
A Lisa, a cui le avventure del Barone piacciono tanto, e a tutta l’adorabile tribù pisana
E’ la riunione del Mercoledì. Non si scappa, si è tutti precettati.
Alle tre precise, borsisti, dottorandi, famigli di ogni ordine e grado lo sanno: si pianta tutto e ci si dirige nello studio del Vecchio Barone. Come la teoria delle Vergini nei mosaici di S.Apollinare. In coda, e sciamare, via!
Ognuno si porta dietro il suo plichetto di fogli sotto il braccio, o religiosamente chiuso dentro una cartellina. Non ci sono scuse, e non ci sono santi. Se non c’è niente da portare al Vecchio Barone, pazienza, si sta in disparte e si ascoltano gli altri. Persino le favorite di turno fanno buon viso a cattivo gioco: si mettono nell’angolo, con il broncio di chi troverebbe più utile spendere il tempo a mettersi lo smalto sulle unghie, ma stanno lì, e zitte.
Quando il Vecchio Barone lavora, lavora.
La differenza tra un grande ed un bluff sta tutta lì. Per quanto passi la vita ad intrigare, tramare o inciuciare a convegni, incontri, seminari, Collegi di Dipartimento e Consigli di Facoltà, c’è un attimo preciso in cui tutto questo finisce: quando il Vecchio Barone chiude la porta del suo studio i maneggi svaniscono di botto, sono lasciati fuori con determinata e fredda cortesia. Dentro si fa ricerca.
La riunione del mercoledì pomeriggio è una sorta di epifania. È l’unico momento, tanto per cominciare, in cui nel suo studio si può entrare; per il resto del tempo la stanza del Barone è off limits per tutti, senza alcuna eccezione: i dottorandi, se hanno bisogno di chiarimenti, sono dirottati su Valsecchi; i laureandi, se necessitano di lumi su qualche particolare della tesi, affidati ai contrattisti più anziani; l’antro del Barone resta chiuso quando lui non c’è, e cioè quasi sempre, ma anche quando c’è non viene considerato uno spazio della facoltà, ma un luogo privato e chiuso al pubblico andirivieni. Ci si entra solo per esplicito invito, e ci si esce subito e senza attardarsi, non appena arriva un velato cenno di congedo dal suo proprietario.
È curioso, lo studio del Barone. Se gli animali vanno osservati nel loro ambiente, la tana del Vecchio Barone sembra pensata per non rivelare nulla, e perciò dice molto.
Quello che ti colpisce è il vuoto. Regna sulle pareti, sui muri. È uno studio francescano, senza distrazioni. Quelli degli altri docenti rigurgitano di ricordi messi in fila: locandine dei convegni di cui sono stati relatori, copertine di saggi che hanno scritto, foto in cui sono ritratti a braccetto di questo o di quel Grande, a perenne testimonianza che il Grande, almeno una volta nella vita, si è degnato di concedere loro un riverbero della sua grandezza, o almeno cinque minuti di cortese ed indifferente attenzione. E poi immagini di famiglia: mogli, figli, nipoti, fidanzate, amanti del passato e in carica, facce sorridenti immortalate al sole di vacanze o nel grigio della vita quotidiana. Sono altarini in cui i docenti ostentano il fatto di esistere anche fuori di lì, il feedback di conferma che vivono davvero: hanno impegni, famiglie, successo, lontano da quegli antri stipati di libri e di anonimo studentame in cui il lavoro li imprigiona, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana.
In quello del Barone no. Niente locandine, niente foto. Una litografia, sì, di un grande autore, che da sola, molto probabilmente, vale quanto dieci anni di borsa di studio, ma basta. Sulla scrivania poche cose: una cartellina di cuoio lucido con alcuni fogli bianchi per appunti; il computer, il telefono, un blocco di post it intonsi; sugli scaffali i libri, impilati con ordine maniacale, secondo un criterio che riflette le sue necessità di rilettura. Fra le pagine non un segno, un’orecchia, un cavalierino che indichi quale filo dei pensieri li unisca, quale ragionamento abbia portato alla loro consultazione: di qualsiasi cosa si occupi, il Barone tesse le sue reti in maniera invisibile: quando ti accorgi di esserci caduta dentro è già troppo tardi.
