La prima pietra

fionda2

Almeno una volta al mese, è il nostro rito: Roberto su questo non transige. Il nostro pranzo del terzo giovedì è l’unica tradizione sacra che lui, agnostico su tutto, rispetti con religiosa convinzione. Ci conosciamo da diciotto anni: la nostra è una di quelle amicizie che hanno una data di inizio precisa, che si può scrivere sul calendario: era il mio terzo giorno di università, e, da brava matricola, ero così spaesata che non riuscivo a trovare nemmeno i bagni. Mi sedetti su un muretto, per cercare di trovare il bandolo di quell’immane casino che chiamavano Dipartimento; lui entrò nel cortile e si piantò a due passi dal muretto medesimo, con dipinta in faccia una espressione ancor più perplessa e confusa di quella che avevo io. Ci scambiammo un’occhiata. Mi fece tenerezza, con quell’aria tanto inoffensiva, i capelli scompigliati, lo sguardo mite da peluche finito per errore nella centrifuga della lavatrice: teneva in mano, aperta, una piantina di Venezia che continuava a consultare, senza accorgersi di leggerla per il verso sbagliato.

Gli sorrisi. “Ti serve aiuto?” dissi, scambiandolo per uno studente in crisi come me.

Direi proprio di sì…” sorrise lui di rimando, facendomi scoprire in un botto due sole cose: la prima, che di solito un professore universitario è la prima vittima del casino del suo stesso Dipartimento, e la seconda, e più importante, che anche un ragazzo non proprio bello, quando sorride così, diventa meraviglioso.

Sono passati gli anni, e le due considerazioni di allora sono ancora valide: quando sorride Roberto diventa più bello di Brad Pitt, ma, in compenso, nonostante da ricercatore sia oggi diventato associato, non è mai riuscito a venire a capo del caos che regna incontrastato nel suo Ateneo.

Quando entro nel suo studio, lo disseppellisco da sotto una pila di tesine, bozze, fotocopie e scartoffie assortite, che si accumulano da ere imprecisate sulla sua scrivania. Sono sempre affascinata dal materiale che si può trovare là dentro, è che è archiviabile sotto una sola voce: di tutto. Roberto, tecnicamente, sì, dovrebbe occuparsi di filologia greca, ma in pratica è un lettore talmente onnivoro che può interessarsi a qualsiasi branca dello scibile umano, ed in ogni singolo libro trova sempre un lacerto di informazione che gli serve a chiarire qualche altro lato oscuro dei suoi studi. Per cui la sua scrivania non è solo una sorta di cantiere in cui emergono pinnacoli di volumi da stratigrafie di carte, ma da ogni volume sporgono linguette e post it di vari colori e forme, con rimandi criptici vergati in calligrafia minuta, i quali creano una complicata rete di percorsi fra le pagine, una ragnatela di rimandi incrociati che solo Roberto sa districare e fra cui lui soltanto riesce ad orizzontarsi. Un altro essere umano, di fronte a quell’informe caos primigenio, resterebbe basito; Roberto, invece, dato che si tratta del suo personale caos, sa sempre esattamente ritrovarcisi: se gli serve un’idea, una citazione, un libro, lo brinca a colpo sicuro, e da quel punto di partenza ricostruisce poi tutto il percorso, in avanti o a ritroso: se mai Dio esiste, ho sempre pensato debba avere una testa come quella di Roberto: per questo riesce a vedere un perfetto cosmo in quello che a noi comuni mortali sembra solo un’accozzaglia senza ordine di roba buttata là.

Quando però arrivo, stavolta, Roberto è al solito sepolto dai suoi libri, ma è di un umor nero palpabile e feroce. Capisco il motivo quando mi rendo conto che, cosa per lui strana, non sta leggendo un saggio, ma ha aperta davanti a sé la prima pagina di un settimanale, da cui occhieggia la faccia sorridente del Premier, e sotto vengono annunciate nuove rivelazioni sugli svaghi nelle sue ville sarde.

Che… schifo!” commenta, sputando fuori le sillabe come fossero veleno. C’è un solo momento in cui Roberto è persino più caruccio di quando sorride, ed è quando si indigna. Perché da persona mite e dabbene, non si lancia mai in tirate moralistiche, prese di posizione ideologiche o in sfuriate un tanto al chilo: la sua è una rabbia contenuta ma meticolosa, sabauda come le sue origini. Per farlo prorompere in quel “Che schifo!” con punto esclamativo finale ha dovuto lavorare per anni, come la goccia che scava la lapide, ma adesso non la tiene più, è un fiume in piena: “Io mi vergogno, cazzo, ma ti rendi conto? Ci sono amici che mi hanno telefonato dall’estero per questa merda, e io non so cosa rispondere! Siamo lo zimbello del mondo!”

