Dopo aver passato metà del pomeriggio di ieri a beccarmi della escort pure poco di lusso per essermi fatta offrire cena e camera dalla Telecom – pare sia poco fino e provinciale ricordare che, da che mondo è mondo, chi ti invita ad un convegno (e non ad un camp) ti paga pure il viaggio e l’alloggio: anche gli scienziati che presenziano ad un simposio di fisica quantistica lo fanno se spesati, non perché passano casualmente di là – due parole più serie su quanto ho sentito alla Venice Sessions vanno spese, non foss’altro per dimostrare che non ho passato tutto il tempo a cazzeggiare con i compagni di banco.
Il tema centrale era il Design, declinato in maniera piuttosto larga; qualche volta, ho avuto l’impressione, persino un po’ troppo. Di tutti gli interventi quello che mi ha più convinto ed appassionato è stato quello di Joseph Grima, forse anche perché è stato il discorso più ancorato strettamente alle tematiche del web. Grima si è chiesto, e ha fatto riflettere noi, su come le innovazioni tecnologiche influiscano a livelli profondi e persino impensati non solo sulla quotidianità delle nostre vite, ma anche sull’urbanistica e sul paesaggio. L’apparire sul mercato di un nuovo modello di smartphone non determina cambiamenti solo sul modo in cui contattiamo gli amici o organizziamo il tempo della nostra giornata, ma anche su come organizziamo lo spazio attorno a noi, le piazze, gli edifici. Uno non ci pensa mai, ma i grattacieli di New York e quindi, di conseguenza, lo stile di vita newyorkese, non sarebbero possibili senza la preventiva invenzione dell’ascensore e della metropolitana; così i nuovi modelli di aggregazione e di interazione che gli smartphone e le loro applicazioni imporranno a noi in futuro richiederanno spazi architettonici ed urbanistici diversi in parte da quelli cui ci ha abituato il passato: l’architettura è un linguaggio, in fondo, e come tutti i linguaggi crea di secolo in secolo le nuove parole di cui abbisogna, o dona nuovo significato alle vecchie. Ecco, quest’idea del design della città e degli spazi che non è solo fare costruzioni, ma riflessione filosofica su ciò che è la contemporaneità e quali sono le sue nuove esigenze, mi è sembrata assieme straordinariamente in linea con la migliore tradizione rinascimentale dell’architettura, quella che viene giù in linea retta dai Leon Battista Alberti e dalle città ideali, e però anche molto ancorata al presente. E poi un architetto che, in un secolo e in un paese come il nostro, dove l’esigenza dello sviluppo si è sempre sentita legare alla necessità di edificare metri cubi, dica invece che è meglio applicare l’intelligenza che il cemento, be’, ecco, sarebbe da accogliere con una ola.
Più fredda e perplessa mi ha invece lasciato l’intervento di Elio Caccavale, designer che si occupa di un territorio di frontiera, ovvero quello fra design e scienza. Può essere che la mia sia pura e semplice chiusura mentale, non dubito, che mi fa collegare comunque il design alla creazione di beni materiali, per quanto innovativi; ma finché Caccavale mostra la possibilità dei designer di aiutare i bambini malati o portatori di handicap a capire, attraverso bambole progettate per loro, le implicazioni delle operazioni che subiranno, ecco, lo seguo. Quando invece propone una definizione di “design” che in pratica va a coprire anche le nuove strutture sociali, e dice che il design così inteso è quello che concepisce e “disegna” quindi anche le nuove forme di famiglia e di affettività (citando gli esempi delle coppie omosessuali, di chi si “ordina” il figlio su misura comprando lo sperma su internet o pretende la clonazione del cane e del gatto defunti), là lo seguo meno. Sono territori quelli che da sempre sono appannaggio della filosofia, o delle sue sottoforme di etica e morale più o meno individualistica, e là preferirei che restassero: la prospettiva di una famiglia “firmata” e progettata su imput di qualche guru esterno, una specie di architetto-santone, un po’ mi fa ridere, e molto mi inquieta. Forse perché, come ha giustamente detto Luca de Biase in una battuta, in Italia siamo abituati da secoli, in questo senso, ad avere dei grandi designers di famiglie autonominatisi, e cioè cardinali e preti della Chiesa Cattolica; che a disegnarci la vita pretendano ora di mettercisi pure altri è francamente un po’ troppo.
