
Da diverso tempo mi interrogo sulla deriva presa da Ida Magli, donna che non si può dire stupida di certo, ma che nei suoi corsivi sul Giornale sembra ormai la voce fuori campo di un vecchio filmato Luce, di quelli in cui Mussolini trebbiava il grano a petto nudo e i vescovi del Littorio benedivano i gagliardetti. L’ultimo suo articolo, Le società multietniche? Non esistono fa venire i brividi, non tanto per i concetti espressi, ma perché ad esprimere i medesimi è un’antropologa: si prova lo stesso sconcerto, insomma, che sorge spontaneo a rileggere le pubblicazioni di regime in cui grandi nomi della storia antica, della medicina, della dottrina giuridica farneticavano sulla pretesa inferiorità delle razze o deliravano sul filo ereditario che univa l’antica Roma al Foro Mussolini. Quando quelle che dovrebbero essere le migliori menti di una nazione si abbandonano a scrivere cose che fino a pochi anni or sono sarebbero parse eccessive persino in un volantino della destra più bieca, ti prende un senso di assoluto sconforto.
Ce l’ha con la società multietnica, la Magli, quella che Berlusconi – qualche giorno fa, giustificando le motovedette che riaccompagnano in Libia i migranti sorpresi in alto mare – assicurava che non si instaurerà in Italia. Lasciamo perdere l’osservazione ovvia e lapalissiana che se c’è una società per natura portata alle ibridazioni– in quanto frutto di secoli di invasioni– è proprio quella italiana; lasciamo perdere tutta la sovrastruttura, e i richiami all’attualità; analizziamo proprio solo quello che la Magli, antropologa, dice per sostenere le sue tesi. È una intellettuale, la Magli: facciamole dunque grazia di trattarla da tale e vedere se la sua impalcatura regge, o non è l’ennesimo caso di propaganda costruita come un trompe d’oeil, che a vederlo da lontano pare vero, ma se vai a controllare meglio ti accorgi che è fatto solo di due mani d’intonaco ben assestate.
L’incipit scelto ha velleità e quasi pretese scientifiche:
Non esistono «società» multietniche. Quale che sia la buona fede o l’ingenuità di coloro che si affannano in questi giorni ad affermare il contrario, una società multietnica non può esistere perché una «società» non è data dalla somma di singoli individui, ma dal loro appartenere e vivere in una «cultura».
Bella frase d’effetto, ma che resta tale se poi non si specifica cosa sia una “cultura”: perché la “cultura”, a quanto ne sapevo io dai miei scarsi studi antropologici, è pur sempre una costruzione sociale condivisa da un gruppo di individui. E dunque se quella di cui fan parte gli individui è una che riconosce loro il diritto ad esercitare la loro libertà individuale, nei limiti in cui questa non interferisce con la libertà degli altri soggetti, ecco che abbiamo una bella società multietnica fatta e finita, in cui, imparando reciprocamente a non pestarsi i piedi, possono convivere Indù e Mussulmani, Animisti delle Conga, Cattolici e altri privi di religione di riferimento. L’impero romano, per dire, era allegramente multietnico fin dalla sua fondazione; anzi, era multietnico prima di essere impero, e in virtù di ciò riuscì a svilupparsi: Roma non era ancora stata fondata, in pratica, che già si apriva ad accogliere Sabini, Volsci, Etruschi, forse perché il suo fondatore, Romolo, intuiva, con la saggezza tipica del bastardo, che per conquistare il mondo un po’ di bastardaggine aiuta.
Che cosa invece intenda la Magli in questo articolo per “cultura” è chiaro invece poco dopo:
Ogni cultura possiede una sua «forma», creata dalle particolari caratteristiche che distinguono un popolo dall’altro e che si manifestano nella diversa visione del mondo, nella diversa sensibilità nei confronti della natura, nella diversità delle lingue, delle religioni, delle arti, dei costumi, dei sentimenti. Ciò che mantiene in vita una cultura è la «personalità di base» del popolo che l’ha creata, quel particolare insieme di comportamenti che ci fa dire con molta semplicità: gli inglesi sono fatti così, gli americani sono fatti così, gli spagnoli sono fatti così, e che ci permette di riconoscere immediatamente come «tedesca» una sinfonia di Wagner e come «italiana» una sinfonia di Rossini.
