti nello stesso spazio non ci si può più affidare alla festa comandata: ci vuole l’avvocato.
É un racconto di fantasia, non si fa cenno a personaggi, luoghi o cause reali. L’Isola, insomma, è l’Isola che non c’è, mentre le cause e le liti fra parenti, con tanto di avvocati, be’ quelle le potete trovare ovunque.
molto bello complimenti
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Ponza o limitrofe, giusto? Che posti da favola.
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… e fatti un po’ di ferie, benedetta! 🙂 🙂 🙂
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E che sto a fa’???? 😉
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Bello è bello , ma santiddidio ragazza mia, posa il pc e statti un po’ a rosolare al sole! :p
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