Quello che ti colpisce dei Pronto Soccorsi è la rassegnazione. Non il dolore, non la sofferenza. La rassegnazione. Si è là, tutti. Si entra già che si sta male, e molto; ma il dolore appena varchi la porta a scomparsa si anestetizza: sei entrata in un Pronto Soccorso, cioè in un luogo dove il dolore aspetta. Educatamente.
L’operatore al bancone è calmo, quasi pacifico. Gli arrivi davanti, più o meno singultando gli dici cosa ti è successo. Lui ascolta, spesso ti fa ripetere. Non perché non si capisca quello che hai detto, così, credo per deformazione professionale: come il dottor House forse è convinto che tutti arrivati là mentano, ingigantiscano i sintomi, esagerino per essere più prontamente visitati. E quindi lui chiede sempre due volte, come i poliziotti negli interrogatori, per vedere se cadi in contraddizione.
Dopo che ti ha sentito raccontare di nuovo e di nuovo l’accaduto, con placida bonomia ti consegna un numero e un foglietto su cui c’è scritto una probabile diagnosi ed il colore che ti viene assegnato: se è rosso non lo leggi mai, perché vuol dire che stai ad un passo dalla morte; se è giallo forse lo leggi, ma stai così male che non te ne frega niente; se è verde stai abbastanza male per desiderare di essere un codice rosso o giallo, perché così almeno qualcuno ti porterebbe subito da un medico; se è bianco, ti si para davanti il nulla di una infinita attesa.
Si parla nei Pronto Soccorsi. Chi è in grado di farlo per ingannare il tempo, chi non è in grado no, ma ha vicino almeno un parente che lo ha accompagnato e deve trovare qualcosa da fare per straviarsi. C’è un sottofondo di lamenti discreti che viene quasi sempre dalla barella di un anziano, cui la figlia, la nipote o la badante dicono «Shhh! Shhh!» di tanto in tanto, oppure il lagno stanco di un bimbo tormentato dalla febbre. Non piangono, i bimbi al Pronto Soccorso: se sono là sono in genere così stravolti che non hanno più la forza nemmeno di lagnare.
Ti stupiscono i Pronto Soccorsi per la loro concentrazione di gente che sta male. Quando sei fuori di lì la malattia sembra un’eccezione, un caso; non appena entri non solo ti pare diventi la regola, ma pure ti stupisci per la fantasia del male, così multiforme: l’incidente casalingo, la caduta, il virus, l’infezione, la ferita, fino all’infarto ed all’ictus. Una serie infinita di varianti che sono là pronte a colpirti a tradimento, quando meno te lo aspetti, e fanno di te nel giro di una frazione di secondo non più un “normale” ma un “malato”.
Sono strani, i malati dei Pronto Soccorsi. Quasi sempre sono calmi anche loro, nonostante il dolore che provano. Paiono avere la strana consapevolezza che sono là perché quello è il posto dove devono stare. Si impadronisce dell’animo una pace quasi zen, quella che si prova quando ci si rende davvero conto che non si può più far nulla se non attendere quello che la Sorte ha in serbo per noi, ed accettarlo. Sono i parenti e gli accompagnatori ad essere nervosi nei Pronti Soccorso. Forse perché sentono tutto il peso della responsabilità di essere i “sani” loro, in quel mondo parallelo, quelli che ancora possono prendere decisioni e sono in grado di dirigere la loro vita. Cozzare con quell’ambiente in cui la loro sanità non vale nulla, perché anche loro possono soltanto attendere l’arrivo o il manifestarsi del dottore, li manda ai matti. Devono fare qualcosa, una cosa qualsiasi, e allora girano come leoni in gabbia, vanno a prendere alla macchinetta tè che nessuno ha loro richiesto e nessuno mai berrà, importunano le infermiere per avere informazioni, scrutano come vedette che nessuno passi avanti al loro caro nel turno, e se sospettano una minima ingiustizia si agitano, minacciano, chiedono spiegazioni.
Si crea una strana solidarietà nei Pronto Soccorsi. Il vicino di sedia diventa un tuo amico in pochi attimi. Ti racconta il perché e il percome è là, chi lo ha accompagnato o chi manca, ti informa sulla sua patologia e ti chiede della tua. Quando l’infermiere chiama il suo numero o il tuo ci si saluta con affetto, scambiandosi in bocca al lupo ed auguri per una pronta guarigione con sincerità, perché pochi attimi di dolore e paura condivisi fanno sentire come vero e profondo un legame appena nato.
Poi si apre la porta, e si va verso il medico che si spera ti sani. E quando la porta si chiude alle tue spalle, tutto sparisce e non esiste più.
E’ di un paio di settimane fa la mia ultima esperienza al PS. C’ho portato il mio papà con una spalla slogata. In attesa di entrare a fare un’ecografia, sono arrivate due agitatissime “parenti”, accompagnatrici di una signora anziana in stato catatonico sulla carrozzina, alle quali era stato detto di venire lì e di dire che arrivavano dal pronto soccorso. Non è difficile, ma appena arrivate sono andate in panico perché “lì” non c’era nessuno a cui “dire cha arrivavano dal pronto soccorso”! In effetti in quel momento non c’era nessuno, ma pochi istanti prima era passata un’infermiera con dei fascicoli in mano che poi era sparita in una delle porte del corridoio. Allora gliel’ho detto alle due parenti che era passata l’infermiera e che prima o poi sarebbe ripassata di là. Come se non esistessi! Hanno continuato ad agitarsi a vicenda chiedendosi se era permesso, che così non si può andare avanti… Dopo qualche minuto di ‘sta tiritera, alzando un po’ il volume della voce e scandendo bene ogni parola, ho ripetuto che dovevano stare tranquille, che la signorina sarebbe tornata prima o poi. Apriti cielo! Questa volta mi hanno sentito e pare che non aspettassero altro. Non gli pareva vero di aver trovato qualcuno su cui sfogare la loro frustrazione. Una delle due mi ha perfino chiesto chi mi credevo d’essere perché mi sono permesso di dirle che non era il caso di agitarsi. Mi sono zittito e incrociando lo sguardo con la signora sulla sedia a rotelle, ci siamo scambiati un sorriso.
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… è proprio così.
Aspetto quello sulla cabina elettorale, sempre che non mi sia sfuggito.
ciao
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il mondo vero è quello lì dentro, quello falso è quello fuori
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Molto prosaicamente spero che almeno la caviglia migliori, visto che i proto soccorsi non migliorano mai.
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Bellissimo… grazie ancora di queste parole…
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