Dunque, par di capire, nella visione della antropologa Magli, la “cultura” è una “cosa” che ha delle caratteristiche immutabili e date a priori, che passano da una generazione all’altra, immutate ed impermeabili ad ogni contatto con il “fuori”. Per me, che non sono antropologa, ma storica, e quindi sono abituata a vedere lo sviluppo di abitudini e concetti nel tempo, la cultura invece è una cosa fluida, aperta agli influssi esterni, adattabile e capace di cambiare con il mutare delle circostanze e delle generazioni, e proprio per questo è vitale: una cultura ferma, per lo storico, è una roba morta che si avvia al declino, e rotola via verso di esso tanto più velocemente quanto più si irrigidisce.
Invece per la Magli, antropologa, la cultura è, in buona sostanza, una brocca, che ha una sua forma precisa, e non cambia mai, al massimo cade a terra e si spacca.
Inoltre, si evince dallo scritto, la cultura non è una costruzione sociale, stratificatasi in convenzioni ed abitudini che non hanno però altro valore intrinseco se non l’approvazione del gruppo che le ha inventate: la cultura, pare, ha invece un fondamento “genetico” nella etnia che l’ha creata. Infatti, scrive la Magli, a priori si è in grado di stabilire che una sinfonia di Rossini è “italiana”, mentre Wagner si sente ad orecchio che è tedesco: non è proprio come dire con molta semplicità che gli ebrei sono bravi a far soldi e i neri hanno la musica nel sangue, ma poco di manca.
Ora, dal punto di vista storico e antropologico una costruzione di questo tipo non sta in piedi: è una idea vecchia e superata. Nell’Ottocento storici ed archeologi identificavano cultura e etnia, con il bel risultato di moltiplicare enti senza necessità: ogni volta che da uno scavo saltava fuori una nuova forma di brocca o di freccia, era necessario postulare l’invasione di un gruppo di individui arrivati da fuori, ed ogni oggetto originario di una certa area era considerato sicuro indizio di stanziamento da parte di popolazione da lì proveniente. Se le culture fossero delle robe così, impermeabili ed immutabili agli influssi esterni, un archeologo del futuro, trovando nelle nostre città traccia dei McDonald, dovrebbe dedurre che c’è stata una invasione di Statunitensi in Italia, perché solo gli Statunitensi possono mangiare hamburger e patatine sfrigolanti di strutto, e desumerebbe senza dubbio una presenza di genti del Sol Levante in ogni cucina dove si trovi un wok. Un’assurdità, come sa ogni genitore di figlio italianissimo che ahimè si strafoga di junk food e ogni quarantenne vittima di amici/amiche che usano il wok anche per scaldare la camomilla.
Le culture (quelle vitali, almeno) sono per loro definizione permeabili agli influssi esterni, che assorbono e metabolizzano nel tempo. Forse è questo concetto quello che ci frega: le culture hanno bisogno di tempo, e questo è l’unica cosa che scarseggia nella nostra epoca odierna, abituata al tutto e subito. Si pretende – da Sinistra e da Destra, con uguale dabbenaggine – che noi siamo pronti a confrontarci con l’altro, il diverso da noi, dalla sera alla mattina, e soprattutto si pretende che l’altro arrivi in casa nostra uguale a noi, preciso preciso, mentre questo, anche per i più volenterosi, è un processo che dura e necessariamente deve durare, ed è sempre e comunque lento e doloroso anche per coloro che sono più motivati ad affrontarlo. È però destinato alla lunga ad avere successo, perché il mutuo scambio funziona nei due sensi di marcia, a dispetto di qualsiasi barriera gli stessi individui dei due gruppi in contatto cerchino di frapporre: il tempo, a seconda dei punti di vista, è un galantuomo o una gran carogna, ma, sta di fatto, alla fine ha sempre la meglio.
La cultura per sua natura non sta mai ferma e si evolve, assorbe input esterni e li fa propri, in un processo lungo e faticoso, che può durare anni, generazioni, secoli, ma che non ha pregiudiziali “genetiche” o “etniche”, né può averle, perché, nel momento in cui le abitudini di vita “italiane” venissero cambiate, anche profondamente, da quelle copiate o assunte dagli “stranieri”, anche gli “stranieri”, per quanto refrattari ai modi di vita “italici”, non sarebbero a loro volta più “puri”, ma ibridati, e tutti quanti finirebbero col dare vita ad una nuova cultura, che avrebbe caratteristiche neppure “miste”, ma semplicemente diverse e terze rispetto a quelle di partenza.
