
È difficile spiegare a noi moderni quanto fossero organizzati gli antichi Romani. Questa razza di contadini testardi e pragmatici, dalla testa dura, pare impossibile che sian riusciti a mettere in piedi e tenere in efficienza un impero complesso che, quanto a durata, non ha rivali in Occidente e pochi anche nel resto del mondo. Eppure i Romani antichi erano così: efficienti. Gente di poche parole e poco avvezza pure a perdersi in grandi sottigliezze. C’era da fare una cosa per il bene dello Stato? Si faceva.
Certo, giocava in loro favore quello di vivere in un mondo in cui i concetti di carità cristiana e diritti umani erano ancora là da venire. Il mondo pagano non era spietato, ma duro sì, e basato sul sano ed inderogabile principio che solo quelli uguali a te avevano qualche speranza di essere trattati da te in modo civile. L’idea di fratellanza universale, di uomini che si rispettano in quanto facenti parte tutti della stessa grande famiglia era aliena dalla mentalità antica: ognuno era solo prodotto e figlio della sua civiltà, e quelli che non ne facevano parte erano irrimediabilmente “altro”, una poltiglia informe di quasi animali, senza diritti e senza sentimenti, che si potevano ridurre in schiavitù o macellare senza troppi sofismi. Non esisteva, però, quello che oggi noi definiremmo “razzismo”: nessun Romano pensava che le caratteristiche culturali fossero immutabili e invariabilmente destinate a riprodursi nei discendenti. Il mondo antico, e questo è il suo lato migliore, aveva una sconfinata fiducia nella paideia, cioè nell’educazione. Nel giro di una generazione o due i peggiori barbari potevano integrarsi: istruiti e ripuliti tramite il servizio nell’esercito, se accettavano tutti i sacri crismi della romanità, eccoli assunti in breve fra i cittadini, con diritti pari agli altri, vale a dire, in età imperiale, comunque molto pochi, ma tant’è. Non poteva del resto che pensarla così una civiltà nata da bastardi che avevano fondato la loro città scappando da altre e lasciandosi tutto alle spalle. Erano duri, i Romani, ma sempre pronti a dare un’opportunità a chi bussava alla loro porta, purché il profugo sembrasse poter offrire qualche competenza per rendere migliore lo Stato.
Proprio in virtù di queste loro idee, quando nel 376 d.C. si trovarono di fronte a quella immane marea umana di Goti che bussava alle porte dell’Impero, risposero tutto sommato con celerità ed una buona disposizione d’animo.
Erano tanti, i Goti. Un fiume di gente fuggita in fretta dalle lande indefinite che si trovavano al di là del Danubio. Alle loro spalle c’erano il vuoto e la paura. Carestia, piogge, freddo, fame generatasi da annate di gelo, e per di più gli Unni, i demoni delle steppe, calati da chissà dove per portare morte e distruzione. Erano barbari, i Goti, certo, ma venivano con addosso l’umiltà del profugo che scappa impaurito e bussa tremebondo alle porte di quello che gli appare un paradiso: un Impero immenso, potente, ricco, dove la gente vive in belle case di muratura, i figli vanno a scuola, le strade sono lastricate e ordinate, il lavoro ed il cibo si trovano con facilità.
Non fu l’umanità in senso stretto che spinse l’imperatore Valente ed i suoi consiglieri a dare l’ordine perché venissero accolti. La politica, in tutti i secoli, non risponde mai alle semplici e sole ragioni umanitarie. Alla corte imperiale si fecero due conti: quella massa di gente e di braccia poteva essere utile. Erano bravi combattenti, i Goti, che avrebbero potuto dare nerbo all’esercito, sfibrato da secoli di guerre; e comunque erano uomini che si potevano mandare a ripopolare le terre brulle abbandonate dai contadini, che ormai formavano macchie qua e là all’interno del territorio romano.
I Romani, quindi, dissero di sì. L’operazione era una cosa in fondo mai tentata prima, ma ecco, i Romani confidarono sulla loro perfetta organizzazione ed efficienza: sulle sponde del Danubio vennero allestiti punti di passaggio, check in per prendere le generalità di tutti quelli che dovevano entrare; approntate tendopoli temporanee per ospitare i nuovi arrivi, che poi sarebbero stati smistati nelle terre pronte ad accoglierli, sotto il controllo dell’esercito. Sulla carta, una cosa che doveva riuscire bene, anzi benissimo. Tutte le cose, sulla carta, funzionano che è una meraviglia.
