A me capita di rado di essere d’accordo con Tremonti. Diciamo mai. Mi è di solito impossibile per una incapacità mia: Tremonti è uno di quei tipi così spudoratamente antipatici a pelle, che se lo incontrassi per caso e mi confidasse di amare, chessò, Mozart, io, che di Mozart sono la fan numero uno, dichiarerei immediatamente che lo odio ed ascolto solo ed esclusivamente Britney Spears. Così, tanto per non avere niente in comune.
Però la statistica ha delle regole precise, per cui ogni tot dichiarazioni capita che chiunque, persino Tremonti, dica qualcosa con cui io pure debbo concordare in tutto o in parte. Ecco, io sulla cosa del posto fisso sono d’accordo. Anzi, sono proprio d’accordo su come lo ha detto, e cioè: “”Io non credo che la mobilità sia di per sé un valore per una struttura come la nostra”. Magari io non avrei usato la parola “valore”: ci sono un po’ allergica per via di quel puzzo sottile di incenso e parrocchia che ha la parola “valore” in Italia, dove pare che gli unici “valori” possibili sian quelli benedetti dalle sacrestie o quelli protetti nei caveau delle banche. Ma nella sostanza, lo confesso: concordo con Tremonti, anche se so che a scriverlo sul blog così verrò lapidata nei commenti, persino, assai probabilmente, dai più cari ed affezionati commentatori.
Ormai sono alcuni anni, in Italia, che la flessibilità è diventata una specie di totem: ci ripetono in tutte le salse che è solo per difetto di flessibilità che siam presi come siamo, e solo grazie ad essa che usciremo dalla crisi. Che la flessibilità a la mobilità sono le pietre su cui si costruisce la vera concorrenza, e quindi il libero mercato; che sono, in buona sostanza, una bacchetta magica il cui tocco leggero fa emergere i migliori e affossa la zavorra, secondo i sacri dettami della selezione naturale di darwiniana e liberista impostazione.
Ora io sono darwiniana, e persino moderatamente liberista. Concordo sull’idea che in Italia ci vorrebbe più selezione, vera e pure spietata, in molti campi, e che a causa di una mentalità arcaica che tende a considerare il solo ed unico fine della vita quello di “sistemarsi”, non di “produrre qualcosa di bello ed utile” siamo nella palude in cui siamo. So pure che per molti esseri umani il posto fisso è come il matrimonio, e non appena raggiungono l’uno o l’altro, e magari tutti e due assieme, tendono ad impantofolirsi, metter su pancetta, perdere slancio e fantasia, adagiarsi nel tran tran. Però sono anche conscia che una società e un essere umano non possono vivere in uno stato di costante allerta. Neppure il darwinismo più spinto lo pretende. Neppure la natura lo impone agli animali. Il leone che va a caccia ogni mattina, sa che se non troverà una preda salterà il pasto, sì. Ma si è anche creato, conquistandoselo, un territorio dove è abbastanza sicuro che riuscirà a reperire una gazzella sbranabile entro mezzogiorno. La gazzella è conscia che pascolando in giro può incocciare un leone affamato; ma si è anche costruita una mappa di prati “sicuri”, di cui il leone ignora l’esistenza, e di rifugi dove cercar riparo da un eventuale inseguimento. Chi vive costantemente nel terrore o nell’incertezza non è produttivo: è solo spaventato. Il panico paralizza, non stimola.
In Italia abbiamo introdotto in questi anni la flessibilità e la mobilità, ma all’italiana. Vale a dire che le abbiamo immesse nel sistema, pretendendo però che valesse l’eterna legge del principe di Salina, ovvero che tutto cambi perché non cambi niente. Per i giovani e chi si trova in posizioni subordinate la flessibilità e la mobilità sono diventate un obbligo, e guai a chi si lamenta, perché dimostra di essere poco moderno, anzi, arcaico, anzi anche un po’ comunista. Ai piani alti, invece, quelli dei dirigenti e dei proprietari, la selezione darwiniana latita, direi che è del tutto dispersa: le cariche si ereditano dai padri, il figlio del dirigente fa il dirigente, il figlio dell’ingegnere l’ingegnere (e non è un caso, ma un preciso programma di governo, come enunciò Berlusconi in campagna elettorale, senza che nessuno obbiettasse davvero: in fondo anche i dirigenti di sinistra han figli cui vogliono far ereditare privilegi e prebende!).
Ma non è solo questo. La flessibilità ad oltranza, secondo me, non è poi una panacea per il sistema, perché, paradossalmente, quando è troppo accentuata finisce col produrre l’esito opposto. In una società meritocratica debbono emergere i migliori. Ma i “migliori” hanno bisogno anche di tempo e di tranquillità per poter partorire idee utili. Se è logico che alla base la selezione sia spietata, perché in una azienda io voglio poter assumere solo coloro che davvero possono essere degli elementi validi, però anche vero che se protraggo la loro incertezza alle calende greche prima o dopo otterrò il solo risultato di farli scoppiare dallo stress o farli deprimere: se nemmeno aver dimostrato un certo merito vale a farmi avere un po’ di santa pace, tanto vale non spaccarsi la schiena per l’azienda. Una forza lavoro perennemente licenziabile al minimo segno di cedimento è una forza lavoro debolissima. Di più: chi non può mai contare sulla certezza del suo posto, finisce spesso e volentieri con il disperdersi in mille rivoli, anziché incanalare la sua genialità in un solo progetto; oppure segue solo quelle idee che sa immediatamente spendibili per ottenere visibilità, al fine di garantirsi la riconferma del posto. Prendiamo Leonardo da Vinci. Genio sommo, e su questo non si discute. Per tutta la vita senza “posto fisso”. Il fatto lo stimolò sì a produrre notevoli capolavori, però anche lo costrinse a disperdere il suo talento in una mare di stupidaggini, come le macchine di scena per le feste di Ludovico il Moro et similia. Doveva campare, ed aveva bisogno di secondare i capricci del suo protettore, altrimenti, dato che non aveva altri mecenati, si sarebbe ritrovato a spasso. Non appena Francesco di Francia gli offrì uno stipendio slegato dalla produzione di cose che non gli interessavano, fu così grato al sovrano da regalargli la Gioconda.
