Il candidato della Sinistra: ovvero i conflitti non si socializzano più come una volta

Il Majakovskij è in fibrillazione.

L’avvenimento mondano è di quelli che non capitano tutti i giorni, e neppure tutti gli anni, se è per questo, dato che non tutti gli anni ci sono a Spinola le elezioni. Ma Sinistra Rosso Verde per l’Alternativa di Governo, la neo-lista della neo-formazione della neo-coalizione formata dall’insieme di tutte le forze proletarie, antifasciste, marxiste e leniniste di Spinola, come recita il volantino appeso in bacheca fuori dal ristorante, stavolta ha voluto far le cose in grande, e per presentare il suo candidato sindaco, il prof. Albio Trovati, alla cittadinanza tutta, ha deciso di scegliere una sede acconcia. Quindi no alla tetra sala consigliare, e neppure al bugigattolo che funge da sede di partito (o meglio, a turno, a sede dei tre partiti e cinque movimenti che fanno parte della coalizione), e sì alla ristopizzeria esistenzialista-chic più sinistrorsa di Spinola tutta.

Dalle cinque di pomeriggio Giangi Basti presidia il luogo, per coordinare ed organizzare: sposta sedie, smista volantini, fa o riceve telefonate, soprintende alla preparazione della sala col piglio con cui Napoleone teneva sott’occhio i generali del suo stato maggiore ad Austerlitz. Per come si dà da fare, sembra che si attenda un bagno di popolo neanche dovesse arrivare a parlare Lenin redivivo in persona, con il corteggio di Marx ed Engels appositamente evocati al fianco. Quando non è impegnato a ritoccare l’angolazione del tavolo, o controllare che su ogni sedile ci sia un dépliant, chiama con aria chioccia il suo candidato al cellulare: “Sì, dove sei? Come stai? Tutto bene? Sei pronto? Sei calmo?” e il povero Alfio Trovati non può che rassicurarlo che sì, sta bene, va tutto bene, è calmo, è pronto ed è ancora a casa sua, cioè esattamente dove si trovava cinque minuti prima, quando Giangi lo ha chiamato l’ultima volta.

Il fatto è che il Giangi non sta nella pelle, no. Dopo anni di tentativi, gli è riuscito quello che è sempre stato il suo sogno e pensa sia il colpo gobbo della sua carriera come politico: riunire assieme sotto un unico simbolo – una colomba della pace con in bocca una piccola falce e martello e sotto una kefiah quadrettata, in campo rosso ma con cornice iridata – tutte le anime della Sinistra Alternativa di Spinola, le quali anime della Sinistra, in passato, non sono mai riuscite a trovare un punto comune, tranne quello di maledirsi reciprocamente i morti. Invece questa è la Grande Svolta: nel nome del professor Alfio Trovati, fine intellettuale, famoso per essersi visto pubblicare, un tempo, persino una lettera sull’Unità, verranno tutti a raccolta, ma sarà lui, il Giangi, a guidare le gioiose macchine da guerra del Proletariato: perché il prof. Trovati è sì il candidato sindaco, ma è il Giangi il deus ex machina della questione. Così controlla la sala con aria sempre più chioccia, e sì, deve ammettere che tutto gli pare proprio come dovrebbe: le pareti del Majakovskij, d’un viola quaresima virante verso il nero che ben si s’addice alla serietà funerea ma laico-esistenzialista della Sinistra vera e pura; i volti arcigni dei maitre a penser delle foto, da Sartre a Levi Strauss, che guatano con fare sdegnoso ma complice.

Alle otto in punto, quando oramai persino le cameriere più pazienti sono esasperate dopo che il Giangi ha fatto spostare dodici volte tavoli e sedie nella veranda, perché a cerchio sono più egualitarie, ma il candidato non si vede bene, a ferro di cavallo sono più includenti, ma il candidato non si sente, frontali sono troppo di destra, anche se l’unico modo in cui magari si riuscirebbe a seguire qualcosa, ed aver optato infine per una inedita disposizione “a zig zag” mai pensata prima da alcun organizzatore di convegni, il popolo della sinistra convocato ancora latita, e il candidato pure, ma in compenso arrivo io. La mia storia con Nino è ormai di pubblico dominio, e il Giangi mi guarda subito con l’occhio da inquisitore staliniano che tema infiltrazioni dalle oscure forze della Reazione.

“Come mai qui?” si informa circospetto, stirandosi in faccia un sorriso.

“Sono anche io una cittadina di Spinola, no? Volevo vedere la presentazione della lista.”

il Giangi sorride di nuovo e passa oltre, ma appena di spalle emette un bofonchio indistinguibile, probabilmente velato di cupo rammarico per non aver la possibilità di mandare in Siberia i traditori del proletariato.