Per una interpretazione larga del concetto di design è stata anche Guta Moura Guendes, architetto portoghese, il cui intervento è stato a mio avviso molto divulgativo, e forse per questo, in alcuni punti, ai limiti del vago. Tutti ormai siamo consapevoli che il design (la creazione di linee ed oggetti, il gusto che questi divulgano e impongono) è un fenomeno ormai di capitale importanza per la comprensione del nostro mondo, ma quando poi si comincia a definire il design come un sorta di imprescindibile caposaldo che dovrebbe essere insegnato ai bambini fin da piccoli nelle scuole, be’, da unica insegnante in sala – peraltro da insegnante che ha quotidianamente a che fare con ragazzini fra gli undici e i quattordici anni – un po’ mi viene da sorridere: se con “educazione al design” si intende educazione al gusto estetico, in qualche modo essa viene coperta dal programma di “arte ed immagine” nelle nostre scuole, e i colleghi, in terza media, parlano o almeno accennano alla rivoluzione della Bauhaus e alle sue implicazioni sulla produzione di oggettistica di design di massa; se invece, come pareva dalle proposte fiorite in sala sull’onda dell’entusiasmo, si vuol proporre il “design” come materia a sé stante fin dalle elementari, vorrei mi spiegassero come pensano di illustrare ad un pupetto di sei anni i presupposti filosofici, artistici ed estetici impliciti nei grandi oggetti di design. Capisco, dall’entusiasmo è facile farsi carpire, e poi figurarsi se il genitore medio ed informato dice no quando si chiede: “Ma non vorresti che tuo figlio a scuola imparasse le basi di quella capacità di creare oggetti belli ed innovativi che è stata alla base del grande boom economico italiano?” Uno non può che rispondere: “Sì, certo!”, perché, come ha detto Carlo Massarini, la scuola italiana così come è adesso, altrimenti, ha “difficoltà ad insegnare il futuro”. Solo che poi io, che nella scuola ci lavoro ogni santo giorno, so come va a finire: a meno di non ridiscutere complessivamente il monte ore settimanale di lezioni (cioè, in soldoni, tenere i ragazzini a scuola anche il pomeriggio per aggiungere ore di nuove materie), l’ora di “design” finirebbe solo per prendere il posto di qualcosa d’altro, magari di un’ora di italiano/grammatica, già ridotte da undici a nove dalle recenti riforme. E allora, scusatemi, quando sento le proposte di nuove materie come questa perché la scuola italiana non riesce più ad “insegnare il futuro” a me verrebbe da rispondere, molto prosaicamente e poco diplomaticamente, che se ci tagliano ancora qualcosa il problema a scuola non sarà insegnare il futuro, ma riuscire a trovare il tempo per spiegare il congiuntivo.
Ottimo finale (non che il resto…) che riporta un po’ con i piedi per terra: bellissimo parlare di design e riempirsi la bocca di idee meravigliose in un palazzo congressi fra netbook e blackberry, poi parliamone in un palazzo cadente che ospita una scuola di periferia…
Sarà che io, da vecchio dinosauro, nei confronti di certi teorici-esteti del design ho una diffidenza decisamente maggiore della Vostra, profe Galatea
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Dal precedente post mi ero fatto un’idea completamente diversa sul tema. Qui non è che si possa togliere o aggiungere molto. Sono solo contento per le soddisfazioni che stai trovando dopo averle cercate ed aspettate, e spero solo che di soddisfazioni ti si ubbriachi la vita. Baciotti.
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@mario: baciotti.
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il mio commento personale è che chi ti dà della escort pure poco di lusso è semplicemente invidioso 🙂
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Brava Miss Gala33 e mezzo!
Hai lasciato una scarpetta che poi ti sarà riportata dal principe azzurro?
