L’ombra e il tiranno: Marco Giunio Bruto

Dedicato a Pensatoio, sperando che gli piaccia

Molti sono gli uomini che passano alla storia per una frase, e vedono consegnata la memoria di sé a due e o tre parole, un riassunto spesso ingiusto che si chiude sopra di loro come una lapide tombale: Maria Antonietta con le brioches, Garibaldi con l’obbedisco. Il destino di Bruto è più triste ancora, perché le sue due parole non sono nemmeno sue: sono quel tu quoque che si dice, si narra, si racconta Cesare abbia pronunciato prima di cadere sotto i colpi di Bruto stesso, nel Senato, in un lago di sangue.

Chi fosse poi nella realtà, quest’uomo che ebbe un ruolo chiave nella storia di Roma, comunque si voglia considerare il suo apporto, non lo sappiamo. Le informazioni che abbiamo su di lui sono poche e incerte, le illazioni della propaganda, le interpretazioni dei letterati e degli storici, nei secoli, gli si sono appiccicate addosso come quelle incrostazioni che rendono alla fin fine irriconoscibile ciò che coprono. Bruto, il principe dei traditori o l’ultimo degli eroi, il figlio adulterino di Cesare o il tormentato genero di Catone, il santo o il burattino; saggio, stolto, pedina o ispiratore di una morte variamente considerata stupida o doverosa; Bruto, insomma, ultimo romano o primo imbecille fuori tempo.

Chissà com’è nascere in una reggia patrizia e portarsi addosso fin dalla culla il nome del fondatore della Repubblica Romana. Chissà com’è, ogni volta che ti chiama mamma, o la nutrice, sentirsi rimbombare nelle orecchie sillabe così pensanti. Me lo figuro il piccolo Marco Bruto, che corre per le stanze della sua domus, gira un cantone e si imbatte nelle maschere severe degli antenati, quasi inciampa di fronte alla statua dell’altro Giunio Bruto, e questi, con gelidi occhi di marmo, lo guarda severo e distante. Sembrano dire “Non sarai mai alla mia altezza” quelle orbite vuote: nessuno potrebbe mai essere all’altezza di un capostipite tanto ingombrante, tanto prestigioso.

Chissà com’è crescere e sentirsi sempre addosso l’ombra di qualcun altro più grande, più glorioso, più baciato dal successo. Non solo l’antenato: l’esistenza di Bruto pare snodarsi fra uomini che raggiungono l’eccellenza così, senza il minimo sforzo. In casa sua Cesare è invitato stabile, anche perché da sempre è amante di Servilia, sua madre. Le chiacchiere sulla liason sono tante, anche perché i due non fanno nulla per tenerla segreta, e certo le voci dei pettegoli che indicavano lo stesso Bruto come figlio di Cesare saranno giunte, più o meno velate, alle orecchie del piccino. Cesare aveva quindici anni, al momento della sua nascita, ma si sa, Cesare era precoce in tutto, e i maligni, nel pettegolezzo, seguono una matematica tutta loro.

Fu paterno nei confronti del piccolo, Cesare, forse più di quanto il rispetto delle convenienze indicasse come appropriato verso il figlio di qualcun altro, ma Cesare spesso mostrava verso i suoi questa inclinazione a far da chioccia; strano, per un aspirante dittatore, ma doveva essere un uomo con una certa fiducia nei suoi simili: da leader nato, amava spingerli, se pensava avessero delle qualità o dei meriti. Bruto gli sfuggiva, e forse proprio questo piaceva più di tutto a Cesare: che quel ragazzo ormai sulla via di diventare uomo non avesse mai scelto la strada più facile, non gli si fosse appiattito addosso, anzi quasi avesse fatto apposta a scegliere le amicizie e le parentele più distanti dal circolo che faceva capo al suo più naturale “padrino”.

Ma le scelse per convinzione, quelle parentele e quelle amicizie, Bruto? Qui sta tutto l’enigma della sua vita, il nodo che non si riesce a sciogliere, l’angolo buio che non ha un lume per essere rischiarato. Perché Bruto nasce nell’ombra altrui, ma in quella continua a muoversi poi: ci si infratta e ci fa un nido. Forse l’ombra se la porta dentro come un destino, come un marchio dell’anima.

