La grammatica è democratica, non fascista

“La cultura della regola inizia dallo studio della grammatica.” dice il ministro Valditara, lasciando intendere che la grammatica è la prima occasione che gli alunni hanno di imparare che le regole esistono e a loro bisogna obbedire.

Ci sarebbe tanto da dire, dal punto di vista didattico, su questa affermazione. Ma lasciamo perdere. Perché al di là di tutto, questa cosa è sbagliata prima di tutto nel merito della questione.

Perché no, la grammatica, e mi dispiace per il ministro Valditara che deve averla imparata così, non è affatto un insieme di regole astruse e immutabili a cui bisogna obbedire. La grammatica, tutte le grammatiche di tutte le lingue, sono innanzitutto una delle più avanzate forme di democrazia. Per altro, una delle poche che funzioni veramente.

Che cos’è la grammatica? O meglio, che cos’è una lingua? Chiediamocelo. Perché alle volte da insegnante ho l’impressione che questa cosa non se la domandino in molti, e che la maggioranza, come Valditara, pensi davvero che i libri di grammatica siano come le tavole della Legge di Mosè, calate dal cielo direttamente da qualche essere divino titolato a farlo, immutabili e impossibili da disattendere.

Ecco, non è così. La grammatica in realtà è un continuo, estenuante esercizio di contrattazione che dura da secoli,e che ha coinvolto e coinvolge  tutti i parlanti e le parlanti della lingua stessa. Un enorme sforzo collettivo di uomini, donne, persino bambini, che hanno creato, contrattato, scambiato e modificato parole e regole.

E ciò che è oggi non è un insieme di regole fissate nei secoli dei secoli, ma un qualcosa di vivo e vitale, che continua ad essere soggetto ad adattamenti, perché, come insegna il buon Darwin, adattarsi al proprio ambiente è l’essenza prima della vita.

Le parole, tanto per cominciare, sono uno straordinario esempio di democrazia. Ognuna ha una storia diversa e la grammatica insegna a rispettarla.Studiare le parole significa confrontarsi con la loro origine, e scoprire così che parole modernissime hanno radici antiche. Che nella lingua esistono, e per fortuna, un sacco di immigrati, che vengono da altri posti e da altre culture, e che sono stati adottati senza problemi, o così come erano (pensiamo a computer) oppure con lievi assestamenti (come meschino, che ha le sue radici addirittura nell’antico babilonese).

Che le cosiddette “regole”, che dovrebbero insegnare l’ubbidienza secondo il ministro, in realtà non esistono, perché poi ogni parola, ogni verbo, ogni preposizione fa storia a sé, perché a seconda della sua origine e del percorso o del periodo in cui è entrata nella lingua può avere un esito differente: e così guardia non è in realtà un “vero” femminile, ma un modo in cui si vocalizzò una -a germanica, che era maschile in origine. Mentre giornalista o dentista sono maschili i -a per altri e diversissimi motivi, ma sono appunto maschili in origine e rimangono tali. 

Che le parole descrivono il mondo in cui sono nate, e quindi non ce ne sono due con il medesimo significato, pienamente sovrapponibile, anche quanto magari noi le usiamo come tali. E per questo, per esempio, il contadino è diverso dall’agricoltore, anche se fanno le medesime cose, perché il contadino deriva da contado e da conte, ed è chi coltiva la terra di un padrone, mentre l’agricoltore deriva dall’agricola latino, che era un piccolo proprietario: la terra che coltiva dovrebbe o potrebbe essere sua, e quindi i due termini non sono equivalenti in origine.

L’ortografia è anche quella frutto di una sequela di compromessi storici (anche qui, gli unici mai riusciti), perché quando il volgare italiano viene scritto per le prime volte tutti lo scrivono un po’ come gli pare, persino con le kappa, se capita; e solo dopo una lunga serie di prove, di tentativi e di mediazioni siamo arrivati a definire che le parole si scrivono in un certo modo, che però in molti casi tollera comunque una qualche forma di variabilità.

Le regole quindi non sono astratte, ma frutto di concertazione, di una discussione fra dotti che però poi, alla fine, si adegua sempre alla scelta della maggioranza, perché è chi parla e usa la lingua ad avere l’ultima parola su come la si debba usare. E quindi i verbi si coniugano in un certo modo perché alla fine così li usano le persone, e le parole si scrivono in una certa maniera perché le persone hanno deciso che è la più semplice e la più facile, e le parole vengono usate e adottate anche se sono straniere perché la gente decide che sono utili. E sticazzi se non sono “italiche” o non piacciono ai puristi.

La grammatica non nasce dalla decisione di una oligarchia di dotti, nasce dall’osservazione della vita reale e dall’uso della lingua. Cambia in continuazione, recepisce le nuove esigenze, per cui se per un periodo una parola serve solo al maschile c’è solo il maschile, e poi si fa il femminile quando se ne sente la necessità.

E questo, scusate, è esattamente il contrario di quello che dice il ministro, e tanti come lui, perché la grammatica non è una serie di regole asettiche che vanno credute come una fede e mantenute intatte. È invece il più grande, continuo e testardo esercizio di democrazia dal basso e funziona proprio per quello, perchè viene creata e ricreata in continuazione, e non ha paura di rinnovarsi, di adottare novità e sfornare “eccezioni” quando sono utili. La grammatica non è regola, semmai è fantasia al potere, capacità di problem solving, direbbero oggi, ai massimi livelli e badando solo ad ottenere risultati pratici.

E per questo sopravvive ai secoli, perché non è conservatrice e non ama soltanto conservare il passato. Per questo è in grado di adattarsi ai nuovi tempi e alle nuove esigenze, e di comprendere le sfide del futuro. 

Meglio di tanti ministri, probabilmente.

E se volete approfondire, c’è sempre il mio L’italiano è bello

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