
Linda Sbezzolon e Nadia Bellotto dacché si conoscono, cioè dai tempi della scuola elementare, si odiano. È una di quelle antipatie istintive che nascono a prima vista e non si rimediano mai, perché sono tanto viscerali che si farebbe prima a strapparsi il fegato che rinunciare ad un odio così naturale, così spontaneo, che fa parte di te; ma poi negli anni si trasforma anche in politico e in sociale, e trova altre motivazioni, più razionali e ideali. Perché Linda viene da una stirpe di commercianti, ed è cresciuta negli agi, e Nadia invece da una schiatta di contadini che sono riusciti ad uscire dalla miseria spaccandosi la schiena nelle fabbriche, e ancora nelle fabbriche stanno.
Linda Sbezzolon è alta, con i capelli di quel biondo veneto di innaturale splendore, che deve tutto all’incaponimento del parrucchiere; gli occhi verdi, verdissimi, sarebbero ancora belli, nonostante i cinquant’anni ormai irrimediabilmente raggiunti, se non si intestardisse a tenerli bistrati di matita nera, modello Cleopatra ancora in cerca di un Giulio Cesare che se la raccatti. A Spinola ha una boutique, cioè un negozietto con la vetrina zeppa di cianfrusaglie e manichini agghindati nelle fogge più inconsulte. Vende, in buona sostanza, vestiti brutti a prezzi assurdi, e accessori assurdi a prezzi che lasciamo stare. La mattina arriva davanti alla sua vetrina, parcheggia la macchinetta ridicola che guida – una di quelle utilitariette molto chic che fanno signora bene e paiono costruite con gli scarti dei mattoncini lego – tira fuori le chiavi dalla borsa arricciata luivuittòn, si tira giù dal collo la pashmina di gucci o di versace, e apre il suo regno fatto di gonne spendagliate, jeans strappati, giubbini che strizzano la vita e mantelline ricoperte da peli di povere bestie sacrificate all’estetica contemporanea.
Nadia Bellotto è operaia specializzata in una azienda della zona. È quadrata come una pressa e anche lei bionda, ma con una capa di spinaci in testa che sanno di lavaggi fatti in casa e tinte a poco prezzo, un culo così ampio che sarebbe in grado di fare da solo non tanto provincia, quanto regione autonoma, e dà il meglio di sé quando la proprietaria lo fascia in jeans stretti, e con l’aggravante di strass, comprati al banchetto dei cinesi.
Descritte così, si dovrebbe far presto a scegliere da che parte stare: ricca contro povera, signora contro proletaria. Non fosse che nella vita le cose non sono mai così semplici, né così nette come nell’ideologia.
I cinquant’anni di Linda sono segnati da tante cose, non tutte piacevoli. Un marito che l’ha piantata dall’oggi al domani, lasciandole come ricordo una marea di debiti fatti e non pagati; un figlio che studia, da sempre e ovunque, senza portare poi a casa uno straccio di laurea, mai; una figlia che ha avuto un bimbo, sì, ma s’è dimenticata di sposarsi con il compagno, anche perché il compagno è ancora sposato con un’altra, e questo per la madre è sempre causa di gran preoccupazione, non per un malinteso senso di moralismo, ma perché son pensieri. Linda non è propriamente un’aquila, no. È superficiale, vanesia, alle volte irritante per quel suo fare da bambola invecchiata e le pose da eterna ragazzina. Eppure, quando la vedi arrivare la mattina e scendere dalla sua macchinetta, curata e a posto, sempre con un tocco di allegra incoscienza nel fondo degli occhi, ti chiedi se, in fondo, non sia proprio quel po’ di sventatezza a permetterle di sopravvivere ai marosi della vita: non rendersi conto fino in fondo di un disastro è un modo come un altro per passarci sopra, senza farsene risucchiare.
Neanche la vita di Nadia, per carità, è stata un ballo di carnevale. Lavora in una azienda alimentare, ed è responsabile di reparto. Ma ha uno stipendio decoroso, il marito lavora anche lui in una fabbrica al riparo da crisi, i figli pure, perché grazie alle conoscenze del padre sono stati assunti subito; vive nelle ex case popolari, ma il quartiere, tutto sommato, è carino, la casa grande, e alla fine l’ha potuta riscattare per un prezzo ragionevole, divenendone padrona. Non nuota nell’oro, ma neanche è nella miseria: i figli han sempre avuto le vacanze in montagna a Natale, i corsi di tennis, sci, danza; non hanno studiato perché non hanno voluto, si sono potuti permettere viaggi alle Maldive e a Sharm, e, anche oggi che si tira un po’, più per preoccupazione che per reale allarme, continuano a pagarsi le lampade uva, perché se non si va ai tropici l’abbronzatura si deve comunque mantenere, dài.
Nadia, sì, ecco, forse Nadia non si è mai permessa niente per rendersi felice, non un giorno alle terme, non una seduta dal parrucchiere, non un giro di manicure o un vestito, tiè, di firma. Ma mi sono sempre chiesta, e non so rispondermi, se questo suo mortificarsi non fosse soltanto dovuto alla mancanza di soldi, quanto alla inconscia volontà di mantenersi arrabbiata con il mondo. Quando te la vedi venire davanti con la faccia perennemente rincagnita e scura, la fronte aggrottata e la giaculatoria di lamentele pronta ad esplodere contro tutto e tutti, in maniera indiscriminata, ti viene sempre da domandarti quanto in quella sofferenza sia reale e quanto una specie di guscio in cui si nasconde, per poter giustificare un malessere solo suo contro gli altri, che prescinde dai casi della vita e dal denaro o dalla classe sociale.
Ieri le ho viste tutte e due, nel nebbioso struscio di una domenica prenatalizia al tempo della crisi economica. L’una era dietro il bancone della boutique, sola, perché la commessa che di solito assume per il periodo festivo quest’anno non se la può permettere più. Era seduta, vestita come al solito con qualcosa di stravagante e costoso, ma pareva ci si fosse imbozzolata dentro, per proteggersi, in un negozio che rigurgitava di merce e latitava di clienti, e fissava un mucchio di conti e di ricevute, con lo sguardo sgomento di chi sa che deve trovare il modo per farle quadrare, a fine mese, ma non ha la più pallida idea di come riuscirci.
Nadia era fuori dalla vetrina, che la guardava, con addosso il suo giaccone fatto di codini di visone, che già era brutto nuovo, figuriamo ora che ha un secolo, e a stento le copriva i fuseaux attillati, fascianti le gambe cicciotte.
“Non ride più, la signora! Adesso che è tempo di crisi, la deve patire anche lei, finalmente.” ha sibilato con una ingiustificata carica di malevolenza, spiando l’altra attraverso la vetrina, e se ne è andata trascinandosi dietro i tre sacchetti di regali che aveva comprato.
E io, non so, forse era per la nebbia che confondeva ogni cosa, forse per lo spaesamento di questo nostro periodo, ma mi sono domandata sul serio, in quel preciso istante, da donna di sinistra quale sono sempre stata e quale credo ancora di essere, chi fra le due fosse la più indifesa, e la più debole.
Difficile stabilire chi sia da compatire. Certo, l’aridità ed il tenersi stretti i piccoli privilegi anche nei confronti di chi non ce li vuole togliere rende l’uomo (e la donna) piccolo e meschino.
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Grande post.
Inchino,re-inchino e doppio baciamano.
Ghino La Ganga
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A suo tempo Pasolini difese i carabinieri. Che si sanno difendere benissimo.
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