Amo i Romani, sia antichi che moderni. È più forte di me. Vivono in una città unica non solo perché è meravigliosa, ma perché è già sopravvissuta a tutto: agli imperi, agli imperatori, alle religioni, alle chiese, ai Papi, ai preti, ai rivoluzionari, agli indigeni e agli stranieri, alle guerre, alle pestilenze, ai terremoti, alle riforme e alle controriforme, alle cadute e alle ascese, ai regni, alle dittature, alla modernità. E loro ci sguazzano in mezzo, disincantati, feroci e bonari al tempo stesso.
Solo loro potevano riuscire ad adottare il più brutto albero di Natale che mai si sia visto al mondo. Un abete scanchenico come la lonza macilenta di Dante, uno scheletro d’albero patito che evoca la fame atavica e la miseria nera. Una cosa che in qualsiasi altra città avrebbe fatto scoppiare una rivolta, innalzare geremiadi degne di una tragedia greca, e irose proteste per l’affronto subito.
Ma siamo a Roma, e i Romani hanno questa capacità di fare sempre quello che meno t’aspetti, vincerti con il loro improvviso lato umano. Così l’albero l’hanno adottato, consapevoli, come tutti quelli che nei secoli hanno visto di tutto, che è inutile prendersela con chi, come lui, è vittima quanto te e non ha colpe.
L’hanno chiamato “Spelacchio” e mo gli fanno le foto come si trattasse del parente porello che fa tanta tenerezza, o del figlio amatissimo che non t’è venuto fuori bene.
Spelacchio. E come fai a non amarli, i Romani, su.
Impossibile non seguirti. Impossibile no. Volerti bene. Bacio
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temo si tratti di abbrutimento dei romani, non me ne voglia, di pura abitudine al brutto. Che Roma-città non ne sia avvinta (i.e. è ancora magnifica) dipenderà dal fatto che le pietre ci mettono più tempo ad abbrutirsi.
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