Dai, andiamo a mangiare, va’.” gli faccio io, prendendolo per mano, come si farebbe con un bambino che hai paura si agiti troppo e gli venga un coccolone.

La piccola osteria in cui ci rifugiamo è uno di quei prodigi che ogni tanto le città d’arte conservano: un localino che quando lo vedi dal di fuori pare un buco sporco, perché concede le sue meraviglie solo a chi è ben introdotto con il padrone: è il suo modo di salvarsi dall’invasione del turistame, tenere nel retrobottega quattro tavoli piccini picciò, in cui vengono servite delizie a prezzi quasi abbordabili. Quando entriamo, subito ci accorgiamo che non siamo i soli a conoscere l’arcano del ristorante: all’altro tavolino c’è assiso il Vecchio Barone, con tutta la sua corte, formata da Lui, da Valsecchi, un paio di dottorandi esangui e un duo di fanciulle abbronzatissime e bionde come delle piccole Paris Hilton della cultura.

Professor ******, Dottoressa *****!”

Il Vecchio Barone, non appena ci riconosce, si apre in un sorriso, o almeno in qualcosa che ci assomiglia da vicino, scostando di un’anticchia le labbra sottili, che paiono una ferita. In fondo, Roberto ed io gli stiamo simpatici, pur essendoci noi tenuti sempre ad una certa distanza dalla sua cerchia; non escludo, anzi, che sia stato proprio questo a far nascere la sua inclinazione: abituato da sempre a venire braccato da questuanti in cerca del riverbero di gloria che tocca chiunque gli si avvicini, il Vecchio Barone nutre una forma tutta particolare di rispetto per chi non gli chiede nulla e quasi lo evita: giudica costoro individui stupidamente orgogliosi, o spesso anche stupidi e basta, ma li gratifica di una specie di riconoscenza muta: la sua curiosità è stuzzicata da un comportamento che va contro ciò che, in tanti anni di baronaggine, ha stabilito sia la regola generale, ovvero il mero calcolo opportunista; e siccome il Vecchio Barone è potente, ma assediato dalla noia di vedere le sue previsioni sul mondo sempre e inequivocabilmente confermate, scovare qualche esemplare umano che gli dona il brivido di un imprevisto lo diverte.

Al suo cenno di saluto, i membri della corte, senza fiatare, spostano le sedie per accoglierci: ogni invito del Vecchio Barone non è affatto un invito, ma un cortese cenno d’ordine. La geografia del tavolo si riorganizza sulla base di una nuova gerarchia: a capo il Vecchio Barone, alla destra Lui in tutto il suo fulgore, con l’aria affascinante e svagata di un S.Giovanni appena appena un po’ passato d’età per ricoprire il ruolo; subito dopo una delle bionde, che ravviso subito come la studentessa già intravista al suo fianco all’ultimo convegno in cui c’eravamo incrociati: a confermarmelo è il broncio che mette su non appena mi riconosce. L’altra Paris è seduta accanto al Vecchio Barone, e, a colpo d’occhio, mi accorgo subito che è giovane sì, ma non così tanto come poteva apparire a prima vista: forse è una dottoranda, forse addirittura una ricercatrice a contratto. Deve avere solo un paio d’anni meno di me. Solleva un sopracciglio e valuta la mia pericolosità come concorrente: ha visto il sorriso del Vecchio, e ora soppesa ogni minimo dettaglio della mia persona, passando in rassegna scarpe, gonna, borsa, taglio di capelli, e poi anche la maniera in cui mi seggo accanto a Roberto, per capire che grado di intimità c’è tra noi. Il reciproco studio dura in tutto qualche lungo secondo appena: poi la Paris trentenne decide che io valgo un allerta minimo, non essendo abbastanza bionda, abbronzata e stronza per incontrare i noti gusti del Barone medesimo; ma, tanto per evitare equivoci, gli posa una mano sulla mano e gli dice, con tono di ordine perentorio: “Guido, passami il mio foulard!” che è il suo modo per piantare sulla sua testa una simbolica bandiera, stile astronauta che sbarca sulla Luna, e chiarire al mondo: “E’ mio!”

Il Barone fa un cenno a Valsecchi, che si affanna a porgere alla bella lo scialle richiesto.

