Il baretto dei panini insipidi è ben frequentato. La sua aria sciccosetta, molto easy, molto country chic, gli attira una clientela che nel piccolo paesino di campagna potremmo definire medio alta, fatta di impiegati in pausa caffè, casalinghe con aspirazioni da padrona di casa trendy, giovani madri con pargoletti in passeggino di firma.
Tutto lì dentro è un tripudio di bianco, di tortora, di grigio perla appena accennato. Persino le paste si adattano a questo andazzo soft, e non c’è nessuna Luisona che troneggia con il suo ornamento di granella metallizzata. I croissant nel baretto dei panini insipidi non hanno la granella, o è uno spruzzo di bianco appena accennato. Alcuni sono persino vegani, e hanno quest’aria trinstanzuola ma altera nel loro angolo di vetrinetta tirato a lucido, come se non si degnassero di essere mischiati con gli altri cornetti proletari.
Io, in disparte, soffro in silenzio. Perché il bar dei panini insipidi, in fondo, è tanto carino, e pulito, e ordinato, ed elegante. Ma appunto ha da sempre i panini insipidi. Certi tost vegetariani con poco sale, poca mozzarella e molta insalata, certe piadine che non hanno niente di romagnolo, perché la mortadella nemmeno se ne parla e il prosciutto è tagliato in quantità omeopatiche, più che un insaccato è un’idea platonica, una citazione postmoderna, una poetica dell’assenza.
Da quando hanno chiuso il mio baretto “onto”, che a pranzo mi serviva sfilatini tagliati a metà inzeppati di soppressa, e ciabatte grondanti di porchetta e tost che erano ziqurat di formaggio fuso e prosciutto di Praga, mi sento sperduta. I panini del baretto chic sono leggiadri come modelle di Vougue, ma altrettanto smunti. Li addenti e non danno soddisfazione, evaporano quasi, sono light perché devi proprio accendere il lumicino per capire quanto poco c’è dentro.
La cosa non è sfuggita alla proprietaria del baretto dai panini insipidi, che mi vede perplessa davanti al menu. E così, quando finalmente ordino un panino mozzarella pomodoro e prosciutto mi sorride complice e dice: “Ti ci metto un po’ di origano, si?” Come chi sta facendo una grande concessione al gusto in quella landa di cibi rarefatti e dietetici.
Sorrido. Sì, mettici l’origano, ti prego. Almeno mastico qualcosa che ha un po’ di sapore, e mi sento un po’ più a casa.
Cara Galatea
a te succede a pranzo , a me quando vado in centro(Torino) mi viene voglia di un caffè ,ma non in un bar qualunque non sia mai !Deve essere un bel bar ,non deserto ,non troppo pieno ben arredato e non deve mancare lo specchio ,messo in una bella posizione in modo che io possa specchiarmi mentre bevo il mio caffè sul quale poi non ho grandi pretese.Mi hai fatto venire in mente Bar Sport…
Ciao
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La spocchia dei panini vegan, che disdegnano la vicinanza dei panini normali, ed il prosciutto tagliato in dosi omeopatiche: mitici.
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ma scusa un bel baracchin dal merda o dall’abusivo in qualche marcà se cateo mia?
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Disegnato alla perfezione, pieno di citazioni; un testo delizioso ma, al contrario del bar, assai saporito. Mi chiedo: com’è che questi posti riescono a tirare avanti, mentre i posti che offrono cibo vero devono chiudere? E mi rispondo: perché a maggior prezzo offrono meno merce; e perché aveva ragione Adam Smith a dire che il venditore è costretto a fare i conti col cliente, ma se questo è rimbambito… (parlo degli altri, non di te!)
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Oh signur, ma come scrivi bene! Il tuo testo-panino è delizioso, ricco di ingredienti presi al mercato della vita vera e pieno di gusto!
W i bar Sport!
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