Nella pratica, presto si trasformò in un immane caos. La gente, tanto per cominciare, era molta di più di quella attesa. Si assiepava sulla riva del Danubio, quella non romana, come se le steppe infinite vomitassero incessantemente esseri umani, uomini, donne, bambini, famiglie intere. Farli ragionare o solo rispettare l’ordine era impossibile: si accalcavano, premevano. Come sempre in questi casi, c’era chi cercava di fare il furbo, da una parte e dall’altra. Funzionari romani pronti ad essere corrotti, e a mettere in lista per far passare prima chi allungava loro mazzette. Reparti dell’esercito nervosi, che reagivano brutalmente a chi cercava di passare di nascosto; disperati che tentavano di attraversare il fiume a nuoto o su zattere di fortuna, perendo miseramente; stupri di donne e bambini, fatti entrare clandestinamente da Romani in apparenza impietositi, che invece volevano acquisire gratis degli schiavi.
Una volta passato il confine, per i Goti ci furono amare sorprese. I Romani, quei Romani che tanto avevano mitizzato, si rivelarono pressapochisti ed incapaci. I campi profughi allestiti in tutta fretta erano terrificanti, senza un minimo di organizzazione interna, senza infrastrutture. C’erano ufficiali che rubavano sulle forniture, cibo che non arrivava. Si cercò di smistarli in altre regioni dell’impero, come promesso in origine, ma anche qua l’organizzazione andò in tilt, perché le popolazioni delle regioni che dovevano accoglierli, di avere vicini i campi di Goti non ne volevano sapere, quelli erano barbari, che se ne tornassero a casa loro. E intanto, sul Danubio, continuava ad arrivare gente che premeva per passare e spesso ci riusciva, perché la frontiera era un colabrodo.
Le città che dovevano ospitare in via definitiva o transitoria la marea umana erano impreparate, perché tutto era stato delegato alle autorità locali, senza una vera parola definitiva da parte del Governo, che aveva promesso tutto e tutto il suo contrario, in un gioco di ping pong di competenze dove le palline erano esseri umani, non solo i profughi, ma anche i cittadini. La situazione non poteva che sfuggire di mano, ed infatti sfuggì. Le popolazioni locali chiusero le porte in faccia, rispondendo con l’equivalente antico di «Fœra dai ball!», non rendendosi conto però che ormai i Goti fra i “ball” c’erano, e ricacciarli via non era possibile. I Goti reagirono come giustamente reagisce chi si è visto invitare ad entrare in una casa e poi improvvisamente si sente ordinare di andarsene a calci nel sedere: non capendo, s’incazza. Formarono delle bande armate, si diedero al saccheggio del territorio, precipitando, assieme ai Romani, in una spirale di violenze e guerre che culminerà nel disastro di Adrianopoli, due anni più tardi, la battaglia da cui si può far davvero cominciare la lenta ma inarrestabile agonia dell’Impero Romano.
Chi sbagliò, in tutta questa operazione così disastrosamente conclusasi? In pratica tutti, ma poi forse anche nessuno. Non i Romani, che reagirono razionalmente, rendendosi conto di non poter comunque lasciare accampati sulla riva a morire di stenti quei Goti che si assiepavano, perché in ogni caso prima o poi si sarebbero ribellati, e la frontiera non era difendibile da un’orda non tanto di barbari, quanto di disperati. Non certo i Goti, che non avevano scelta. La cosa triste di tutta la vicenda è che non ci fu un vero colpevole, ma un insieme di comportamenti che portarono allo sfacelo: le piccole truffe dei funzionari di frontiera, l’impreparazione, l’avidità dei proprietari terrieri, gli inganni, la corruzione diffusa e la furbizia spicciola di chi voleva lucrare pochi sesterzi su una tragedia immane; la disorganizzazione di chi confida troppo in se stesso e dei funzionari pigri che pensano che tanto le cose, prima o poi, vanno a posto da sole; l’ottusità dei burocrati che sul campo non ci vanno mai, o si appalesano soltanto per brevi visite, e in zone in cui tutto è stato ripulito per il loro arrivo. E anche la semplice spocchia di chi ha alle spalle uno Stato ricco, per cui presume di saper gestire qualsiasi emergenza dando ordini dall’alto e pagando un tot, perché ha completamente dimenticato la disperazione della miseria e il caos irrazionale che si genera e contagia tutti. Non c’è un solo colpevole identificabile, né un genio del male, in questo episodio, ma solo tante piccole stupidità sommate le une alle altre, che poi però causarono morti, distruzioni, sofferenze. Per cui alla fine chi studia la faccenda si porta addosso questo malinconico senso di evitabile che tuttavia non doveva poter essere evitato, ma di fatto non lo fu, e non si sa bene perché.