Ipnotizzata da questo tableau vivant, mi sono persa l’inizio della conversazione, ma faccio presto a raccapezzarmi: Roberto, ancora in fase di indignazione acuta, sta sfogando la sua rabbia contro i divertimenti di Villa Certosa: “Insomma, uno quando è un privato cittadino può organizzarsi anche le orge, in casa, se vuole, ma quello che non accetto è che un Presidente del Consiglio prometta a ragazze facilitazioni di carriera in tv o le mandi in Parlamento solo perché sono passate da casa sua… non si può accettare che queste signorine facciano carriera in virtù dei loro rapporti personali e privati con il premier, è vergognoso, vergognoso, in un paese civile saremmo già con le barricate per le strade, io non capisco…”

Non capisce neppure perché, all’improvviso, in quel tavolo a cui sa che sono tutti antiberlusconiani convinti, cali un silenzio di gelo imbarazzato, manco lo avessero spostato di botto dentro un freezer. Le due Paris sbufficchiano perché i loro piatti non sono ancora giunti, il Vecchio Barone guarda in giro con fare distratto, Lui di punto in bianco prova uno spasmodico interesse per l’etichetta illustrante le qualità organolettiche dell’acqua minerale, e Valsecchi, il pio Valsecchi, di cui non si conoscono morose, si limita ad un vago scuotimento di testa, come a dire: “Vabbe’, ma dai, sarà mica un peccato mortale se ne rimedia un po’ così…”

Roberto rimane interdetto per l’indignazione che non scatta e mi guarda, come a chiedermi il perché. E io lo guardo di rimando, facendogli cenno di lasciar perdere, e di ordinare da mangiare.

Appena torniamo al suo studio bisogna proprio che glielo faccia, e con calma, quel discorsetto sui peccati e sulle prime pietre che è sempre così difficile scagliare.

Al solito, è un racconto di fantasia: i personaggi non esistono, e non esiste neppure l’Italia così descritta.

13 Comments

  1. Bah,se mi fosse capitato a fianco il Roberto,magari sarei stato a lungo in silenzio per via della prima pietra che non avrei proprio-proprio potuto scagliare; indi gli avrei fatto presente che a quel tavolo le pietre, tempo due anni, le scaglieranno le signorine presenti, che nonostante l’impegno profuso il piatto non l’avranno ancora visto.
    Inchino e baciamano.
    Ghino La Ganga

    "Mi piace"

  2. Temo anche io che le signorine non vedranno non dico un piatto, ma nemmeno una briciola.
    A quel tavolo, sarei stata zitta io pure, del resto.
    Quanto a “Roberto”… be’, lui è un’anima candida davvero, l’unica su cui mi sento di mettere la mano sul fuoco in qualsiasi momento. Sono certa che non ha proprio nemmeno capito l’imbarazzo di tutti gli altri. Fossero tutti come lui, sono certa che questo paese e forse l’intero mondo sarebbe un posto molto, ma molto, ma molto migliore. 🙂

    "Mi piace"

  3. Provo un sentimento strano, un misto tra ilarità e tristezza.
    Sono i momenti in cui mi chiedo: Berlusconi ha fatto gli italiani a sua immagine e somiglianza o viceversa?
    Ma non mi aspetto risposta, ne la voglio, perchè non so definire quale sia la peggiore. E questo forse è quello che mi spaventa davvero…

    Saluti.

    "Mi piace"

  4. O mamma mia, da ora in poi controllerò meglio i tavoli attorno, al ristorante: mi sento osservata… 😀

    "Mi piace"

  5. Temo che sia come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina. Berlusconi poteva nascere e attecchire solo in un paese come il nostro. Che però ha contribuito a far peggiorare di molto, ahimè, anche dove sembrava che non ci fossero margini.

    "Mi piace"

  6. Pensa che ieri mi ha lasciato un commento sul blog un ragazzo spagnolo, aggiungendo un link del suo blog, dove pubblica anche vignette su Berlusconi in doppia versione, in Spagnolo e tradotte in Italiano. Del resto è normale, certe notizie (e certe foto!!!) arrivano forse maggiormente all’estero che da noi, dove i media non sono proprio liberissimi (leggero eufemismo) e, d’altro canto, moltissimi Italiani non riescono più ad indignarsi. Troppe cose da noi sono diventate “normali”…

    "Mi piace"

  7. Che però ha contribuito a far peggiorare di molto, ahimè, anche dove sembrava che non ci fossero margini.
    Sei un’ottimista.
    Ci stanno convincendo che i vizi possono apparire virtù, oppure cadere in prescrizione.

    "Mi piace"

  8. Grazie per i bei scritti che lasci sul blog. Facciamo un patto? Se mi spifferi qual’è il ristorante appartato (sono un friulano che ogni tanto va a Venezia seguendo i fili d’un lontano cugino) ti cerco il link ad un’analisi su Berlusconi e gli ultimi fatti che incastra tutto in una visione pop come modello vincente. Una lettura che funziona contro la bile!

    "Mi piace"

  9. Mi spiace, me lo ha chiesto in più di uno, ma il ristorantino citato è immaginario davvero. Nel senso che trovare a Venezia un ristorante dove si mangi bene e i prezzi siano umani be’, onestamente, è una cosa che sconfina nel campo della più sbrigliata fantasia. 🙂

    "Mi piace"

I commenti sono chiusi.