Del resto, anche gli stessi Italiani mutano al mutare del tempo, e la pretesa “italianità” che la Magli pretende sia difesa è concetto scivoloso e scientificamente indifendibile. Se l’italianità è la sinfonia di Rossini, o la capacità di scrivere opere di Monteverdi e versi di Petrarca, come dice poco dopo nel prosieguo della tirata la nostra antropologa, allora gli Italiani di oggi di Italianità ne han pochissima: non perché siano incapaci di comporre sinfonie o poetare, ma perché i loro prodotti sono per forza diversi da quelli di Monteverdi e Petrarca, essendo l’Italia di oggi diversa da quella di allora. L’Italianità, se mai esiste, è qualcosa in continuo mutamento persino fra gli Italiani: cinquant’anni fa la mentalità comune italianissima tollerava a stento una donna in pantaloni o in bikini, e la marcava come ragazza facile succube di modelli culturali alieni al Bel Paese: oggi cose del genere non vengono credute, quando le si racconta. Siamo meno italiani oggi?
Che, dunque, dovremmo difendere dallo straniero che c’invade, signora Magli? Le nostre abitudini, che, a quanto mi consta, nessuno straniero ci ha finora mai chiesto di mutare? In nome di cosa dovremmo chiudere le frontiere, impedire l’iscrizione degli extracomunitari nei nostri uffici anagrafe e nelle nostre scuole? In nome di quale cultura dovremmo arroccarci in casa come assediati, vedere un nemico invasore ad ogni angolo di strada? In nome della nostra pretesa “cultura” da difendere o per via di una semplice, ancestrale, irrazionale e fottutissima paura del nuovo che, a quanto pare, né le lauree né le cattedre di antropologia servono a tenere sotto controllo?
più dico che ormai non mi stupisce più nulla, più resto stupita da quante scemenze si possano ancora scrivere!
❓
E’ la prima volta che sento un’antropologa negare l’evidenza del sincretismo! A dirla tutta, è la prima volta che sento un’antropologa legare, col doppio nodo, il concetto di “cultura” a quello di “etnia”, sarà perchè non ne ho letto nessuno antecedente al XX sec.
Basta, 😦 sono stanca di questa gente!
@galatea
questo post dovresti spedirlo alla Magli. Dovresti proprio.
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Be’, io un pezzo così dannatamente chiaro e ricco di argomenti non lo leggevo da tempo. Avevo anche io letto il pezzo della Magli (d’accordo sulla triste deriva) e ricordo che m’ero fermato a pensare a questi intellettuali che cercano disperatamente di fornire alla maggioranza culturale di governo pensieri di cui con tutta evidenza sono privi. Ma è un pensiero come giustamente fai notare, del tutto astratto, completamente avulso dalla realtà, ad esempio, di una città multietnica come Roma dove vivo. Tuttavia mi permetto di suggerire che non è la paura del nuovo, o la furiosa e irrazionale difesa delle nostre abitudini a causare questa ondata di xenofobia: è piuttosto, credo, l’abbandono definitivo di un senso di solidarietà che abbiamo sempre avuto e che da quindici anni a questa parte è praticamente a zero. A me quello che spaventa è l’esibizione della mancanza di solidarietà, l’orgoglio del calcio in culo.
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Davvero vi fanno così schifo le idee della Magli? Io leggo Galatea e leggo Ida Magli, condivido granparte (non tutto) di entrambe. Finirò nel girone infernale dei unpolitically correct?
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Luca. Più facilmente finirai con l’avere disturbi della personalità. E non c’entra molto la politica. Nel caso trattasi di propaganda. Soprattutto quando si sostiene con l’esempio della società nord-americana. Classica società con una cultura autoctona. Quale?
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Luca, vabbe’ salvare capra e cavoli, ma non è che siamo proprio in sintonia, io e la Magli: direi che puoi condividere lìuna o l’altra, tutte e due no. In quel “gran parte” potresti chiarirmi cosa condividi di quello che dico io e cosa in quello che dice lei? Per curiosità, eh.
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Sottoscrivo in pieno.
ciao
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Il pezzo è splendido, come al solito, e condivisibile. Ma pleonastico.