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mi è piaciuto leggere sia il post serio che quello semiserio sulla Venice Session – devo dire che mi è sembrato un convegno interessante da quello che racconti. E appoggio il tuo parere sulla scuola, dato che anche io ci vivo dentro però dall’altra parte (alunna). Finché si rimane alle idee è un conto, mettere in pratica è un altro. Facciamo fatica ad avere la carta igienica in bagno, figuriamoci se tagliamo ancora. (Ma la proposta sarebbe per tutti gli indirizzi scolastici o solo per le elementari e gli istituti appositi?)
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@mau: E’ il poco di lusso che ho trovato offensivo, ovviamente. 😀
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@LadyLindy: Chiamarla proposta è esagerare. Era un’uscita buttata là.
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@LadyLindy: Ti ho linkato il blog. Spero non ti dispiaccia.
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Una domanda: si e’ parlato anche del design inteso come progettazione (come ne parla Brooks in “The design of design”, se puo’ chiarire http://www.amazon.com/Design-Essays-Computer-Scientist/dp/0201362988/ref=sr_1_1?ie=UTF8&s=books&qid=1278327136&sr=8-1)?
Adriano
PS ho letto il thread su Friendfeed e non ho parole. Dopo le assemblee di condominio Friendfeed e’ quello che piu’ mette in discussione l’idea di democrazia …
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@agaved: Qualche accenno c’è stato, anche se ammetto che io ho fatto un po’ fatica a coglierli tutti e a capire le connessioni, perché di design non ne so tantissimo.
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sono fondamentalmente d’accordo su quel che scrive galatea; in base alla mia modesta esperienza di lavoro come grafico, credo che il design non sia un motore del futuro, ma una conseguenza di quel che accade; chi in qualche modo crea un’immagine, la crea avendo assorbito il contesto emotivo, culturale, estetico nel quale sta immerso; la scuola a mio avviso deve fare la scuola, essere rigorosamente ancorata al patrimonio culturale esistente, perchè solo da una solida cultura di base si può creare un nuovo che abbia valore; io non sono un grafico importante, ma ho la sensazione che le idee buone derivano non dallo studio di altri disegnatori (mi piace la glossa italica), ma da esperienze culturali complessive, insomma alla fine conta di più aver letto sofocle o platone che conoscere le cose di tendenza, perchè la moda è sempre dannosa
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@ Galatea
figurati, mi fa piacere. 🙂
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Galatea, mi piacerebbe sapere se in questo “incontro” qualcuno ha affermato un concetto che io ho saldo in testa da sempre, e cioè che
la funzionalità è una categoria dell’estetica
cioè che un oggetto che svolge perfettamente la funzione per cui è stato pensato è di per se stesso “bello”. Poi, se sei molto bravo come designer, lo puoi anche rendere più bello…
😛
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ancora io. sto seguendo venice (il giorno dopo). se ti fa piacere approfondire il mondo di caccavale ti segnalo il link del royal college of art di londra -www.interaction.rca.ac.uk/ – (elio insegna lì). l’interaction
appassiona non tanto per l’oggetto di ricerca (topi, famiglie, etc) ma per i “processi” di ricerca. come id-lab. si parla di musei. ma se il “processo” è valido lo si può applicare anche ad altri ambiti (con le stesse parole chiave). infine, guta: è una “curadora”, organizza mostre, scrive libri, promuove il design di ricerca. experimenta lisbona è una bellissima piattaforma. dimenticavo: justin mcguirk. sul fronte design, icon – la rivista che dirige – è forse la più interessante del momento (mio modestissimo parere). c’est tout, grazie dell’ospitalità.
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Sì ok il congiuntivo, ma più matematica e scienze. Ripeto: più matematica e più scienza a scuola.
chi ti ha dato della escort non ha capito niente del mondo.
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La scorsa settimana ero in un bar di qualche pretesa a prendere un aperitivo. I bicchieri erano quadrati con gli angoli appena appena smussati. “Ma è del famoso designer giapponese…” e hanno detto un nome che non ricordo, è stata la risposta alle mie osservazioni. C’è anche di molto peggio in giro.
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Sono completamente d’accordo con te.
E assolutamente, concordo con diego b.
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