
La laguna non si spiega, bisogna starci. Quelli che dicono che è un mondo a sé non dicono il vero: è un mondo altro. Dire che è un confine fra terra e acqua è tradirla. La laguna non è un confine, mai, perché quello che manca è proprio il limite del definito. È il luogo dove il certo non esiste, e tutto invece muta: la terra che diventa acqua, l’acqua che diventa cielo, le canne e le erbe palustri che diventano alberi ed erba, gli uccelli che si tuffano nel mare, il mare che si trasforma in porto, canale, barena, fiume. Tutte le regole che reggono il resto del mondo in laguna non esistono, o sono sovvertite. È un posto di suprema confusione. Ha il fascino del caos primigenio, quello da cui può nascere tutto e anche nulla, e ricrearsi di nuovo tutto in un momento. La laguna è così: incerta, indocile, molle e dura assieme. Ha una bellezza commovente che si dona però solo a chi riesce a sopportare i suoi disagi e le sue bizze: bisogna essere rudi per poter godere della sua tenerezza.
Dimenticatevi Venezia, con il suo caos di turisti impilati ormai gli uni sugli altri, per essere meglio sfruttati. La laguna è l’immane silenzio che ti avvolge quando sali sulla barca, e per lunghi minuti ci sei solo tu e lo sciabordio dell’acqua. Davanti agli occhi sfilano isole dai nomi esotici e arcaici assieme. Le barene che oggi affiorano appena appena dal pelo della marea e che un tempo sono state Ammiana e Costanziaca, e poi Burano, Mazzorbo e Mazzorbetto. Portano tracce nel loro nome di una Maior Urbs che già ci dà l’idea di quanto grandi potessero essere le città in quei tempi confusi in cui l’impero era appena collassato e la storia si muoveva a tentoni per entrare nel Medioevo. Sono terre emerse, di fronte alla terra ferma del litorale. Distinte eppure unite, come il neonato è ancora unito alla madre dal cordone ombelicale. Quando guardi la linea di costa, ti pare di poterla raggiunge con un salto. Una striscia d’acqua sottile divide due sponde, un rivolo che potrebbe essere passato da un bambino in piedi su un tronco. Così era in antico. Dalle foci del Sile a remi si entrava nel grande azzurro della laguna, scivolando silenziosi sulle onde. Ciò che oggi appare distinto e spezzato era una cosa sola. Dalle torri antiche disseminate nella campagna frutto di interramenti e bonifiche seriori un tempo si sorvegliava l’entrata nei piccoli porti, e quando la nebbia copriva tutto come il coperchio di una pentola, ogni cosa diventava un insieme lattiginoso e indistinto, dove l’umido dell’acqua e quello della terra formavano un’unica coltre.
E poi appare lei, Torcello, con la sua immensa chiesa, una vera cattedrale nel deserto, anche se il deserto qui è il verde dell’isola e il blu dell’acqua. Non è solo fuori dal tempo, ma anche dallo spazio: sospesa. Come è tutto sospeso attorno a lei. I suoi tredici residenti, i suoi storici pendolari sono una famiglia silenziosa e invisibile, ma ramificata. E le isole attorno non sono nemmeno loro vuote, ma vengono abitate quasi di nascosto: sono state comprate da ricchi che si sono costruiti ville e rifugi, mondi in cui si entra solo per invito esclusivo e segreto, dove si coltivano piante scomparse altrove, dove si respira aria filtrata dalle piante palustri più pura e più lieve, dove la gente si muove e si sposta usando mappe e indicazioni che si tramandano di padre in figlio, o di confidente a confidente. La laguna non è un luogo, è una setta.
Il tempo che qui scorre scorre in modo diverso e parallelo. Più lento, con il ritmo della batalissa, il movimento costante e leggero dell’onda che sbatte sulla riva del canale. Non è il ritmo di noi terricoli, che veniamo da fuori. È un ritmo più antico, a tratti per noi persino angosciante. È il ritmo di un tempo che non cambia, resta uguale nei secoli e nei millenni. Lo stesso di cui parlava Cassiodoro quando raccontava la vita rude eppure piena di fascino degli abitanti delle barene. È un silenzio che non trovi più altrove, e lì invece è di casa, incistato nelle pietre, nelle bricole, nei graticci che ancora trattengono le sponde dei canali. È qualcosa che ti affascina ma anche ti sovrasta e ti schiaccia, perché sai di non poterlo reggere a lungo se non sei di qui. Ti fa toccare con mano quanto noi moderni e terricoli siamo inadeguati alla natura , e siamo in fondo indifesi quando essa si presenta davanti a noi in tutta la sua potente maestà. E quando il sole cade sull’acqua al tramonto fra gli stridii dei gabbiani, ci rifugiamo svelti nel nostro caos, cerchiamo affannati le cuffiette da mettere nelle orecchie, vogliamo le chiacchiere dei turisti, e i rumori della folla, il rombo delle macchine, e i clacson, e le voci dei nostri quartieri affollati e post industriali.
Rivogliamo la nostra vita, perché la laguna è bella, ma è troppo per noi.
La laguna una setta? Per me che ci vivo la laguna è una seta; una trama infinita di fili che s’intersecano con i colori che cambiano al minimo riflesso di luce .
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La setta della seta, Paolo. 🙂
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Sono stato a Torcello in una fredda giornata d’autunno durante un viaggio in solitaria a Venezia. E’ una pezzetto di terra “intrigante” , bellissimo. Provo ancora nostalgia di quel giorno così come allora ho provato nostalgia della terraferma.
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bello questo post su un mondo incantato e magico che si chiama laguna.
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