Mi spiego. In sintesi si dimostra che tu scrivi e ragioni in modo ammirevole e lei ha fatto una marchetta, e non servivano queste 5000 battute per saperlo.
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Splendido davvero.
Bisognerebbe clonarti! 😉
Checché ne dicano i germi (o qualcosa di più) del nazismo sono ancora tra noi
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Terenzio Interlenghi e la sua mai abbastanza deprecata “Difesa della razza” continuerebbe dunque a pontificare attraverso epigoni che non hanno imparato la lezione della storia. Ma che neppure, però, avrebbero inteso bene la lezione dei loro modelli in camicia nera: in quanto Interlenghi e i fascisti in realtà puntavano per forza di cose a creare una società multietnica, ancorché gerarchizzata secondo valori mussoliniani. Molto più vicini agli odierni negatori della multietnicità erano i nazisti.
I popoli colonizzati venivano ammessi all’interno del cosiddetto Impero fascista con il loro bagaglio di tradizioni, usanze, credenze ecc. (insomma: la loro cultura) anche se poi venivano relegati in posizioni subordinate in quanto esseri “inferiori” da civilizzare romanamente. Il nero e l’arabo venivano comnunque riconosciuti portatori di un sistema di valori (seppure infimi) e avevano diritto di partecipare alla vita dell’Impero che si andava dunque a configurare come una società multietnica.
Diversa la posizione nazista: questa sì negava la possibilità di società multietniche. Tanto che alla conquista di territori da parte degli “ariani” doveva seguire lo sradicamento (sterminio) delle popolazioni autoctone (morte per inedia programmata per gli Ucraini, ad esempio). Al concetto fascista di razza superiore si aggiungeva nei seguaci di Hitler il concetto prettamente hitleriano del diritto per lo Stato nazionalsocialista di sopprimere “vite indegne di essere vissute” e di impedire ad ogni costo la contaminazione fra razza eletta e le altre.
Le radici dell’attuale pensiero negazionista in tema di società multietniche sono dunque da ricercare in ideologi non solo anti-scientifici ma anche anti-storici. Ida Magli di certo lo sa per cui la sua scelta si spiega non in termini scientifici o storici ma solo di scelta di vita. Non parla dunque da antropologa ma da estremista di destra.
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@ugolino: a dire il vero io, non leggendo gli articoli della Magli, preferisco un post che si dilunghi nelle spiegazioni che uno che dia per scontato che mi sia preso la briga di leggere un’altra pagina…
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” una «società» non è data dalla somma di singoli individui, ma dal loro appartenere e vivere in una «cultura». Ogni cultura possiede una sua «forma», creata dalle particolari caratteristiche che distinguono un popolo dall’altro e che si manifestano nella diversa visione del mondo, nella diversa sensibilità nei confronti della natura, nella diversità delle lingue, delle religioni, delle arti, dei costumi, dei sentimenti. ”
io sono italiana e ho (per fortuna) un’altra visione del mondo e un’altra sensibilità rispetto alla Magli…i casi sono due, o la Magli è un’aliena (e da quello che scrive potrebbe anche essere) o io sono un’italiana venuta fuori male…ma come si fa a scrivere cose del genere! mi ricordo ancora il tuo post “se ti stuprano, è colpa della maestra” in cui commentavi un suo vecchio articolo, non c’è che dire, non si smentisce mai!
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A ) Gli Italiani sono mafiosi.
B) Berlusconi è italiano.
C) Berlusconi è mafioso.
Così ho fatto felice la Magli e Travaglio.
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Beh, Ida Magli dice *anche* che gli ebrei sono bravi a fare i soldi: http://web.mclink.it/ME3643/Edito08/progettoebraico.html
Io li odio i nazisti dell’Illinois (e anche gli altri).
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La signora Magli non dovrebbe parlare di musica quanto non ne possiede i rudimenti. Né Rossini né Wagner sono sinfonisti. Wagner ha scritto una sinfonia giovanile, Rossini nessuna. E’ vero che nel gergo operistico italiano dell’ottocento si definiva “sinfonia” l’ouverture dell’opera, e di queste sinfonie Rossini ne ha scritte molte. Ma si tratta di forme musicali completamente diverse.
Quanto sopra è forse pedante, ma forse no. Chiunque si interessi un po’ di musica ha potuto percepire, leggendo quello svarione, il dilettantismo della Magli, che si riverbera sulle sue argomentazioni. E penso che “dilettantismo” sia espressione assai cortese.
