I dettagli delle vite altrui (occhiate dal treno)

Odio viaggiare, e questo si sa. Quello che alle volte non so nemmeno io è che amo farlo. Prima di partire ho tutte le paturnie del mondo. Mi vengono in mente le malattie e le disgrazie più varie che possono colpirmi, e sono convinta che mi colpiranno, tutte. Per cui il giorno prima della partenza è una vera agonia.

Poi parto. Cioè, per essere precisi, prima smadonno e offendo gli dei di tutte le religioni per i contrattempi per arrivare in stazione, e prendere il treno, e beccare le coincidenze. Ma poi parto. E lì cambia tutto.

A viaggiare, anche se odio farlo, mi diverto. Perché è come se mi si spalancasse davanti un universo di piccoli particolari che normalmente non si notano, ma quando viaggi sì. Essere intrappolati nello stesso spazio per qualche ora, verrai venir incontro paesaggi che non hai mai visto prima, nuovi anche quando sono familiari, ti scaraventa fuori dal tuo guscio di certezze, ti spiazza e ti scombussola, ma anche ti titilla e stuzzica. 

Il mondo del vagone è un cosmo a sé, con personaggi di volta in volta diversi. Le prime classi ovattate e guardinghe, piene di signori di una certa età in giacca blu, che vantano una albagia da manager per poi ridursi come tutti a ingannare la noia con i giochini al cellulare; le loro mogli dai capelli azzurrini, che sprofondano il naso in Chi, alla ricerca del nuovo fidanzato di Belen. Brani di conversazioni che accennano ad improrogabili impegni di lavoro, e meeting, e breefing e altri incontri in ing e non so che, recitate con il tono da business as usual. Le seconde classi stipate di studenti, pendolari, badanti che vanno al lavoro, casalinghe con le sporte della spesa, ragazzi che girano e non si sa perché. Cellulari che suonano, o vibrano, o ridotti al mutismo ogni tanto emettono qualche strozzato singulto digitale da messaggino inviato e ricevuto, intrecci di vita in 140 caratteri che si dipanano in tanti tic-ti-tic.

E poi le immagini vista dal treno. Flash improvvisi che fuggono via. Le infilate di pioppi battuti dalla pioggia, i campi tutti uguali, le stazioni anonime o dai nomi buffi che compaiono e spariscono sulle rette dei binari. Persone che passano come cose: la folla indistinta che preme per salire a Bologna o Milano, o la donna avvoltolata nel piumino e abbandonata come un sacco a dormire su una panchina, a Imola. Le case che passano, loro che sono le cose più ferme di tutte, e invece dai treni si vedono in movimento. Con i loro particolari incongrui, come la tenda barocca a svolazzi che copre una finestra dal taglio moderno e minimale, o i tricicli dei nipoti parcheggiati di traverso nel giardino amorevolmente e maniacalmente ordinato dei nonni. Tutti i dettagli delle vite altrui che dal treno acquistano dignità propria, si impongono come protagonisti e smettono quel ruolo di particolari secondari che semore occupano nella vita da fermi. 

E poi si arriva, e tutto ricomincia com’è. 

5 Comments

  1. “La gente ancora seduta sui treni è la prima / a sorprendere la primavera”, diceva Brecht.
    Che in città è ancora inverno, ma a nemmeno venti minuti da Milano Centrale già intravedi i primi – timidissimi – fiori bianchi sui rami.

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  2. Bellissimo!
    Il treno per me è sempre stato un modo di vedere. Un contatto “forzato” che ti ripaga con l’umano. Con le vite che incroci. Con sguardi. Con sorrisi che puoi dare e ricevere.
    Poi tutto torna com’è. Ma forse quel contatto aiuta a ricordarsi che ce n’è bisogno. Anche quando andiamo di corsa e di particolari non vediamo nemmeno i nostri ahaha 🙂
    E’ bello leggerti! 🙂

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