Teo e il Carnevale: i due, si può dire, fanno partita unica.
Se il Natale lo deprime, il Ferragosto lo stressa, e le altre festività gli portano in dono una malinconia un po’ blasè che ben si s’addice al suo personaggio, il Carnevale per Teo è invece la vera Festa con la F maiuscola, e anche tutte le altre lettere capitali.
Già il giorno prima della Befana comincia ad entrare in fibrillazione: è tutto un informarsi dagli amici, far telefonate per avere il calendario delle manifestazioni, chiedere chi viene, chi non viene, e quando, e con chi, dove si va e che s’ha da fare. Lo specchio sopra il telefono si riempie pian piano di post it che gli ricordano gli impegni: Teo non ha un’agenda, ha uno specchio veneziano settecentesco, posizionato sopra il telefono e sotto il ritratto di un antico procuratore di S.Marco, avvezzo da vivo a combattere Turchi, e da morto a guardare con aria molto schifata la sua moderna progenie festaiola. Le prime due settimane di Carnevale si spendono così, nella pianificazione del tutto; la terza, invece, nella ricerca del costume. Che deve essere di anno in anno diverso, ma sempre fastoso, e fatto su misura con rigorosa ricostruzione filologica.
Data la stazza, Teo in genere va su qualcosa di mediorientale, tipo ambasciatore turco in visita copiato dagli affreschi del Tiepolo, con turbante multicolore ed ampio caffettano che scende morbido fino ai piedi, oppure di classicamente veneziano, cioè gentiluomo della Repubblica munito di tricorno e tabarro così ampio da poter nascondere gli svariati chiletti già accumulati e quelli accumulandi causa frittelle. Quando scarta il costume al centro del salone, tirando fuori dall’imballo un fruscio di sete e strati di stoffe damascate, scampoli di trine e merletti, fiocchi e nastri di alamari, gli occhi gli brillano come quelli di un bimbo: carezza il suo vestito, lo coccola, gli dà delle pacchettine per rintuzzare le piccole pieghe causate dal trasporto, poi, con la delicatezza di chi sta svoltolando le fasce di un neonato, lo porta in camera e lo indossa. A vederlo mettere su, pezzo dopo pezzo, calzettoni, giarrettiere, bragozze, camicia, fusciacca, giacca e parrucca con fiocco e codino, per un attimo capisco che doveva mai essere la vestizione del Re Sole a Versailles. È tutto un “No, passami questo!” e un “Ma no, quell’altro, dài!”, un incrociarsi di direttive complicate, sbuffi di maniche e sbuffare di gote per un polsino che si intorcola, un collo che cade dove non dovrebbe, la cipria che va messa senza macchiare il risvolto della giacca, e il ricciolo che deve andare proprio lì e non là; e alla fine, quando me lo ritrovo davanti, quel monumento di ragazzo rivestito come un gentiluomo dell’epoca di Casanova, non posso che restare a guardarmelo, inebetita come una Colombina, perché a furia di passare nastri e recuperare rendigote mi sento una povera servetta goldoniana un po’ intronata da tutte queste smanie dei signori.
“E tu come ti vesti?” mi chiede, premuroso.
“Teo, io non mi vesto. Lo sai che odio le maschere!”
“Ma non puoi! È Carnevale!”
E mi guarda con i suoi occhioni cilestri sgranati, indicando poi con un gesto la calle fuori dalla finestra, e Venezia lì in basso come un conquistador al seguito di Cortez indicherebbe il vagheggiato Eldorado.
Io ci butto un’occhiata in quelle calli grige su cui si affacciano muri impregnati di muffa, e vedo solo radi branchi di individui che, zigzagando fra passanti in abito normale, si muovono senza senso un po’ qui e un po’ là, avvoltolati in costumi vagamente spettrali. Il Carnevale in me suscita la malinconia dei cortei di fantasmi, spinti a sfilare da una tragica allegria forzata. Una simulazione di divertimento a comando che mi regala un brivido di malessere, forse di terrore. Dove lui vede la festa, io scorgo solo angoscia, e nello stomaco mi si apre una voragine che nessuna fritola potrà mai riempire.
Teo il mio carattere lo conosce, uh se lo conosce, anche troppo bene: ne ha provato tutte le durezze e sa che cercare di farmi recedere da qualcosa che ho deciso è più dura che riuscire a far abiurare a Lutero una delle sue 95 tesi. Ma sul Carnevale non accetta rifiuti, non ammette deroghe alla sua religione: ha già tirato fuori da uno dei mille ripostigli di casa sua una cassa di costumi, relitto di altre epoche, forse di altre morose, e sta tirandone fuori un bendiddio di vestiti, trine, gale, boa di struzzo. Uno me lo butta addosso, mi cinge, mi avvoltola, strizza, tira, solletica finché non mi fa quasi rotolare sul divano, soffocata dalle risate e dalle piume.
Ride anche lui, dice abbracciandomi e schioccandomi in bacio che mi sporca la guancia tutta di cipria: “Vedi che se vuoi ti diverti anche tu a Carnevale?”
Ma sì, ha ragione lui, in fondo.

Sig. Train, la smetta di fare il buffone.
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in giorni nevosi e duri mi hai strappato un sorriso, grazie
io pure non mi sono quasi mai vestita salvo da Mina con un vestito anni 60 verde bottiglia trovato in svendita a Londra da una vecchia amica e troppo grande per lei
Nico la libraia
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Somma invidia, cara Galatea.
Soprattutto perché un vestito da dama appena uscita da un affresco del Tiepolo continuerò a sognarlo per chissà quanto tempo ancora.
Dia un bacio a Venezia da parte mia, me ne sono innamorata una notte di martedì grasso di tre anni fa, a fare fotografie in una città deserta come non credevo potesse essere neanche alle due del mattino 🙂
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mi è piaciuto molto questo racconto di carnevale…
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