Prendiamo invece, per trovare un paragone più terra terra, il Dottor House. Che è un genio pure lui; di più, è un tizio che non si fa remore ad andare contro al pensiero dominante e sfidare il sistema, aprendo nuove strade, seguendo intuizioni innovative. Già, ma perché lo può fare? Perché, come si apprende negli scontri con Caddy, la direttrice dell’ospedale, il dottor House non è licenziabile. Può tranquillamente fregarsene, House, di avere scontri duri con i colleghi, con i dirigenti dell’ospedale, trattare male i pazienti ed i loro congiunti, fregarsene, entro certi limiti, delle regole, perché non gli possono comunque togliere il posto di lavoro. E questa sicurezza gli dà la possibilità di sperimentare, di innovare, di non piegarsi alle richieste di gente più stupida di lui. Fosse “flessibile” e licenziabile, il dottor House si dovrebbe piegare agli ordini di scuderia, che nel 90%degli episodi causerebbero la morte dei suoi pazienti.
Ora questo per dire che la mobilità e la flessibilità sono certo belle cose. Ma attenti. Sono belle cose se si usano con un minimo di moderazione e buon senso. Se si crea un mondo in cui tutti sono costantemente in preda all’ansia perché a rischio di perdere il posto di lavoro, l’unica produttività che rischiamo di incrementare è quella delle aziende di antidepressivi.
A me capita di rado di essere d’accordo con Tremonti. Per quanto posso ricordare, diciamo mai. Mi è di solito impossibile per un incapacità mia: Tremonti è uno di quei tipi così spudoratamente antipatici a pelle, che se lo incontrassi per caso e mi confidasse di amare, chessò, Mozart, io che di Mozart sono la fan numero uno, dichiarerei immediatamente che lo odio ed ascolto solo ed esclusivamente Britney Spears. Così, tanto per non avere niente in comune. Però la statistica ha delle regole precise, per cui ogni tot dichiarazioni capita che chiunque, persino Tremonti, dica qualcosa con cui io pure debbo concordare in tutto o in parte. Ecco, io sulla cosa del posto fisso sono d’accordo. Anzi, sono proprio d’accordo su come lo ha detto, e cioè: “”Io non credo che la mobilità sia di per sé un valore per una struttura come la nostra”. Magari io non avrei usato la parola “valore”: ci sono un po’ allergica per via di quel puzzo sottile di incenso e parrocchia che ha la parola valore in Italia, dove pare che gli unici valori possibili sian quelli benedetti dalle sacrestie. Ma nella sostanza, lo confesso: concordo con Tremonti, anche se so che a scriverlo sul blog così verrò lapidata nei commenti, persino, assai probabilmente, dai più cari ed affezionati commentatori.
Ormai sono alcuni anni, in Italia, che la flessibilità è diventata una specie di totem: ci ripetono in tutte le salse che è solo per difetto di flessibilità che siam presi come siamo, e solo grazie ad essa che usciremo dalla crisi. Che la flessibilità a la mobilità sono le pietre su cui si costruisce la vera concorrenza, e quindi il libero mercato; che sono, in buona sostanza, una bacchetta magica il cui tocco leggero fa emergere i migliori e affossa la zavorra, secondo i sacri dettami della selezione naturale di darwiniana e liberista impostazione.
Ora io sono darwiniana, e persino moderatamente liberista. Concordo sull’idea che in Italia ci vorrebbe più selezione, vera e pure spietata, in molti campi, e che a causa di una mentalità arcaica che tende a considerare il solo ed unico fine della vita quello di “sistemarsi”, non di “produrre qualcosa di bello ed utile” siamo nella palude in cui siamo. So pure che per molti esseri umani il posto fisso è come il matrimonio, e non appena raggiungono l’uno o l’altro, e magari tutti e due assieme, tendono ad impantofolirsi, metter su pancetta, perdere slancio e fantasia, adagiarsi nel tran tran. Però sono anche conscia che una società e un essere umano non possono vivere in uno stato di costante allerta. Neppure il darwinismo più spinto lo pretende. Neppure la natura lo impone agli animali. Il leone che va a caccia ogni mattina, sa che se non troverà una preda salterà il pasto, sì. Ma si è anche creato, conquistandoselo, un territorio dove è abbastanza sicuro che riuscirà a reperire una gazzella sbranabile entro mezzogiorno. La gazzella è conscia che pascolando in giro può incocciare un leone affamato; ma si è anche costruita una mappa di prati “sicuri”, di cui il leone ignora l’esistenza, e di rifugi dove cercar riparo da un eventuale inseguimento. Chi vive costantemente nel terrore o nell’incertezza non è produttivo: è solo spaventato. Il panico paralizza, non stimola.
