
“Eh, sì, domenica è l’ultimo spettacolo, poi lo chiudono. Non possiamo mancare…”
È seduto al bar, Michele, con davanti il suo consueto bignè che spesso, da Clara, fa per lui le veci del pranzo. Mi porge la locandina in bianco e nero – cioè, locandina: un foglio fotocopiato – annunciante l’ultimo spettacolo al centro sociale “le Nuvole”.
“Canta Mimma. Ci dobbiamo essere.” Aggiunge, prima di addentare il bignè.
Così, domenica sera, racimolati altri amici, eccoci lì, nella macchinetta che Roberta ha sottratto fortunosamente al figlio diciottenne dopo lunga trattativa.
Le Nuvole è l’ultimo di una catena quasi infinita di posti che in vent’anni a Spinola e dintorni si è tentato di creare come centri sociali: di quelli non occupati abusivamente, ma dati in gestione con convenzioni legali dalle amministrazioni locali ad associazioni nate più o meno per questo scopo. Michele gli anelli della catena li conosce tutti, perché, da bravo ex sessantottino mai domo, ha quasi sempre contribuito a farli nascere e tenerli in vita, contrattando spazi di autogestione, ma garantendo anche un minimo di condotta civile da chi ci andava dentro. I risultati sono stati nella maggioranza dei casi buoni: dove c’era lui con i suoi gruppi non c’erano risse, né giro di droghe e spinelli dentro i locali; al massimo pessima birra, ma ubriachi molesti fuori, e all’interno tanta buona musica, con cantanti e band di ottimo livello, spettacoli alternativi, presentazione di libri e avvenimenti culturali vari. In quello precedente, La Baraccaccia, ci ha lasciato un pezzo di cuore: letteralmente, dato che dopo averlo visto chiudere gli è venuto un infarto; per motivi di salute, dunque, Le Nuvole lo ha guardato nascere e svilupparsi da distante, non entrandoci di suo; il che non gli ha vietato di tenersi costantemente informato su ciò che ci accadeva dentro. La Baraccaccia a Spinola era stata un mito: una ex baracca per le bocce che ogni sera faceva su mille, duemila giovani a botta, provenienti da tutto il circondario e anche da fuori. Molto onore, e, conseguentemente, molti nemici: i cosiddetti benpensanti, tanto per cominciare, che proprio non lo buttavano giù un centro sociale di cui non ci si potesse lagnare per lo spaccio, per la condotta immorale, per i casini. Dopo anni passati a chiamare i Vigili per ogni grido udito nelle più lontane vicinanze e non aver mai ottenuto che si riscontrasse all’interno la benché minima forma di irregolarità – era l’unico posto in tutta la provincia dove rilasciavano regolare scontrino fiscale per ogni consumazione – non appena cambiato il colore della Giunta avevano trovato il modo di chiuderla semplicemente non facendo rinnovare ai gestori la convenzione. Il Comitato, con Michele all’ospedale e gli altri sull’orlo della depressione, si era scisso: metà aveva trattato la gestione delle Nuvole, un ex capannone in rovina, con un Comune vicino, gli altri s’erano ritirati a vita privata e dispersi per il mondo.
“Perché lo chiudono?” chiede Roberta, parcheggiando la macchinetta.
“Alle elezioni comunali qui hanno vinto i Leghisti. – spiega Michele – Hanno tagliato subito in bilancio i fondi per la cultura, e quel poco che è rimasto servirà a finanziare un corso di dialetto veneto che non ti dico.”
Quando entra, Michele è come se fosse tornato in famiglia. Tutti gli si avvicinano per abbracciarlo, salutarlo, chiedergli come va. Mimma gli si fa incontro e lo porta di persona nel corridoio che farà da auditorium, un budellino lungo e scuro, al fondo del quale un drappo nero fa da unica scena. Ci sono una trentina di sedie, e poi, per terra, un’infilata di cuscini.