Macina, Bruto: i libri di filosofia stoica, che tanti punti ha naturalmente in comune con il mos maiorum dei suoi antenati; le riflessioni sulla grandezza passata della Res Publica, che Cesare invece vorrebbe trasformare in qualcosa di nuovo ed aperto. Le sue elucubrazioni lo portano in contatto con Catone Minore, un altro che porta nel nome il suo destino e nei geni l’obbligo di essere inflessibile quanto un grande antenato. Ne sposa la figlia, Porzia, che quasi è più determinata del padre, e più intransigente. É una donna dura, che divide il mondo in tagli netti: di qua, di là, giusto e sbagliato. Forse è questa capacità ad affascinare Bruto, che invece non sa mai scegliere per sempre, che medita e rimugina su ogni singolo atto, fa, disfa, si pente, e perciò è attratto da chi non ha mai dubbi e ha invece salde certezze: la morale dura è sempre l’ancora di salvataggio di chi si teme debole. Lui invece vagola: va con Pompeo, ma poi torna con Cesare; era con gli Optimates, ma non disdegna una carica in Gallia sotto il nuovo dittatore. Cesare con lui è affabile, cortese, quasi premuroso, in una parola paterno, tanto che da qui nascerà la fola che lo avesse persino adottato. Non lo adotta, ma certo lo protegge. Magari è proprio questo che tormenta Bruto più di tutto: pare che di Cesare non riesca a liberarsi: non ce la fa a scontentarlo, a farsi cacciare. Si sentirebbe più libero, se Cesare si infuriasse con lui, se lo allontanasse per sempre, dimostrando che ogni rapporto fra loro si è usurato, che non è più capace di perdonargli le ultime provocazioni. Ma Cesare non lo allontana, anzi lo premia, e Bruto non sa tranciare il rapporto di suo, perché a Cesare forse vuol bene, ne è affascinato: anche Cesare è uno di quei caratteri che ti risucchiano, a cui non puoi dire di no.

Gli amici. Gli amici intanto parlano. Mi immagino nottate che si stemperano in albe, a lamentare la decadenza dello Stato, il suo scivolare verso una dittatura morbida, sorridente. La Patria, gli Ideali, il Senato, la Repubblica: gli amici parlano tutti con le maiuscole, e poi guardano lui, o meglio, guardano al suo nome: Giunio Bruto. E’ un destino, quel nome: uno che lo portava aveva salvato Roma dai re, uno che lo porta non può sfuggire al suo dovere, ora che i tempi lo richiedono. Hanno in mente una Repubblica ideale, gli amici e la moglie, che non c’è mai stata nei fatti e di sicuro non avrebbe potuto esserci più. Ma forse è proprio questo che convince Bruto: non gli chiedono di costruire una realtà, gli chiedono di battersi per un sogno. É la sua occasione di uscire dall’ombra, di Cesare, degli antenati, dei parenti, compiere un gesto che sia solo suo, che gli regali un’identità precisa e determinata, lo renda sostanza indipendente dall’intorno, distinta da chi è venuto prima di lui, da chi verrà dopo: un gesto netto, che lo porti in luce, gli dia un volto, per sempre.

Non credo che sia stato facile, quella mattina, il tragitto verso il Senato. Non credo che siano stati facili quei minuti ad attendere che Cesare entrasse, arrivasse a portata di coltello. Non credo che sia stato facile, o naturale, per lui alzare la sica, e colpire, colpire, colpire. Non credo neppure che l’esaltazione dell’atto, ottenuta ripentendosi infinite volte le sue alte ragioni e la necessità impellente, abbiano retto all’impatto del fiotto di sangue che imbrattò la toga, all’odore ferroso di quel liquido rosso che schizzava ovunque, mentre il volto di Cesare si faceva bianco. Doveva essere il suo momento di gloria, quello in cui finalmente compiva il suo destino ed acquistava un ruolo: Bruto, colui che uccideva Cesare e salvava lo Stato. Ma durò un attimo, il tempo in cui Cesare mormorò il tu quoque, aggiungendoci un filii mi: e lui sprofondò di nuovo nell’ombra di qualcun altro, di Cesare morto che lo riduceva ancora una volta ad una appendice di sé, ad un figlio oscuro che tenta un gesto di sciocca rivolta contro un padre. Cesare, che gli aveva sempre perdonato tutto. Cesare, che in quella frase si prese la sua sublime, ultima vendetta.