In Italia abbiamo introdotto in questi anni la flessibilità e la mobilità, ma all’italiana. Vale a dire che le abbiamo immesse nel sistema, pretendendo però che valesse l’eterna legge del principe di Salina, ovvero che tutto cambi perché non cambi niente. Per i giovani e chi si trova in posizioni subordinate la flessibilità e la mobilità sono diventate un obbligo, e guai a chi si lamenta, perché dimostra di essere poco moderno, anzi, arcaico, anzi anche un po’ comunista. Ai piani alti, invece, quelli dei dirigenti e dei proprietari, la selezione darwiniana latita, direi che è del tutto dispersa: le cariche si ereditano dai padri, il figlio del dirigente fa il dirigente, il figlio dell’ingegnere l’ingegnere (e non è un caso, ma un preciso programma di governo, come enunciò Berlusconi in campagna elettorale, senza che nessuno obbiettasse davvero: in fondo anche i dirigenti di sinistra han figli cui vogliono far ereditare privilegi e prebende!).
Ma non è solo questo. La flessibilità ad oltranza, secondo me, non è poi una panacea per il sistema, perché, paradossalmente, quando è troppo accentuata finisce col produrre l’esito opposto. In una società meritocratica debbono emergere i migliori. Ma i “migliori” hanno bisogno anche di tempo e di tranquillità per poter partorire idee utili. Se è logico che alla base la selezione sia spietata, perché in una azienda io voglio poter assumere solo coloro che davvero possono essere degli elementi validi, però anche vero che se protraggo la loro incertezza alle calende greche prima o dopo otterrò il solo risultato di farli scoppiare dallo stress o farli deprimere: se nemmeno aver dimostrato un certo merito vale a farmi avere un po’ di santa pace, tanto vale non spaccarsi la schiena per l’azienda. Una forza lavoro perennemente licenziabile al minimo segno di cedimento è una forza lavoro debolissima. Di più: chi non può mai contare sulla certezza del suo posto, finisce spesso e volentieri con il disperdersi in mille rivoli, anziché incanalare la sua genialità in un solo progetto, o segue solo quelle idee che sa immediatamente spendibili per ottenere visibilità, al fine di garantirsi la riconferma del posto. Prendiamo Leonardo da Vinci. Genio sommo, e su questo non si discute. Per tutta la vita senza “posto fisso”. Il fatto lo stimolò sì a produrre notevoli capolavori, però anche lo costrinse a disperdere il suo talento in una mare di stupidaggini, come le macchine di scena per le feste di Ludovico il Moro et similia. Doveva campare, ed aveva bisogno di secondare i capricci del suo protettore, altrimenti, dato che non aveva altri mecenati, si sarebbe ritrovato a spasso. Non appena Francesco di Francia gli offrì uno stipendio slegato dalla produzione di cose che non gli interessavano, fu così grato al sovrano da regalargli la Gioconda.
Prendiamo invece, per trovare un paragone più terra terra, il Dottor House. Che è un genio pure lui; di più, è un tizio che non si fa remore ad andare contro al pensiero dominante e sfidare il sistema, aprendo nuove strade, seguendo intuizioni innovative. Già, ma perché lo può fare? Perché, come si apprende negli scontri con Caddy, la direttrice dell’ospedale, il dottor House non è licenziabile. Può tranquillamente fregarsene, House, di avere scontri duri con i colleghi, con i dirigenti dell’ospedale, trattare male i pazienti ed i loro congiunti, fregarsene, entro certi limiti, delle regole, perché non gli possono comunque togliere il posto di lavoro. E questa sicurezza gli dà la possibilità di sperimentare, di innovare, di non piegarsi alle richieste di gente più stupida di lui. Fosse “flessibile” e licenziabile, il dottor House si dovrebbe piegare agli ordini di scuderia, che nel 90%degli episodi causerebbero la morte dei suoi pazienti.
Ora questo per dire che la mobilità e la flessibilità sono certo belle cose. Ma attenti. Sono belle cose se si usano con un minimo di moderazione e buon senso. Se si crea un mondo in cui tutti sono costantemente in preda all’ansia perché a rischio di perdere il posto di lavoro, l’unica produttività che rischiamo di incrementare è quella delle aziende di antidepressivi.
Ciò che dici è giusto e vero, ma aggiungerei una considerazione terra-terra: come può esserci mobilità se la “safety net” in Italia è costituita dalla FAMIGLIA?
Fino a che le coppie dipenderanno dai nonni per tenere i bambini il pomeriggio, parlare di flessibilità (il cui presupposto è la possibilità di trasferirsi) è il classico epifenomeno della serie “Tu vuo’ fa’ l’americano”.
E questa è solo una delle barriere culturali, sociali o burocratiche che ci impediscono di diventare (per dire) la Danimarca.
Faccio un esempio che conosco, ovvero il problema della formazione medica post-universitaria (le scuole di specializzazione). In Francia e in Spagna c’è un maxi-esame pubblico con graduatoria nazionale: dove capiti capiti. In Germania e in Regno Unito, come negli USA, funziona a colloquio: ti laurei, presenti il tuo curriculum a tot cliniche universitarie in tot diverse città, vedi chi ti prende.
Da noi devi sostenere un esame nella specialità in cui vuoi entrare. Graduatorie locali, esame nazionale: quindi puoi provare una certa specialità (diciamo, cardiologia o pediatria) solamente in un posto. L’esame ovviamente è trasparente come l’acqua della laguna di Venezia e meritocratico come l’ammissione alla pubblica amministrazione della Guinea Bissau, ed entra chi vuole il direttore di scuola: cioè (fatte salve spudorate raccomandazioni) chi ha frequentato il reparto GRATIS fino al momendo dell’esame. Impossibile quindi spostarsi, fare esperienze all’estero, valutare tutte le possibilità.
Mutatis mutandis anche nel privato funziona così; corsi obbligatori, periodi di stage sottopagati o non pagati con il miraggio del contratto (di tre mesi), senza nessun aiuto di tipo welfaristico (vedi alla voce flexsecurity) nè, soprattutto, senza elasticità e lungimiranza da parte delle imprese, che in alcuni casi sono finanziate dallo stato per la “formazione” dei neo-assunti (praticamente quindi prendono soldi per far lavorare gratis delle persone di cui assumeranno un decimo se va bene).