“Tutto qui?” chiede Michele, che era abituato alle folle della Baraccaccia, e pare lievemente spiazzato dalla costatazione che, a dieci minuti dall’orario previsto per l’inizio, metà dei sedili siano ancora vuoti e i cuscinetti stiano in mezzo abbandonati a se stessi. Al suono di un campanellino, i pochi spettatori prendono posto: l’unico faretto illumina il groviglio di fili degli strumenti, poi il drappo, e poi Mimma che entra in scena.
Canta. È difficile spiegare cosa succeda quando canta Mimma. È tutta una roba che ti si smuove dentro e le parole non sanno dire come. Mimma ha una voce che è tutto: la carezza, il brivido, la disperazione, il nulla. Canta le canzoni popolari e di lotta del primo Novecento, in un bel veneto chiaro che rende ogni sillaba vera come la carne, il sangue, la ghiaia del Po e l’acqua della laguna. Non ha niente in mano e niente attorno, eppure ti pare di vederli accanto ai lei i contadini, gli operai di Porto Marghera, i soldati del ’15-’18, i detenuti di S.Maria Maggiore, i disperati cacciati di casa dalle alluvioni e dalle acque grande di questa terra che non sa mai decidersi se stare sopra o sotto il mare. Penso ai fondi tagliati a lei e dirottati al corso di Veneto, e mi sale sulle labbra una risata amara, perché la cultura veneta che la nuova Giunta promuove con i suoi corsi strampalati di dialetto è meno reale di questa che sta cantando Mimma, nata dai singhiozzi dei nostri nonni, dalla loro esperienza di antica miseria, di fatica nelle fabbriche, nei campi, nelle case. Quando Mimma finisce per attimo c’è un silenzio perplesso, come se il pubblico si chiedesse: “Perché?” e non sapesse rassegnarsi al fatto che ha smesso, come un bambino che sia arrivato all’ultima cucchiaiata di crema, e alzi il viso smarrito, non capendo perché non ce n’è più.
Ci spostiamo nell’altra sala, dove un gruppo di giovani fa jazz, massacrando una canzone di de Andrè e una di Vian. Siamo ancora meno di prima, forse una ventina, tanto che nessuno si siede sui cuscini di fronte alla band.
“Strano – fa Michele guardando l’orologio – sono le undici, è l’ora in cui alla Baraccaccia arrivava il grosso dei ragazzi, non capisco perché ci sia così poca gente.”
Perché sono da altre parti, evidentemente, e non hanno nessuna voglia di venire lì. Finito il concerto dei jazzisti, c’è una pausa per rifocillarsi, con un buffet libero formato da insaccati vari, focaccia tagliata a fette, vino e birra e in fondo un boccione per l’offerta libera a sostegno di future iniziative. Ciondoliamo fra i tavoli, mentre Michele si guarda attorno sempre più spaesato, molti se ne vanno e i pochi che rimangono sembrano i cavalieri erranti per il castello di Alcina. Il terzo tempo della serata dovrebbe essere il concerto di un giovane cantautore. Il giovane cantautore, quando però vede che il pubblico è ormai ridotto ad una decina di persone assonnate più che entusiaste, aspetta e aspetta, tirandola in lungo all’infinito con la scusa di dover accordare la chitarra. Scherza con i presenti, anche perché è ovvio che ci conosce in pratica tutti per nome e cognome, e quindi, verificato che gente non ne arriverà più, si rassegna a cantare cinque o sei pezzi, piuttosto svogliatamente, e facendo continuo accenno al fatto che gli manca il suo abituale chitarrista, che non è venuto manco lui.
Quando finisce, Michele esce nervoso, a fumare.
“Ma è un mortorio!” sbotta.
“Ce lo chiudono ufficialmente per questo – spiega uno dei gestori – perché dicono che tanto non c’è gente…”
“Ma dove sono tutti? I ragazzi, i ragazzi dove sono?” domanda, visto che gli unici che ha incrociato lì dentro è gente della mia età o della sua, ma di ventenni non ce ne sono neanche a pagarli.
Gesto sconsolato delle braccia, che equivale ad un “vallo a sape’”.