14 Comments

  1. 🙂
    Hai mai pensato che queste, che sono tra le tue cose migliori, possano essere riprese in un contesto “unico”?

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  2. anch’io adoro questo spezzoni storici. mi piaceva tantissimo anche sul vecchio blog un paragone tra alessandro magno e bush. era fenomenale. (che poi, non è che magari lo rispolvereresti???)

    abbraccio

    ps
    anch’io sarei tra le prime ad acquistare un simile gioiello.

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  3. @->Buboreale: non sei stato censurato, hai solo messo il commento sul post sbagliato: è finito su quello sotto, ma non sono riuscita a spostarlo. 😉

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  4. Molto bello. Invidio la qualità della tua scrittura e del tuo pensiero (limpido, intelligente, immediato)
    Bruto rappresenta l’istanza repubblicana fuori tempo massimo (e non Quinto Fabio Massimo, scusa la cazzata, ma mi vengono così…). Insomma l’ombra del tempo che fu…
    Un ultima cazzata (sarà l’invidia che mi dà un’ilarità sconclusionata…) : pensa alla terza generazione ancora più degenerata, con Brutus che vive all’ombra di Braccio di Ferro….

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  5. Già, e per rimediare Olivia, che è pure bruttarella forte… 🙂
    Grazie per i complimenti, ci tenevo a dimostrarti che non lo avevo liquidato in maniera sommaria, il nostro Bruto. Però mi continua a piacere di più Giulio Cesare, lo ammetto.

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  6. Interessante e ben scritto. Se sia stata reazione o ingratitudine non lo sapremo mai; propendo però per la fame di potere, pura e semplice.

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  7. Ormai mi appassiono sempre di più alle tua analisi storico-latineggianti…E pensare che la storia latina mi è sempre parsa noiosa…Mannaggia, quella volta non potevo incontrarti nella mia carriera(più o meno) scolastica?

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  8. Dante lo mette nell’Inferno profondo, tra i traditori dei benefattori, dove più in giù non si può. Difficile contraddire il giudizio. Di giudizio, Bruto ne dimostrò sempre ben poco, meritandosi anche quel nome che vale per tardo. Le capacità migliori le dimostrò nel fare l’usuraio, chiamiamolo così, e questo dimostrerebbe che non è un mestiere così difficile. Difficile è oggi trovare qualcuno in grado di fermare un usuraio. Ci fu quel suo antenato che contribuì a cacciare l’ultimo re di Roma ed a fondare la repubblica. Non pensiamo che Bruto minore si sia ispirato a lui, il suo risultato fu quello opposto di affossare definitivamente la repubblica e favorire la formazione dell’impero. Oggi Bruto non avrebbe il problema di uccidere Cesare perchè avrebbe tutto il potere che vuole, il mondo pullula di Bruti ma di Cesari non si vede neanche l’ombra. Allora non fu così e per Bruto fu difficile fare il mascalzone cammuffato da proboviro, dividendosi tra una seduta del senato ed una di qualche altro consesso. Cesare era il suo benefattore, ma non era neanche tardo, e Bruto avrebbe preferito essere beneficiato dalle istituzioni. In altri tempi, precedenti o successivi, avrebbe avuto più fortuna. C’e un altro grande, Shakespeare, che lo ha visto migliore di quanto non abbiamo fatto noi. Nelle ultime battute del ‘Giulio Cesare’, Ottaviano dice che Bruto agì avendo a mente un interesse superiore. Non avendo dissentito dal Poeta, non vogliamo farlo neppure dal Bardo. Nell’animo di Bruto albergava sicuramente anche qualcosa di magniloquente, un usuraio non si sognerebbe neppure di sobbarcarsi tutta quella fatica, troverebbe sicuramente qualcuno da fare lavorare al suo posto.

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