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Galatea, ti rispondo adesso. Premetto che sono uno che con gli immigrati ci lavora tutto il giorno, e che ritiene che siano in media migliori dei loro coetanei italiani (autentica generazione perduta, lo leggo spesso anche nei tuoi post). Ma detto questo trovo demenziale la politica dell’immigrazione, non solo italiana ma in genere occidentale, che si è tenuta in questi anni.
Secondo me c’è stata e c’è tuttora una volontà di annacquare e annullare le specificità culturali ed è questa volontà che dovremmo contrastare.
Negli articoli della Magli (fatta la tara della componente “etnica”che non mi piace) e nei tuoi (fatta la tara di un buonismo da blogger che non mi piace) leggo un’insofferenza per la piega che ha preso il mondo, per la mancanza di senso che sta permeando le nostre società, tutto qui…
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Quando provo a replicare ad argomentazioni tipo quella della Magli mi prende l’acidità di stomaco, mi si alza la pressione.
L’unico modo e fare un respiro a fondo e mettere in gioco tutta la più pacata ragionevolezza di cui si sia a parte.
Nello specifico, l’esercizio mentale da fare è escludere dalla discussione temi come l’Islam, o l’immigrazione e osservare che tutte le società sono multietniche (perchè hanno minoranze etniche: in Italia gli occitani, gli sloveni, i grecanici, gli arberesh, i valdostani francesi, gli alto-atesini…) e soprattutto multiculturali (fosse solo per le minoranze religiose, ma poi la mia cultura è la stessa di quella di un truzzo siciliano? Di un aristocratico fiorentino? Non credo).
L’osservazione su Wagner e Rossini è ridicola, e che una persona con una laurea in antropologia possa sparare cazzate del genere è segno della condizione dell’università italiana. Mi piacerebbe chiedere alla Magli un’opinione su Chopin. La sua musica si riconosce immediatamente come “polacca” o “francese”?
Braccia rubate all’agricoltura.
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Personalmente negli articoli della Magli, ormai, penso che se ci si toglie la componente “etnica” – come dici tu – e il tono da istituto luce restino sì e no le virgole, e anche su come mette quelle avrei parecchie perplessità.
Non so bene, invece, cosa sia il “buonismo da blogger”. Io non sono per niente buona, anzi ho le palle girate come poche volte al mondo.
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buonista!
😀
concordo con ugolino per l’analisi del pezzo della Magli, non sull’inutilità del tuo post. Ci mancherebbe solo che nessuno si inc..emh…indignasse per questa massa di luoghi comuni in cui l’antropologia c’entra come Capezzone e l’obbiettività.
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complimenti, uno di quei post che schiariscono le idee.
ma se a “multietnico” si sostituisse “multiculturale” il discorso della tizia starebbe in piedi benissimo, o sbaglio? dalla tua prospettiva di sinistra, suppongo, sarebbe comunque criticabile, ma sarebbe un onesto discorso conservatore; così, non è niente altro che un discorso razzista, oltretutto disonesto perchè non lo ammette neanche.
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Ho letto qualcosa della Magli quando faceva critica cinematografica. Sinteticamente, di cinema non ne capiva una mazza. Zero al quoto. Non sapevo che facesse l’antropologa di mestiere. Io sono rimasto a Malinowski, e resto convinto che gli antropologhi sono scienziati bizzarri e audaci che studiano gli usi e costumi di scognite tribù, fra le quali trascorrono gran parte della loro esistenza. Ma credo che non sia questo il modo in cui la Magli intende l’antropologia. Forse va a periodi, come Picasso. Oggi cinema, domani antropologia, dopodomani chissà. Tanto, a mettere insieme quattro cazzate non ci vuole granchè.
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“ma se a “multietnico” si sostituisse “multiculturale” il discorso della tizia starebbe in piedi benissimo, o sbaglio? ”
Vedi mio commento precedente. E’ una cazzata uguale. Anzi, forse peggiore perchè è stata ripetuta tante volte che ora sembra una posizione ragionevole (“esistono società multietniche, non società multiculturali”).
E di distinguo in distinguo si arriva all’assurdo: esistono società multietniche, multilinguistiche, multiconfessionali MA NON multiculturali. A questo punto mi chiedo cosa voglia dire cultura, se non una vaga idea da romanticismo d’accatto (il Wagner “riconoscibilmente” tedesco…).