In altri paesi europei le aziende TI PAGANO I TRASPORTI PER SOSTENERE UN COLLOQUIO.
Per dire.
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Condivido e non condivido.
E’ assolutamente vero che nel sitema lavortivo italiano la mobilità è solo un arma di ricatto del datore di lavoro verso il dipendente.
E’ anche vero però che è prorpio il sistema italiano del posto fisso a generare la sedentarietà delle idee e delle persone.
Il lavoro in mobilità dovrebbe indicare contratti a tempo determinato medio-lunghi (5-6 anni) all’interno del quale vigono tutte le regole del posto fisso. Naturalmente tutto il sistema lavorativo e sociale dovrebbe adattarsi a gestire questo tipo di situazione.
Come? Fornendo sevizi adeguati (trasporti, asili, scuole) tali per cui il cambiamento della situazione lavorativa non impatti ferocemente sullo stile di vita del lavoratore. Inoltre anche il sistema economico / bancario dovrebbe rivedere le sue regole.
Siamo indietro rispetto agli altri per molti versi ma un adattamente coatto solo di un settore alle “regole di mercato” genera solo problemi ed insicurezza.
C’è da lavoraci su a tutti i livelli ed in tutti i settori partendo, questa volta, dall’alto, ovvero dai cosiddetti “culi al caldo” della politica e delle imprese.
Creare la mobilità solo nello strato basso della società mentre ad alti livelli è tutto immobile equivale a costruire edifici in cemento in una zona altamente sismica: presto o tardi l’edificio viene giù.
Bisogna, in poche parole, far saltare un pò di culi dalle poltrone.
Saluti.
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tremonti, sebbene sia da qualche mese che cita marx e popper, è un paraculo.
anche se, a dirla tutta, una speranza ce l’ho: la lega, quando vuole far cadere berlusconi, manda avanti tremonti…
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@->Cachorro ed Alfa: in effetti, io sto aspettando che Tremonti mi spieghi come intende però portarla avanti, questa sua idea. Sono d’accordo anche io che se ci fossero gli ammortizzatori sociali e si investisse in asili, scuola a tempo pieno, corsi di riqualificazione, un collocamento più efficiente per chi viene licenziato e ci fosse maggior trasparenza nelle assunzioni anche perdere il posto sarebbe meno traumatico. Ma in Italia si parte sempre da dove è più facile e ci si scorda il resto: si è imposta ai livelli bassi la massima flessibilità, e poi ci si è limitati a questo. E intanto il resto dei servizi è ancora organizzato come se tutti avessero il posto fisso di una volta, e magari anche la donna che può restare a casa a far la casalinga a tempo pieno. Se poi qualcuno, in questa condizione, il posto fisso lo sogna davvero e quasi lo pretende non si può guardarlo come un matto, via.
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Partendo dal presupposto che siamo il Paese occidentale con la più alto indice debito pubblico/PIL, il resto sulla questione dei servizi etc etc etc va a farsi benedire: non ce li possiamo permettere perchè i nostri padri/zii/nonni hanno avuto la stagione della “Bella Politica” (sigh sognante), in cui il primo fesso che manifestava in piazza aveva ragione e si beccava un sacco di soldi. In cui un’industria a partecipazione statale significava un pozzo senza fondo e un alleggerimento della percentuale di disoccupazione. In cui c’era la “scala mobile” (e qualche fesso ancora la ricorda come una benedizione) e l’inflazione era a 2 cifre e un titolo di stato rendeva meglio di un’azione speculativa. Quello che ha detto Tremonti è giusto, il problema fondamentale è che con la questione della “mobilità”, si è aggiunta nel tempo quella della “delocalizzazione”, che però ha di fatto arretrato il potere commerciale delle aziende, in quanto nei paesi in via di sviluppo non gliene può fregar di meno del comperare l’ultimo tostapane che sa la tabellina del 9, mentre in Occidente chi lo vorrebbe a tutti i costi non ha + il potere di acquisto per farlo.
Gli esempi portati avanti dai precedenti commentatori hanno un piccolo difettuccio: non tengono conto che tutto ciò ha portato ad una cosa chiamata crisi, che non è quella stupidaggine che crede di spiegare Michael Moore. La crisi deriva dall’eccessiva flessibilità del credito nei confronti di chi non aveva alcuna chance di ritornare nel debito, difatti solo il nostro sistema bancario “rigido” non ne è uscito con le ossa rotte. Se tu dai soldi a chi non può restituirli prima o poi ce li rimetti, punto, molto, ma molto semplice.
Tremonti ha ragione, punto e basta. La cosa difficile è arrivare ad avere un posto che non sia però + così fisso come lo era (e x qualche fortunato lo è ancora): se ti gratti, a casa; se rubi, a casa; se sei incompetente, a casa. Che fa il paio con l'”energumeno tascabile”. Non si può offrire tutela a chi non porta un minimo risultato. In questo momento ci sono 2 mondi contrapposti: chi è troppo tutelato e chi non è per niente tutelato. Come c’è chi può andare in pensione a 50 anni adesso e chi, con non scarsa possibilità, non potrà andare in pensione mai (ma spesso manifesta a favore dei primi, in una sorta di Sindrome di Stoccolma senza sequestro).
Gli esempi del nord Europa, in ogni caso, con la crisi stanno cominciando a cedere e il welfare diventa ogni giorno più difficile da mantenere, anche senza il nostro debito pubblico.
