
Per raggiungere casa di Sara bisogna navigarlo per bene, il Nordest. La strada si snoda, fra angoli e ghirigori di rotonde, in mezzo a capannoni, ipermercati, palazzotti e ville di nuova costruzione, la cui estetica varia dalla casetta a schiera al vecchio casale rimesso a nuovo, con tanto di cancello in ferro battuto che ci manca solo sopra la corona, manco fosse il palazzo di Dinasty, o, peggio ancora, mostra il travestimento da falso ranch in stile messicano, quasi l’avessero tirato fuori da una puntata mal digerita di Dallas.
È cresciuto male ed in fretta, questo nostro angolo di mondo, con le fabbriche incuneate accanto alle casette in riva al canale, dove un tempo si pescava, e da anni, ormai, si scaricano solo, di straforo, liquami indefiniti. È cresciuto male, ma aveva, fino a qualche anno fa, una sua ruspante allegria.
La sera, alle cinque, quando era ora del cambio turno, passare in macchina voleva dire veder uscire dalle fabbriche gli operai, quasi tutti giovani, alti, muscolosi ed un po’ “tarossi”, come lo sono i ragazzotti razza Piave, che a vent’anni sono tronchi dalla struttura potente e, appena passati gli anta, diventano armadi a muro capaci di fare concorrenza a quelli che tengono in casa, da far schiattare per rabbia qualsiasi ikea.
Venivano fuori a capannelli, abbronzati, l’aria un po’ spaccona e i ciuffi di capelli pietrificati di gel, chi con il giaccone all’ultima moda dal bavero alzato, chi con il completo in pelle, da centauro; montavano sulla macchina o sulla moto e sfrecciavano via, verso lo spritz con gli amici, o la palestra e la piscina, perché pure le fabbrichette si sono informatizzate ormai, la pressa la si vede sempre meno, il lavoro si può fare seduti e quando sta seduta a lungo la razza Piave rischia la pancetta, che mal si combina con l’abbronzatura uva e taglio al gel stile ultimo dei Mohicani.
Ieri sera, forse per la pioggia, forse per l’incipiente malinconia dell’autunno che arriva, invece, tutta quella allegria sembrava scomparsa, evaporata: dai capannoni uscivano piccoli gruppi di operai, ingobbiti e stanchi, con la fretta di chi vuole raggiungere la macchina, sì, ma solo per andare velocemente a casa. I giacconi erano quelli dell’anno passato, il gel fra i capelli sparso a risparmio, le facce pallide con una tendenza al cinereo, quella sfumatura che prende l’abbronzatura stinta, quando il tempo ed i soldi per farti la lampada non li trovi più. I parcheggi battuti dalla pioggia erano semivuoti: guardavo i buchi lasciati da macchine mancanti, e mi chiedevo quante di quelle non occupavano più uno spazio perché il guidatore adesso prendeva il bus, a causa dell’aumento della benzina, o, peggio ancora, non veniva proprio più al lavoro, perché il Nordest non tira come un tempo, e nei capannoni dell’intorno già sono molti quelli che sono stati licenziati, o messi in cassa integrazione. Nulla era cambiato, apparentemente: c’era la fabbrica, c’era la strada, e c’erano di fianco, sulla strada, i suv che correvano, correvano, sotto la luce gialla dei lampioni e quella a colori proveniente dall’insegna del vicino ipermercato, ma era come se ogni cosa fosse smorzata da un velo tetro, appannata, e i gesti, i volti, le parole fossero le stesse solo perché ci si ostina a ripeterle, senza crederci più.
Anche la casa di Sara faceva lo stesso effetto: quello di un ordine che è imposto dall’abitudine, e tenuto su da un malinteso senso di dignità: le stanze erano pulite, però pervase da quell’umidità che si incarogna quando si accende il riscaldamento poco, per risparmiare; sul mobile d’atrio due, e non più tre, i cellulari: uno s’è rotto, gli altri due sono modelli ormai vecchiotti, ma finché reggono non si parla di cambiarli; il frigo, quando lo apre per prendere una bibita da offrirmi, rimbomba di vuoto, e mi sa che stavolta la cronica incapacità di Sara ai fornelli non c’entra nulla con quella penuria.
“Sai, è un periodo un po’ così…” dice, e in ogni puntolino di sospensione ci si sente un morso d’angoscia. Si sono fatti il mutuo per la casa, per i mobili, e per l’auto: le rate crescono, o ben che vada restano fisse, ma lo stipendio no. O meglio, gli stipendi sono fissi, inchiodati, ma gli straordinari, in fabbrica, che un tempo erano quasi un altro stipendio, Gianluca non li fa più, anzi, grazia di Dio che non lo licenziano, perché si vocifera di tagli, di mobilità; del resto è la crisi, è la recessione. Lei, alle poste, non è in pericolo, ma certo non c’è più nulla di sicuro: se riducono l”organico, il posto magari rimane, ma si rischia il trasferimento chissà dove, spiega con un sorriso tirato, mentre con la mano, come per un riflesso condizionato, cerca di togliere grattando con l’unghia una macchietta dal tavolo della cucina, una piccola goccia di chissacché, perduta nel bianco vuoto di quella penisola ultraccessoriata. Mi guardo intorno, nella penombra di un salotto-cucina in cui è accesa solo una lampada su tre, e il rumore della pioggia che batte sui vetri dà il ritmo di sottofondo alla nostra conversazione. Vicino alla porta, intravvedo uno scatolone da cui spunta un ramo di abete in plastica.