É un uomo secco in tutti i sensi, il Barone: secco di volto, di corpo, di mente e di parole. Ha il fascino tagliente di un coltello di acciaio. Quando serve, sa ammaliare. In pubblico, se gli garba, è capace di sfruttare tutti gli artefici della retorica, intortare, sedurre, fingersi svagato a piacione, a seconda di ciò che conviene. Quando apre bocca pendi dalla sue labbra e non chiedi che di ascoltarlo, ancora ed ancora, conquistata da quell’elegante periodare toscano che usa tutti i colori della lingua con l’innata padronanza di chi l’ha inventata. Ma quando è in privato, e parla col suo staff, la parola è un bisturi: seziona. Non c’è spazio per l’arabesco.
È meticoloso, pignolo. Ogni pagina rivista con lui è un’agonia. Non ti perdona una virgola. Per ognuna ti chiede puntuale giustificazione. Di ogni articolo che va pubblicato sotto la sua responsabilità vaglia contenuti e forma, parola per parola, lettera per lettera. Ogni ipotesi va smontata, rimontata, smontata nuovamente e riverificata dalle fondamenta. Ogni pagina viene crivellata di segni rossi, sottolineature, ondine, punti interrogativi: “Qui che vuoi dire? E qui? E qui? E qua, la fonte? Cos’è, le fonti sono un optional, adesso?”. È sarcastico. Sfibrante. Non ha cedimenti. Non ne ammette.
Lo odi, il Vecchio Barone. Dopo due ore in cui ti ha avvinghiato e distrutto, lo vorresti uccidere per come riesce a farti sentire umiliata e svuotata, una cretina perfetta. Ma proprio allora, quando sei lì per arrenderti, esausta, chiedendo quella pietà che si accorda anche al più indegno dei nemici sconfitti, alza il sopracciglio, si ferma, gli si disegna sul volto un sorriso etrusco, o almeno un increspo di labbra molto simile: “D’accordo – dice – va bene, mi ha convinto, lo pubblichiamo.” Gli altri ti guardano, basiti. Tu sei troppo stanca persino per gioire.
C’è una intransigenza da monaco fanatico, in lui. Il lavoro è la sua religione, l’unica cosa in cui non riesce ad essere cinico: ci riversa dentro l’ansia di assoluto che nella vita non ammette in nessun altro campo: la ferocia che esercita su tutto e tutti si fermano davanti ad una ricerca ben fatta, un ragionamento che fila: non prova alcun innato rispetto per gli esseri umani, ma non resiste al fascino di una teoria ben formulata.
Le idee sono le sue uniche vere amanti, le sole che lo seducano davvero. Quando gliene presenti una bella, gli occhi gli brillano per un impercettibile attimo, come se la vedesse entrare nella stanza, nuda, e venirgli incontro danzando. Come le amanti, gode nello scoprirle a poco a poco, flirtare, studiarle da lontano come se gli fossero indifferenti, pian piano avvicinarsi e poi trascinarle a sé, con ferma determinazione, per farle sue, possederle e piegarle ai suoi giochi. Le tratta da puttane, ma sono quelle puttane di cui gli uomini non sanno fare a meno.
Non ama chi non ama le idee, il Barone. Pur odiando i suoi nemici con implacabile avversione, è disposto a perdonare quelli che hanno idee, mentre i servi sciocchi, anche se a lui fedeli, sotto sotto li disprezza. Se ha trescato per il potere, lo ha cercato solo per poter continuare a inseguire le idee. Pur avendolo ottenuto senza farsi scrupoli, il potere per lui rimane sempre un mezzo, e non il fine.
Per questo, quando volge gli occhi per la stanza, e si accorge che Lui non c’è, non riesce a trattenere un moto di incredula stizza.
“Dov’è Carlo Saverio?” mi domanda, brusco, notando la sedia vicino a me vuota.
“E’ di sopra, ha un appuntamento con la Direttrice.” dico, cercando di presentare la cosa con un tocco di noncuranza.
“Ma è Mercoledì! Dovevamo discutere i contributi per il convegno!” Il tono è incredulo, più ancora che ferito.