A me questo Governo non piace molto, ma quello che dicono Tremonti e Brunetta mi piace (e non me ne frega niente che dormano ad un convegno o altro).
Io ho un contratto da “dirigente”, per cui sono sempre sul giro d’aria quasi come un precario (quasi, leggere bene); ma già chi è “quadro” può permettersi di dormicchiare il pomeriggio o di non sapere che esistono anche il risultati da portare a casa (lo sa solo chi ha il famoso variabile).
Cordialità
Attila
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Guardare le idee (?!) e non guardare chi le espone è il vero male assoluto di questo paese.
In quale altro paese approssimativamente evoluto si perderebbe più di due secondi su cose dette da chi qualche anno fa affermava esattamente il contrario? Nello specifico plaudo all’illuminazione del ragionier Tremonti: si dimetta e si ritiri a vita privata (come tutti gli inneggiatori alle magnifiche virtù del precariato e che non hanno mosso un dito per creare le condizioni per far sì che la protezione sociale non sia solo un vuoto mantra enunciato tre volte al giorno). Poi, liberatici anche di quelli che da sinistra affermavano le virtù taumaturgiche della flessibilità (senza rete ovviamente), se ne potrà discutere. Solo noi siamo in grado di precarizzare la società e di garantire il personale politico..
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Mi spiace ma non sono per niente d’accordo, in molte aziende si usa il criterio della competitivita’ spinta, vedi in General Eletrics il dogma dei 10% low performers, lo stress aumenta, ma anche lo stimolo a lavorare ed essere piu’ bravo dei migliori.
Vedi http://news.cnet.com/The-folly-of-forced-rankings/2009-1069_3-950200.html
Quindi tutta la discussione cade, solamente in Italia, data l’estrema rigidita’ le persone non hanno motivazione a cambiare….
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In quale altro paese si avrebbe modo di perdere più di due secondi su cose dette da un sig. paolo il caldo ma non tanto, dimessosi il quale da blogger, staremo meglio tutti, tranne i fessi?
Sig. Attila, non vorrei danneggiarla con questo mio plauso a quanto ha scritto, ma, in mancanza di meglio, posso puntualizzare che non La conosco e non ho mai letto niente di Lei almeno come Attila.
Capito sig. Train, onanista furioso?
p.s.
La tenutaria del blog sa di politica quanto io e il prof. Castagnetti sappiamo dei Sumeri, vale a dire una mazza. Temo tuttavia che anche lei sappia dei Sumeri quanto sa di politica.
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Concordo con Paolo e aggiungo: guardare le idee e non il contesto in cui vengono espresse è pure un errore. Se certe cose le dice Tremonti, che occupa un posto-chiave nel governo di centro-destra, esse vanno intese con riferimento ad un progetto riassumibile nella famosa formula para-thatcheriana “meno stato/più mercato”.
Di questo progetto forse l’applicazione migliore è stata l’economia sociale di mecato sviluppata dal giovane liberale tedesco Ludwig Erhardt quando ancora Hitler era al potere e realizzata poi nell’immediato secondo dopoguerra.
Ma la sua applicazione fu favorita da un ciclo economico espansivo senza pari per impeto e durata; ora che la spinta si è esurita anche il “modello renano” è entrato in crisi.
Oggigiorno si va parlando del modello nordico caratterizzato da massima flessibilità per chi ha un lavoro, massime garanzie per chi invece il lavoro non ce l’ha. Ma sono modelli pensati per società composte da pochi milioni di individui in distretti relativamente esigui e facilmente controllabili. Altra cosa sono società come quella italiana, francese o tedesca, ben più “pesanti”.
Tremonti, che è stato convinto paladino del neo-liberismo e che ha condiviso in larga parte la responsabilità della politica economica degli ultimi 15 anni, dopo aver addossato la colpa di tutto prima all’Euro (che in realtà ha evitato naufragi valutari) e poi all Cina (che ora si scopre essere uno dei nostri mercati più lucrosi) adesso dice cose incongruecon la propria storia.
E infatti subito viene ripreso dai colleghi di governo, l’economista Brunetta, che lo taccia di “uomo del Novecento” e dall’altro campione del socialismo craxista, il Sacconi che tira in ballo la fumosa idea della “formazione come valore economico” pur di non dover ammettere che l’introduzione della precarietà di massa in Italia, senza reti di potezione, è stato effettivamente un atto di macelleria sociale.
Tremonti è come la mia sveglia rotta: per due volte al giorno indica l’ora esatta. Ma non per questo mi fido di lei. I suoi amici poi, non dimentichiamolo, sono quelli delle gabbie salariali pensate per favorire, ancora una volta, i distretti del nord a scapito di quelli del sud. Quelle scuole di pensiero non lasciano bene sperare.
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L’iscrizione di Leonardo ai precari è un colpo di genio! Leggevo stancamente il post (stancamente solo perchè lo condivido in toto, lo trovo quindi poco stimolante). Sulla Gioconda se ne può siscutere, ma l’mmagine è efficacissma 🙂
Essere disgustoso non sbaglia, secondo me: Bossi prepara Tremonti per il regicidio.
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@->Riccardo Bua: Forse la discussione cade in Italia perché mancano del tutto delle reti di protezione per chi si ritrova senza lavoro. Quanto alla competitività spinta fa bene forse alle aziende. Ma, mi chiedo io, fa bene anche agli esseri umani che ci lavorano? Cioè, in pratica, se per avere aziende competitive condanno i dipendenti (precari e anche assunti a tempo indeterminato) a fare una vita schifosa, sempre in preda all’ansia e al panico, ne vale davvero la pena? Oltre al profitto si potrebbe cominciare anche a ragionare di qualità di vita? O no?