Poi, per distrarsi apre la tv, vede i campi profughi di Lampedusa e Manduria o i tunisini e Ventimiglia, e sente un brivido che gli scorre lungo la schiena.
*Sulla vicenda si consiglia vivamente la lettura di A. Barbero, 9 agosto 378, il giorno dei barbari, Laterza, Bari 2005.
La burocrazia corrotta e le paure del popolo distruggono imperi, questo è assodato.
E non si salvano neanche gli Stati più spietatamente centralizzati.
Un esempio per tutti: la Russia di Putin. Dove, anche se il caro Volodja Putin fa il bello e il cattivo tempo, la corruzione e il sistema di funzionari pronti a cercare un tornaconto in ogni piega dell’immensa burocrazia russa sono riusciti a bloccare un progetto (caldamente sostenuto dal Cremlino) che avrebbe creato una nuova via di accesso al territorio russo aggirando la Georgia. Progetto sparito nel nulla perché le imprese appaltatrici hanno fatto due conti, e foraggiare l’avidità di un gruppo di funzionari avrebbe indispettito altri, pronti a mettere i bastoni tra le ruote. E pagare tutti sarebbe costato più della realizzazione dell’intero progetto.
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@–>Galatea
Hai omesso un particolare assai significativo. Ciò che fece veramente incazzare i Goti, fu un comes imperiale, tale Silvius Mendax Berlusconius, detto Porcus perché discendente dall’antica e prestigiosa gens Porcia, che, arrivato sulle sponde del Danubio alla guida di tre coorti, fece ai barbari tante e tali promesse d’immediata sistemazione, di posti di lavoro per tutti, di terre da coltivare e armenti da allevare, che il suo discorso venne poi cancellato da tutti gli annali, onde evitare la vergogna che aveva gettato sull’imperatore, sul senato e sull’intero popolo romano.
Fatto assai curioso e inusuale per un nobile romano, Berlusconius, prima d’allargarsi così spudoratamente in promesse non mantenibili e peraltro pronunciate senza il preventivo consenso dell’imperatore, s’era chinato a baciare l’anello di Fritigerno, capo dei Goti.
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Bravissima.
E non dimentichiamo che ad Adrianopoli attacco’ chi era piu’ avido ma vinse chi era piu’ disperato.
Ciao 🙂
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A tal proposito, consiglio la lettura del passo delle Memorie di Adriano in cui l’imperatore ricorda la sua stagione in Britannia: l’immagine della ‘prima paga romana’ ai ‘barbari’, il dar loro un’appartenenza, inquiadrarli nella struttura dell’impero … il non voler dividere il mondo in ‘Romani’ e schiavi-barbari (‘che servono dal basso e rispettano da lontano’) … beh, dovremmo ricordarcene.
Brava 🙂
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…. e perchè non provare con i “goti de vin” ?
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chiedo scusa per la lunghezza in casa d’altri, ma il tema è davvero interessante
C’è una sorta di impotenza del potere. Da sempre un re, un tiranno, un presidente, un titolare del potere, anche se animato da buone intenzioni, ha il problema, nel mettere in pratica un’iniziativa concreta, di fare i conti con la «pesantezza» dello stesso apparato a lui sottoposto. Quindi si potrebbe leggere tutta la storia, almeno d’Europa, come la lotta fra il potere centrale e il potere periferico. Difatti gli stessi romani spesso, considerarono più opportuno in molti casi delegare ad una élite locale l’amministrazione. Ora, di fronte ad un problema epocale, è molto difficile per un potere centrale, buono o cattivo che sia, agire senza subire resistenze, senza dover fare i conti coll’essere, in qualche modo, impotente.