Attorno la campagna è punteggiata dalle insegne di pizzerie, pub e di vari ritrovi che si indovinano pieni di altra gente, di altri giovani, quelli che un tempo venivano dentro alla Baraccaccia, ed ora sono spersi dentro alle paninerie, nei discopub aggregati ai centri commerciali, nelle discoteche fighette dell’intorno.
Mi guarda, e io lo so che dovrei stare zitta, ma parlo:
“Michele, non sono loro che hanno vinto, abbiamo perso noi.”
Michele sbuffa via una voluta di fumo, quasi la sputa contro il cielo, e quella si perde, nel blu della notte.
Molto bello bellissimo, ma non mi do ancora per vinto. L’età è quella che è. Prendo fiato e, se posso, ci riprovo. Lavita, a volte, dà una seconda opportunità. veramente sarebbe la sesta o la settima.
Michele
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Veniamo dal nulla, e verso il nulla siamo diretti. Nel mezzo ci sta tutto. Vietato vietare.
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L’entusiasmo di Michele è contagioso, togliamogli il preservativo. 😉
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L’entusiasmo di Michele è contagioso, togliamogli il preservativo. 😉
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E’ un post splendido 🙂
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“non sono loro che hanno vinto, abbiamo perso noi”…
quanto vi capisco. però io ci riprovo sempre. almeno potrò dire di averci provato. ancora e ancora.
michele ha tutta la mia stima.
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Scusate se mi permetto.
Secondo me Michele ( o Mario?) non ha motivo di deprimersi,salvo che per aver considerato l’Italia un paese diverso da quel che è: un paese che va a mode, periodi e ghiribizzi,senza alcuna convinzione ideologica o politica.
Il frequentare centri sociali, per magnare, bere e sentire la musica “giusta” ( e farsi le canne,hai voglia a fare il severo) ha funzionato per un par di decenni.
Poi è finita, con trovate simili a quelle del milanese Leoncavallo: ove si assoldavano i cuochi Aimo & Nadia ( una cena nel loro ristorante almeno Euri 120 a cranio) affinchè somministrassero manicaretti a “trasgressivi” amici dell’animatore/scrittore Philopat,noto più per l’essere attento al pagamento delle sue diarie, che per la qualità dei testi.
La cantante Mimma sarà senz’altro brava, tuttavia risulta surclassata sul terreno delle canzoni popolari da uno come Van de Sfroos; il quale – avendo capito l’aria che tira – simula d’essere leghista riscopritore della lingua lombarda, quando verosimilmente ciò che gli interessa è il vile eurino che ne deriva: e vagli a dar torto,finchè le feste padane ci sono e il Carroccio paga.
Date retta : non ha vinto nè perso nessuno, non c’è stata alcuna partita o battaglia.
Che qualcuno creda ancora il contrario, ecco: quello mi lascia molto perplesso.
State bene; inchino e baciamano alla padrona di casa.
Ghino La Ganga
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Caro Ghino
Non mi sono mai chiesto se ho vinto o perso. Non mi sono depresso. Queste e piccole altre cose sono pieghe del racconto. l’unica cosa certa è che ho vissuto. Mi sembra abbastanza.
(qui) Michele
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@->Ghino: Qualcuno che crede il contrario ancora c’è. Io, per esempio. Sarò un po’ scema, magari. 🙂
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che post, Galatea, incantevole anche se “in minore”.
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ecco, mi ha fatto piangere
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Il racconto è bellissimo
Narrà di molto di più di un centro sociale in via di estinzione (i centri sociali non si estinguono mai non lo sapete?).
Michele è sempre Michele e tornerà ad essere il centro di gravità, quel centro di gravità, Mimma canterà ancora della sua terra, Gala prenderà i suoi appunti. Perchè chi ha figli lo sa, tutti i figli della terra cercano un posto dove essere , dove esistere, dove vivere la loro giovinezza. Paninoteche, pubs, pizzerie sono non luoghi, sono solo meteore.
Ricominciare è troppo facile. Un gioco da ragazzi. Avete già vinto….. non c’è storia: il corso di veneto leghista è già defunto, morto, caput….
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