@->Attila: “Tremonti ha ragione, punto e basta. La cosa difficile è arrivare ad avere un posto che non sia però + così fisso come lo era (e x qualche fortunato lo è ancora): se ti gratti, a casa; se rubi, a casa; se sei incompetente, a casa.” MA questo non è semplice buon senso? Credo che su questo siamo d’accordo tutti… il post, che era ironico ne confronti di Tremonti, denuncia il fatto che appunto il progetto a cui il ministro ha sempre aderito fino ad adesso era del tutto diverso. Concordo con Tremonti, ma è lui che ha cambiato idea…
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Io non vado in fregola per Tremonti, ma ha ragione.
E mi piace anche quel che ha detto Attila.
E no, non voto Berlusconi.
“In Italia abbiamo introdotto in questi anni la flessibilità e la mobilità, ma all’italiana.”
Esatto Galatea. Un applauso.
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io mi chiedo se il cassiere, o l’operaio in catena di montaggio siano lavori che necessitano di particolare genialità. Certo possono accellerare il ritmo di lavoro, ma non credo che per fare questo sia necessario il ricatto continuo del licenziamento (ops.. volevo dire non rinnovo del contratto).
Se parliamo di lavori intellettuali, dirigenziali, creativi sono pienamente d’accordo sulla flessibilità. Ma sono professioni che per contro hanno tutta la sicurezza di uno stipendio maggiore e nei quali la competenza del singolo ha un valore ben diverso. Una persona alla cassa è sostituibile in qualsiasi momento da chiunque, un ricercatore della Bayer no.
La cosa simpatica è che le aziende che cercano personale altamente qualificato e che faticano a trovarlo spesso dopo un periodo di prova (stage o simili) ti offrono un buono stipendio e soprattutto il contratto a tempo determinato. Perché quella per un giovane laureato oggi è la vera ricchezza, la sicurezza che fra dieci anni qualsiasi cosa accada non ti butteranno via dopo averti usato.
Il vero paradosso è che a essere precari sono coloro che non danno alcun reale vantaggio produttivo in quella situazione (se non la riduzione di contributi e stipendio), produrrebbero bene anche con un semplice sistema di incentivi dell’azienda in cui lavorano.
Dopo tutti questi anni di ideologia della flessibilità sarebbe il caso di trarre le giuste conseguenze dai risultati pratici ottenuti.
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La faciloneria con cui vengono trattati certi argomenti lascia davvero perplessi.
Qui non è questione di avere il sale sulla coda per dare il meglio di sé perché si teme di non vedersi il contratto rinnovato, né di non potere licenziare il fannullone o l’incompetente di turno.
Qui si tratta di avere annullato il futuro per una intera generazione di giovani, garanzie minime di vita e le conquiste dei lavoratori degli ultimi cinquanta anni.
Non so se vi rendete conto che chi lavora inanellando uno dietro l’altro solo contratti a tempo determinato, non può permettersi di:
1) fare un figlio
2) fare un mutuo
3) chiedere un finanziamento per comprarsi una Panda
4) ammalarsi
5) avere una pensione
6) avere un sussidio di disoccupazione tra un lavoro e l’altro.
Cosette da nulla?
Aggiungo, per Vegatarian che dice che una cassiera al supermercato è intercambiabile e un ricercatore della Bayer no, che con la flessibilità abbiamo spazzato via la professionalità.
Anche chi ti scarica la valigia in aereoporto ha una professionalità: sa dove deve caricarla e scaricarla, sa cosa fare dei bagagli che vanno smarriti e sa come recuperarli. Ma se il suo contratto scade tra quindici giorni, della tua valigia non gli importerà una beata mazza e la lascerà cadere sulla pista senza girarsi indietro. Tanto che gliene importa? Quello non è il Suo Lavoro. E la stessa cosa vale per qualunque tipo di lavoro.
Se ti senti perfettamente intercambiabile a chiunque altro, che ti importa di consegnare le lettere, di pulire i treni, di soddisfare il cliente che ti telefona al call center (!!!), di insegnare alla Tua classe nel modo migliore, di aggiustare nel modo corretto un aspirapolvere ?
Solo la tua personale onestà e rispetto di te stesso, certo. Ma sono sicura che per una buona fetta di umanità, un lavoro riconosciuto anche economicamente e socialmente e dotato di tutti i diritti che un lavoro Deve avere, sarebbe un buon incentivo.
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Oggi mi è capitato di sentire qualche scambio di opinioni in una trasmissione di raidue, della quale non ricordo il nome, a proposito di questo tema.
Premetto che io considero Tremonti un grande paraculo, ho sentito il ministro Rotondi giustificare l’uscita di Tremonti, con il suo “essere fine intellettuale”….
Non sapevo più a chi ridere dietro, se a Rotondi o a Tremonti.
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A me piacerebbe che sullo stretto di Messina sorgesse un ponte. Però non si può fare, sarebbe poco sicuro, durerebbe poche decine di anni. Quindi non si propone, non si cercano i soldi, non si fa.
Una cosa è trasformare il mondo del lavoro, un’altra è parlarne. Tremonti ha letto un pizzino di Capezzone e qui c’è gente che lo stima…
Un applauso!
Una nota sulle “casalinghe” (Berlusconi le chiama massaie): le donne occupate in Italia sono circa il 46%, in Francia e Germania più del 60%. Possiamo affermare che è un problema culturale, ma resta sempre un problema, si tratta infatti di persone che non lavorano ma non risultano dosoccupate. A parte l’affermazione: “come casalinga mi faccio un mazzo tanto dalla mattina alla sera” (che in parte condivido), lascio a voi comprendere gli enormi danni che i famigliari “a carico” fanno alla nostra economia.