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Cahorro: su questi temi non ho mai riflettuto bene, e non mi districo con la terminologia…
certo l’esempio che fai (un nobile fiorentino e un truzzo calabrese) è ottimo per dimostrare la tua tesi e sul momento mi ha fatto dire “in effetti”. ma escludere le minoranze religiose è un po’ comodo, un islamico ed un ebreo estremisti – ma, per tornare in italia, anche un piccoloborghese ed un rom vagabondo – hanno ben poco in comune a parte il trovarsi su uno stesso territorio, e appartengono alla spessa società solo se la si intende come unione assolutamente atomizzata. forse è solo una questione lessicale, non so, ma per quello che intendono molti conservatori per società, ossia una unione identitaria, “non essite società multiculturale”, non ch’io sia d’accordo, ma mi pare abbia un suo coerenza.
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A me sembra che il discorso della Magli – e di coloro che negano la possibilità di una società “multiculturale”- non si tenga proprio dalle sue fondamenta. Se si dice un truzzo e nobile fiorentino non hanno molto in comune se non il fatto di vivere nello stesso territorio si dimentica che entrambi hanno invece comunque qualcosa in comune, perché vivere nello stesso territorio comunque implica che sviluppino dei tratti comuni.
In realtà ci sono altre cose che non tornano: il discorso della Magli fila solo, e l’ho scritto, se si ha della “cultura” una visione monolitica e che non ammette mutamenti e assestamenti: una visione, in pratica, cristallizzata e poco realistica. Le società multiculturali esistono perché nessuna società produce una cultura monolitica, ma individui che assorbono influenze diverse e spesso imparano nel corso della vita, grazie a quelle, a reagire e a sviluppare nuove tendenze della loro stessa cultura. Noi italiani di oggi saremmo così se non fossimo stati esposti al cinema americano, alle canzoni francesi, al pop inglese? eppure, tecnicamente, queste cose non fanno parte della nostra “cultura” di appartenenza. Uno può ascoltare tutto il santo giorno i Beatles, amare gli hamburger, leggere i fumetti degli Xmen, guardare al cinema James Bond indossando i jeans ed essere italiano. O fare tutte queste cose mangiando kebab.
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Mi sembra ormai evidente che la maggioranza degli italiani muoia dalla voglia di commettere gli antichi errori, non avendo completamente digerito il recente passato.
Qui in Germania la sfida e’ stata quella di far diventare “tedeschi” gli stranieri, come i turchi, i greci e gli italiani. Sono stati investiti miliardi ed e’ stato un mezzo fallimento.
Non oso immaginare cosa possa succedere in italia dove non viene investito, ma anzi si oppone strenua resistenza alla ridefinizione di cosa voglia dire “cultura italiana” e non si voglia contaminare o farsi contaminare da chi arriva.
Allo sconforto si aggiunge la constatazione che nello scenario precedente, su riviste come “La difesa della razza” ci scriveva Julius Evola, ora ci si deve accontentare delle farneticazioni di una Magli. bah.
Vi lascio con una curiosita’, visto che sento che il kebab sta ossessionando gli italiani.
Il Döner Kebab, il panino con dentro carne arrostita tagliata dal cilindrone con aggiunta di insalata e la tipica salsa yogurt, ecco il kebab e’ stato inventato da Kadir Nurman A BERLINO nella fine degli anni ’60, questo per convincere i tedeschi a rinunciare per almeno un giorno alla settimana ai loro Curry Wurst o ai Bratwurst.
Missione compiuta: il Döner Kebab viene mangiato da milioni di tedeschi ogni giorno, molto piu’ di qualsiasi McDonald.
Qualcuno offra alla magli un kebab fatto secondo la migliore tradizione tedesca e le auguri “Guten Appetit”.
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@paolo, qualunque cosa possa essere passato del mio commento, mai ho voluto eccepire qualcosa sulla qualità e sulla “quantità” dei post di Galatea che – colgo l’occasione – considero una delle migliori interpreti della cultura e della lingua italiana che sia possibile leggere in questi anni, sul web e non solo.
Appunto per questo ho scritto quello che ho scritto: il post dimostra qualcosa che non aveva davvero bisogno di essere dimostrato.
I miei saluti.
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