“Ah sì, è la roba di Natale. Sai, verranno i miei a mangiare da noi, voglio mettere qualche addobbo…sì, lo so, a me sarebbe piaciuto tanto andare a Sharm, come l’anno scorso, ma che vuoi, in questo periodo non è anda, stiamo a casa, tutti assieme… il viaggio lo faremo l’anno prossimo, magari, chissà…”
Ma si sente che neppure lei ci crede, che quel viaggio sia solo rimandato e non si sia invece ormai trasformato in un ricordo, o in un sogno che non ci si potrà permettere più. Prende una spugnetta, cancella impietosa la macchiolina dal tavolo, con troppa rabbia per avercela solo con una incolpevole goccia, e ho come il sospetto che stia trattenendo a stento, per orgoglio, una lacrima che vorrebbe venire giù. É la lacrima di chi si è riscoperta all’improvviso classe operaia, soggetta a tutti i rovesci dell’economia, dell’arbitrio e della fortuna, e realizza per la prima volta che la classe operaia, quando la fortuna gira, non va in paradiso, e neppure a Sharm el Sheick. Resta a casa, a piangere, se di casa può ancora permettersene una.
Bello e commovente questo post, lo linko 🙂
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Bellissimo post, Galatea, congratulazioni.
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La scrittura è bella, niente da dire.
E’ a loro che bisognerebbe rimproverare qualcosa di più di un insulso viaggio a Sharm el Sheick, o di un Suv parcheggiato fra i nanetti del giardino.
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Sai, ieri pensavo alla stessa cosa: ho sentito alla radio che il “ricco nord-est” è sempre ricco. Solo che gli annunciatori parlavano da Milano, e credo che l’ultima volta che sono venuti da queste parti è stato per fare una serata in discoteca. Perchè io vedo che questo nord-est, soprattutto quello estremo, tipo Trieste, Udine, Gorizia, non è più ricco.
Non è più come qualche anno fa. E la differenza si vede. Come dici tu traspare da molte cose. Soprattutto dalla paura della perdita di lavoro. Lo scorso mese il quotidiano di Trieste titolava a prima pagina “I commerci di Trieste superano Capodistria”. Poi leggevi l’articolo e scoprivi che era un episodio sporadico. E allora, se perfino Capodistria, che è un decimo di Trieste, solitamente ha un porto più attivo di quello triestino, allora capisci che forse è il caso di valutarla, questa ricchezza del nord-est…
Scusate per la lunghezza del commento.
[mauro, a loro chi?]
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Tristezza, preoccupazione, commozione.
Addio all’Impero…
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@->Lies: quale impero? Qui di imperi non se ne vedono più dai tempi di Cecco Beppe, eh…
🙂
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In molti esaltano la PMI come modello di funzionamento e bla bla bla: io sono convinto che una regione, addirittura una nazione basata sulla piccola e media impresa non abbia molto futuro. Che sarà anche bello e romantico (e un po’ fascistello) questo capitalismo familiare, ma al primo girar del vento, o alla prima offerta del governo romeno/cinese/etc. le fabbrichette prendono il volo.
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Direi “meglio così” se tale frustrazione fosse un primo passo verso una maggiore consapevolezza di una comune indigenza (interrazziale, trasversale.
Ho paura però che la frustrazione non accenda altre luci nel cervello e nel cuore, ma assecondi emozioni e circuiti meno positivi (il razzismo etc).
Chissà…se c’è ancora da scavare o se è possibile salire per aspera ad astra. Gli astra di “Cos’è l’illuminismo”, il momento dell’appropriazione collettiva della vita sociale. Ma sono scettico.
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bella foto della realtà e dell’angoscia corrente. Effetto collaterale: appena letto il pezzo sono andato ad ascoltarmi The Gost of Tom Joad del Boss su youtube..
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Intendevo l’impero economico del mitico nord-est… roba passata ormai, leggo… ciao!
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Passata e defunta, temo. Requiescat. ;-(
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Aggiungo come commento che
il sogno di ricchezza è stato venduto alla classe operaria, e mentre prima si facevano sacrifici ora nessuno vuol più abbassare il suo tenore di vita. Francamente mi sembra incredibile che un’impiegata alle poste e un operaio possano permettersi un viaggio a Sharm con il tenore di vita che hai detto che hanno. Personalmente ho solo la rata del muto fissa e più bassa possibile pur avendo un buon stipendio e la moglie insegnate. E di fare il viaggio a sharm non se ne parla almeno per i prossimi dieci anni.
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Post semplicemente bellissimo.
Un caro saluto da nord-est.
Elena
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Bello. Anche perché rende l’idea del risveglio brusco – con relativo senso di estraneamento – da quello che si riteneva un bel sogno. Quello di condividere, grazie a un benessere guadagnato col sudore della fronte, stili di vita di ceti sociali un tempo lontanissimi. Ora che le forbici si sono nuovamente allargate, chi aveva sacrificato tutto – persino le proprie radici – in nome di quel sogno, se lo vede sfuggire di mano. Proprio quando credeva di averlo finalmente raggiunto.
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