Basterebbe un part-time, magari organizzato dalla PA (comune, provincia, regione), che permetta e favorisca le casalinghe. Lavorano mentre i figli sono a scuola, guadagnano proteggendo la famiglia, hanno ancora il tempo di occuparsi della casa, combattono la crisi facendo circolare contante.
Tremonti, da me mantenuto, cioè un non-famigliare “a carico”, sta facendo propaganda. È uno dei pochi che la fa bene, e voi qui a cascarci dietro come boccaloni… La nave affonda e si danza sulle note di Mozart.
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adesso voglio vedere quanto ci metteranno a convincere le aziende a non dotarsi più di schiavi provvisti di data di scadenza..
bellissimo post
ciao!
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Per stemperare gli animi, piccola chiosa sul dottor House: nel mondo reale, sarebbe sommerso di cause e avrebbe accoppato almeno la metà dei pazienti della serie (il cui motto potrebbe essere: una puntura lombare non si nega a nessuno).
Gli mandano persone con l’influenza, lui le sforacchia in ogni dove (e via di emorragie interne e crisi respiratorie che ucciderebbero perfino Achille pièveloce) e poi si accorge che sì, era influenza, ma sembrava sindrome di Goodpasture e ora il paziente sarà curato correttamente col Paracetamolo (peccato che magari abbia perso un rene, nel percorso diagnostico).
Che dici, Cachorro?
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@TOPGONZO: dimettermi da blogger? mai avuto uno
😀
comunque possiamo sempre incontrarci all’alba dietro il convento delle Carmelitane scalze per spiegarsi
😉
chiedo scusa a galatea per questo mio inutile commento
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Il dottor House sarebbe un pessimo medico: non tanto per una questione di “bedside manners” ma perchè il suo modo di procedere è fintamente razionale e in realtà totalmente avulso dall’approccio probabilistico (bayesiano) su cui si dovrebbe fondare ogni iter diagnostico (comunque il suo motto è piuttosto “Una biopsia del tronco cerebrale non si nega a nessuno”, altro che puntura lombare!).
Però è vero che l’eccessiva responsabilizzazione (in termini di timore di cause civili o di ripercussioni professionali) del medico fa dei danni enormi, con la cosiddetta medicina difensiva (in gergo tecnico: pararsi il culo): milioni e milioni di euro buttati in test e farmaci inutili (per non parlare di stress, tempo perso e effetti collaterali).
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La questione non è così semplice, imho.
ll punto è che andrebbe trovato un punto di equilibrio ragionevole tra le esigenze di stabilità di chi lavora e quelle di flessibilità di chi produce.
Un’azienda ha oggettivamente bisogno di avere una certa flessibilità nella gestione delle risorse (anche umane), per gestire i picchi di carico del lavoro. Se non le viene consentito da un punto di vista “legale” farà semplicemente ricorso alle “consulenze”, alle partite IVA, alle “cooperative di servizi”.
Il lavoro straordinario costa tipicamente all’azienda il 25% in più rispetto all’orario normale. Per quelle che ancora lo pagano. Perchè molte sono passate anche a tipologie di contratto “a forfait”, che in cambio magari di una maggiore flessibilità d’orario, pretendono che si lavori “per obiettivi” (e so di che parlo, sic!). Il lavoro precario dovrebbe costare il 30-35% in più rispetto al lavoro dipendente, da una parte per “pagare” la precarietà, appunto, dall’altro semplicemente per disincentivarla.
Un’azienda comunque sta in piedi se ha un equilibrio economico-finanziario ragionevole, quindi non può certo dimensionare la forza lavoro sui picchi di carico di lavoro, ma sulla media del carico di lavoro annuale che presume di avere. Purtroppo in questi anni si è troppo spesso passati da una visione “industriale” dell’azienda ad una meramente “finanziaria” (soprattutto per le aziende quotate). Le stock-option ai manager andrebbero totalmente abolite, imho, perchè sono l’origine prima di moltissimi mali. Il primo è che la funzione “sociale” del lavoro è andata completamente a farsi benedire.
Infine si è consentita in Italia un’applicazione nel mondo del lavoro reale della legge Biagi meramente strumentale e ben oltre i limiti del legale. Soprattutto per certe tipologie di contratto, tipo quelle “a progetto”. Altre forme, ad esempio il work-sharing, non le usa quasi nessuno.
Non parliamo poi del telelavoro, che, soprattutto nel terziario, risolverebbe una marea di problemi in moltissime famiglie.
O della grande trovata di aprire il commercio mondiale senza pretendere identiche regole per tutti.
Tremonti ha anche detto che non era possibile gestire altrimenti “la globalizzazione”, ma è chiaro che sono solo balle. La realtà è che soprattutto le grandi corporation mondiali hanno spinto perchè cadessero certe barriere senza alcuna regola, in modo da gestire l’opportunità di avere manovalanza a basso costo in alcune zone del mondo.
Coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Comunque l’illicenziabilità del lavoratore dipendente, anche nelle aziende sopra i 15 dipendenti, è di fatto una chimera. Non esiste “di fatto” quella individuale (a parte casi molto particolari), ma quella collettiva, con un minimo di cinque persone, esiste eccome: per ristrutturazione e/o “mancanza di lavoro”.
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Ben detto Goodidea.
Tremonti ha fatto sua la battuta di Max Catalano: “Meglio una gallina oggi che un’ uovo domani”.
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Io sono d’accordo con Cachorro Quente. In Italia le barriere da superare per raggiungere una vera sicurezza lavorativa pur mantenendo una flessibilità che ti permette di crescere e ed esprimerti sono varie e a tutti i livelli della società. Siamo un po’ la pecora nera europea visto che, per quanto ne so, dal Portogallo alla Finlandia è addirittura il tuo datore di lavoro a consigliarti di andare in nuove realtà aziendale per fare esperienza e poi, se vorrai, sarà pronto a riassumerti quando ritornerai più maturo.