La mia spiegazione, la mia modesta ipotesi, è antropologica. Geneticamente noi siamo animali programmati per un riconoscimento del potere e dell’unità «naturale» fra amici limitato a 200/300 individui. Perciò ogni altra aggregazione, che potremo chiamare popolo, patria, classe, oppure identità per via religiosa o culturale, è sempre un’identità «costruita» attraverso cultura, educazione, predicazione, ma non è scritta nella nostra natura biologica. Di qui il problema. Certamente l’unico rimedio al problema è la «paidéia», ma ovviamente avrà comunque effetti mai definitivi e mai capaci d’arginare i periodici bagni di sangue che attraversano la storia.
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ho come un déja-vu.
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Raramente mi è capitata di leggere una parodia del mondo contemporaneo così efficace e intelligente. Brava Galatea. Comunque, “l’impero” penso non finirà per l’arrivo dei “goti”, ma per l’uso stupido e irrazionale delle risorse, che sembrano sempre infinite, fino a che si ha l’illusione che i denari possano semplicemente comprarle.
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Questa non è una parodia del mondo moderno. E’ una panoramica, ovviamente con delle generalizzazioni, sul mondo antico.
Si può anche ricordare che Alarico, prima di saccheggiare Roma, stava chiedendo di diventare un generale romano e di veder rispettate le promesse che i Romani avevano fatto. Allo stesso tempo, però, i Goti erano riusciti ad esasperare intere diocesi.
Insomma le semplificazioni non servono, lo studio della storia sì, e questo post ne è una dimostrazione.
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Grazie per il consiglio di lettura 🙂
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Altro deja vu, un presidente del consiglio che se ne va in Tunisia, purtroppo mi sa che questa volta non saremo fortunati come nella precedente e ce lo ritroveremo di ritorno in men che non si dica
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…finalmente comprendo perche’ i grandi imperatori romani avessero tante slendide dimore sparse per l’italico territorio…e pensare che non c’era neanche internet…
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Mi complimento innanzi tutto per lo stile di scrittura, molto scorrevole e sicuramente piacevole. Da studente di storia romana però mi permetto di dissentire su alcuni paragoni non troppo azzeccati:
1) Dire che non esiste un’idea di razzismo nell’impero romano è corretto, ma non è altrettanto corretto dire che una società schiavistica che trattava come bestie i neri (leggere Seneca), oppure come piccoli e sciocchi provincialotti i Britanni (testimonianze dei castra presso il Vallo di Adriano), fosse una società aperta.
La mentalità romana è di tipo fortemente contrattualistico: si integrano elité sociali e uomini dopo il servizio militare prestato come “alii” per poter avere la loro fedeltà e le loro tasse. Al mondo romano non interessa “educare” qualcuno, e se gli interessa è solo per poterlo poi utilizzare per qualche fine tecnico pratico (leggasi: terre, tasse e miniere).
2) I goti non erano una popolazione accomodante, ma una fra le più feroci e sanguinarie dell’epoca (Flavio Ezio ne sapeva qualcosa)
3) La mentalità romana è più simile a quella americana che alla mentalità europea di qualsiasi paese, probabilmente potendo sistemare la questione con i metodi tradizionali avrebbero pigliato tutti gli uomini e li avrebbero uccisi assieme ai vecchi, avrebbero dispero i bambini ai 4 angoli dell’impero e le donne…beh vi lascio immaginare.
Buona giornata! =)
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Bellissimo.
P.S.: Sono Pazzi Questi Romani.
Ruz.
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Oggi il Commodo d’ Italia va a Tunisi a promettere come fa di solito in Italia a quel 30% di italiani che sono disconnessi tra cervello e corpo. Ma in Tunisia alle sue mirabolanti promesse di denaro e aiuti gli diranno: prima vedere cammello poi dare donne. I superbi Romani avranno una bella lezione di intelligenza da parte dei disprezzati (da loro) Fenici. Ecco cos´è l’ Italia oggi: un paese che, unico al mondo, crede alle favole del proprio padrone.