“Ha lasciato a me la bozza…” tento di dire, ma sento che le guance mi arrossiscono da sole.
Il Vecchio Barone mi guarda, gli occhi che brillano di furore: “Che cazzo me ne faccio della sua bozza? Voglio discuterla con lui, la bozza, sennò a che cazzo serve far questo mestiere? Se volevo leggere le sue cacate, bastava che mi mandasse una mail!”
Mi strappa di mano la rismetta di fogli, la getta sul pavimento con disprezzo, mentre Valsecchi si china velocissimo, per raccoglierla prima che tocchi terra, e io non so né muovermi né far parola.
Il Vecchio Barone si siede dietro la scrivania, anzi, pare schiantarsi sulla poltroncina. Fissa il muro e parla, ma a se stesso, non a noi, che incidentalmente siamo là: “Va agli appuntamenti con la Direttrice, il coglione! Quando c’è da lavorare! Quando c’è da ragionare e discutere! Va dalla Direttrice! Una vita che cerco di insegnarli il mestiere, e ancora crede che sia solo questo: arruffianarsi chi serve, come una qualsiasi troietta, per garantirsi il suo maledetto posticino!”
C’è una tale amarezza nelle sue parole che sembrano venirgli fuori dalla bocca come uno sputo. Ma uno sputo che rivolge verso se stesso, quasi che per la prima volta si rendesse conto che, di tutto ciò che ha insegnato loro, gli allievi han visto e recepito soltanto il lato più abbietto, i tramacci per amministrare il potere, ed è invece del tutto sfuggito loro la ragione per cui conquistarlo. Quasi capisse in quel preciso istante, e per la prima volta, che mentre lui ha sempre combattuto, forse anche ingannato, per un fine, loro hanno imparato invece solo dei mezzi. Nei suoi occhi che fissano apparentemente le pareti nude del suo antro ci si vede l’amore per le idee, che non può sopportare di vedere così offese, tradite. Si sente in colpa per non averle protette, lui, a cui loro s’erano affidate e concesse come le dame si affidavano alla cortesia dei cavalieri per essere difese nei pericoli e negli agoni.
Poi, d’improvviso, si ricorda che ci siamo anche noi. Ci guarda con rabbia, ma quella rabbia che nasce dall’avvilimento: “E voi che fate qua ancora? La riunione è sospesa, anzi, non la facciamo più. Tanto non servono ad un cazzo, queste riunioni, no? Sono le manie di un vecchio coglione come me, che ancora vuole controllare le cose, prima di pubblicarle! Mandatemi delle mail con i vostri lavori, tanto è lo stesso! Non serve ad un cazzo confrontarsi sulle idee. Andate fuori anche voi, ad inciuciare! E’ così che si fa questo mestiere, oggi, ormai!”
Usciamo, in silenzio. E quasi in retroschiena, come si fa allontanandosi di fronte ad un sovrano, anche se sappiamo che si tratta di un sovrano sulla via del declino, il cui potere è ormai al tramonto.
Ma è il minimo segno di rispetto che si deve a chi ti ha appena fatto capire la profonda differenza che c’è tra un Barone ed un Maestro.
grande le storie di inciuci e tramacci nelle università italiane sono appassionanti. Quand’è che proponi per una serie tv. MI sa che farebbe ascolto. In ogni caso siccome è sempre colpa dell’insegnante se il vecchio non ha fatto capire la differenza fra Maestro e Barone un pò di colpa che l’ha di sicuro…
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GRAZIEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE!!!!
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bè, direi di proporti come dialoghista o sceneggiatrice per una serie da mandare online, tutta sul mondo accademico. Se ne vedrebbero delle belle 😉
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Bellissima storia. Quella che potrei raccontare io è solo squallida, ma vuoi mettere la soddisfazione di aver avuto ragione mentre un ordinario aveva torto marcio? (anche se ha cercato di farla pagare a me).
Ne ho conosciuto anche io uno a Bologna, di questi baroni che però sanno lavorare e, politica a parte, sono dei grandi nel loro settore di ricerca. Lo si vede ogni tanto in televisione.
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