Soprattutto in questo paese percepisco un senso di scoramento di base anche solo parlando di provare a fare qualcosina.
P.S.: Ti ho linkato, spero non ti dispiaccia.
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Non so se abbia cambiato piu’ idea Tremonti sul posto fisso quanto il centrosx sulla mobilita’. Anche a leggerti (e lo condivido) mi viene il sospetto che abbiamo dovuto cedere all’idea che il posto fisso non possa essere identificato con il diritto acquisito a non fare niente e che devi conquistartelo (il postofisso) dimostrando di esserci congeniale (come House…). E qui’ viene il punto; come si puo’ dimostrare questa congenialita’ senza un periodo a tempo determinato? La mia pratica e’ quella di retribuire i precari molto meglio di quanto vengano retribuiti colleghi assunti a tempo indeterminato e questa e’ una forte motivazione e fattore di “attenzione” nella collaborazione. Rimanere per anni in una situazione in cui vieni adeguatamente retribuito per un rapporto a tempo determinato ti porta ad una condizione in cui puoi maturare un rapporto di onesta cooperazione in azienda. A quel punto, solo un fesso non offre il tempo indeterminato, in quanto meno oneroso per il datore di lavoro.
Resta comunque il fatto che la tua citazione di Darwin ha (permettimi) il tanfo del Darwinismo sociale, una dottrina morale inaccettabile.
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Italia “flessibile”, lavoratore genuflesso.
In Italia, la flessibilità diventa sinonimo di precarietà. Infatti, la flessibilità (quella vera) è ben altra cosa – vedi Olanda, Svezia – e di fatto non è mai stata introdotta nel nostro paese. Invece, sono stati introdotti una serie di contratti e contrattini che sotterrano sotto 50 metri di terra, i più elementari diritti del lavoratore. Il problema non è tanto la facilità di licenziamento, lo è anche questo per carità, ma è soprattutto la disparità oggettiva tra un lavoratore col posto fisso e quello col posto a singhiozzo o genuflesso:
1- lo stipendio medio di un precario, si aggira intorno agli 800 euro quando va bene;
2- non ha ferie pagate (anzi deve coprire quelle dei colleghi “fissi”), al massimo “matura” mesi di disoccupazione;
3- non ha un adeguata rappresentanza sindacale (i precari non li c**a nessuno);
4- non è coperto da ammortizzatori sociali, non ha diritto a sussidi di disoccupazione;
5- molti precari in caso di malattia non sono coperti;
6- la maternità non è tutelata;
7-quando il contratto termina, molti non hanno diritto alla liquidazione (es. co.co.pro.);
8- il precario non vedrà nemmeno la pensione sociale;
9- non hanno diritto agli scatti di anzianità (ad ogni nuovo contratto si parte da zero);
10- la tredicesima? E cos’è?
Devo continuare? Tutto questo non ha nulla a che vedere con la flessibilità e la mobilità. Anche la legge 30 Maroni non ha nulla a che vedere con il “Libro Bianco” scritto da Marco Biagi. Infatti, del lavoro di Biagi si operò un vero e proprio taglia e cuci, operazione che partorì il “mostro”, ovvero la legge 30 Maroni, che portò e porta tutt’ora, allettanti vantaggi alle aziende e notevoli svantaggi per i lavoratori. Per uscire dal disastro, una soluzione potrebbe essere applicare il Contratto Unico ideato dall’economista Tito Boeri e Pietro Garibaldi.
La flessibilità (quella vera) di per sé non è un male, soprattutto se a sceglierla è il lavoratore stesso (pensiamo al part-time per le madri lavoratrici), ma quando invece si traduce in precarietà, si creano danni economici e sociali.
Conosco molti precari che vanno avanti ad antidepressivi, io, precaria cronica 30enne, per fortuna non ci sono ancora arrivata!
Saluti, lolle.
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frap1964, devo correggerti! Non legge Biagi (Libro Bianco), ma bensì legge 30 Maroni. Perché tale precisazione? Perché come ho scritto nel mio precedente commento, sono due cose diverse. Il lavoro di Biagi prevedeva la flexsecurity (vedi Olanda, Svezia), mentre la legge 30 è un “aborto”!
Saluti…
lolle
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sostanzialmente concordo con ciò che galatea ha esposto, ed anche i commenti sono per lo più non privi di logica
io però credo che bisogna spostare il problema della tutela dal lavoratore al cittadino in quanto tale
cioè credo che l’azienda per poter lavorare debba poter licenziare ed assumere come crede, ma
MA, questo deve essere controbilanciato da un salario sociale garantito a tutti quelli che sono privi di lavoro
il reddito che si produce, sia in italia che fuori, è tantissimo, ma questo non si riversa nell’aumento dei posti di lavoro, quindi bisogna studiare qualcosa che esca dalla logica 1 lavoro – 1 salario, perchè lavoro per tutti non c’è
ma il reddito c’è, eccome
io sono un artigiano che se incasso 100 euro sì e no fra contributi e tasse varie me ne metto in tasca 40, mentre il guadagno di chi non fa niente, ma semplicemente guadagna sulla rendita finanziaria, paga molto, molto meno
il lavoro è tassato molto di più del capitale
quindi, prendiamo o soldi dove sono, e redistribuiamo a chi ha bisogno, punto e basta, e usciamo dalla retorica del lavoro, perchè lavoro per tutti, non c’è
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Comunicazione di servizio.
Ho ritrattato il mio commento con un post.
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