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@Francesco:
1) Se per razzismo si intende una vera e propria impostazione mentale per cui si ritengono superiori agli altri solo ed esclusivamente gli appartenenti ad una certa “razza” (sarebbe più corretto dire “etnia”) il mondo romano ne era in un certo senso immune. Se i Greci postulavano con Aristotele l’esistenza di popolazioni “physei douloi” , questa idea non era per nulla diffusa nella società romana, e prova ne è l’estrema facilità, rispetto alle poleis greche, con cui veniva concessa la cittadinanza e con cui i liberti (ex schiavi) venivano immediatamente assorbiti e integrati nella società dei liberi. Il “razzismo” è ben altro che considerare “provincialotti” i Britanni (i graffiti cui tu fai riferimento si riferiscono, se non sbaglio, ai Britanni barbari che vivono al di là del Vallo, non a quelli romanizzati dai tempi di Claudio, che erano considerati uguali per diritti agli altri provinciali): il senato ai tempi di Claudio, stante l’ironia di un Giovenale, era formato per metà da senatori che avevano bisnonni ex schiavi; l’esercito romano era una forza multietnica, e prova ne è l’assurgere al rango imperiale dalla carriera militare di imperatori come i Severi, Filippo l’Arabo o Massimino il Trace, o lo strepitoso potere di uno Stilicone.
2) La durezza verso gli schiavi ricordata da Seneca non era perpetrata su base razziale, ma su base “sociale”. Di qualsiasi etnia fossero gli schiavi (Fossero stati anche italici, per dire), essi non erano considerati “esseri umani” o soggetti di diritti, e Seneca se ne dispiace, chiarendo che “servi sunt, immo homines”; però, non appena manomessi, essi diventavano pari agli altri, indipendentemente dalla etnia di origine, cosa che sarebbe impensabile in una società permeata dal razzismo;
3) La mentalità romana, come dici tu, è di tipo fortemente contrattualistico: proprio per questo non importa una cippa di dove uno sia originario, basta che abbia qualcosa da offrire a Roma e sia disposto a servirla: è esattamente quello che dicevo nel mio post. In questo senso Roma antica è sì molto simile agli Stati Uniti (non a caso, anche loro una nazione fondata da gente che stava scappando) ma è una società molto più aperta di quelle coeve, per la sua incredibile capacità di integrare a breve termine nei ranghi di potere le élite provinciali (Si vedano i classici studi di Syme). Personaggi come il Trimalcione di Petronio non sarebbero pensabili se non in una società “aperta” in cui la scalata sociale per un ex schiavo è possibile soltanto in virtù della sua abilità negli affari. Pur se il mondo della politica restava parzialmente più chiuso ai nuovi venuti, fin dall’età di Claudio abbiamo liberti come Narciso che sono dei veri e propri ministri dell’imperatore, e altri che nel giro di due generazioni ìvedono i propri eredi divenire cavalieri e senatori. Se per società aperta si intende una società con una spiccata mobiità sociale, Roma lo fu di sicuro.
4) I Goti non erano una popolazione accomodante. Be’, di popolazioni accomodanti ce n’erano poche. Anche gli stessi Romani non lo erano affatto: Giulio Cesare conquistò le Gallie con quello che oggi potremmo definire senza troppe esagerazioni un genocidio.
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Beh,ma quando Sua Signoria pare essere anche lo spunto per un articolo di Alberoni apparso giusto oggi sul Corriere della Sera e tirolato “La lezione dei Romani”, o qualcosa del genere (sapessi linkare linkerei,io), non si può che inchinarsi….
😀
Complimenti, gran post.
Inchino e baciamano.
Ghino La Ganga
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@Ghino: O mamma, scoprire che Alberoni mi legge sarebbe inquietante. Mo provo a trovarlo, per curiosità. 🙂
Edit: L’ho letto. Non sa un beneamato di storia antica. E’ già tanto se ha letto un Bignami scalcagnato. 😦
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