Alla spicciolata, qualcuno intanto arriva. Li conosco ovviamente tutti, tanto da poterne quasi predire con precisione cronometrica l’entrata in scena. Il primo è Melchiorre Gargantin, che alle riunioni appare sempre in anticipo sugli altri, per scegliere un posto in disparte che sottolinei il suo contemporaneo essere coinvolto mantenendo però quel distacco dovuto alla perenne cortina di distinguo che produce naturalmente, un po’ come i maiali nelle stalle producono gas metano. Il secondo è Pierfrancesco Damas, indossante, more solito, la maglietta guevariana d’ordinanza ed il piglio da rivoluzionario barricadero, tragicamente smentito però dall’espressione inconscia del volto, che, dopo aver usmato gli odori provenienti dalla cucina, rivela più che altro la segreta voglia di farsi subito una pizza alla diavola con contorno di patatine. Entrano poi in ordine Adelino Bozzon, referente unico per il territorio di Spinola di ogni comitato di zona, quartiere e condominio che si batta contro qualsivoglia strada, compresi i sentierini di ghiaino all’interno dei giardinetti privati, perché ogni strada è sempre uno stupro alla Natura da parte della Modernità, e l’eden ideale vagheggiato da Bozzon è quello primigenio in cui gli antenati vagavano nudi a piedi per i boschi incontaminati, cosa che è facilissimo fare quando non si debba poi arrivare in orario in ufficio. Nel seguito striminzito di Bozzon spiccano Edoardo Lonigo, medico e storico locale di Spinola, autore di un imprescindibile volume sulle fontanelle del paese (quattro, minutamente censite e fotografate dal medesimo sotto ogni possibile angolazione) e Pietro Voltolina, noto per anni per essersi fatto eleggere segretario dei tre Verdi locali perché nessuno degli altri due aveva mai scoperto il particolare che in realtà Voltolina si era sempre dimenticato di iscriversi al partito. Infine arrivano Memo Tiozzo e qualche vecchio operaio amico suo, che si siedono un po’ spaesati, cercando di non urtare i muri tappezzati di foto di intellettuali e gli scaffali per lo scambio di libri ingombrati di vecchi saggi dell’Einaudi su massa e proletariato.

Quando finalmente, alle otto e venti, Alfio Trovato fa il suo ingresso nella sala, annunciato da un roboante: “Ecco il nostro candidato sindaco”, il Giangi immediatamente parte con quello che dovrebbe essere un applauso entusiasta, ma dato che nella sala siamo in sette e io mi astengo, risulta più che altro un cick-ciack di mani sudaticcie che si smorza subito nell’afa. Alfio Trovato si guarda intorno un po’ basito, perché lui è una vita che prende in giro “gli imbonitori della politica”, dicendo che a parlare davanti ad un pubblico come dei conduttori tv son buoni tutti, e anzi, quelli meno buoni sono più buoni degli altri; ma ora che si trova a doverlo fare davvero, ha la lingua appiccicata al palato come se fosse un pezzo di carta da pacchi, e le parole gli escono fuori stentate, e si incespicano sulla voce chioccia e strozzata. Così tuffa il naso nelle pagine del discorso che s’è preparato, in cui disquisisce su tutte le ingiustizie perpetrate nel mondo dall’inizio del medesimo, e che come discorso scritto per un convegno di Presidi in pensione anche potrebbe funzionare, ma letto compitando là dentro pare un’istigazione al suicidio, tanto che dopo due minuti Memo ed i suoi amici gettano sguardi terrorizzati in giro, per intersecare la cameriera ed ordinare un birrino ghiacciato, le spalle di Pierfrancesco Damas franano a coppo, col risultato che il Che Guevara sulla maglietta assume una espressione veramente desolata, e Melchiorre sì, come ha solito ha la faccia di uno che si pone amletici dubbi, ma paiono riguardare solo quanto riuscirà a resistere ancora a quello strazio infinito.

Vista la mala parata, il Giangi capisce che è il momento di prendere in mano la situazione. Così, con aria innocente, zittisce il suo candidato ringraziandolo: “Che onore ci ha fatto, il professor Trovato, ad accettare di combattere con noi questa battaglia, che noi sappiamo già perduta in partenza, ma ciò che conta è la difesa di un principio, la difesa dei diritti dei più poveri, anche da soli, anche se destinati alla sconfitta, senza recedere dalle nostre posizioni mai, come fanno quelli che si imborghesiscono! Noi dobbiamo continuare, perché bisogna ricordare che questo è il nostro scopo: continuare a combattere! Purtroppo non sono più gli anni ’70, quando io me li ricordo gli scioperi, quando le fabbriche occupate erano una e poi due e poi tutta Marghera assieme, e fuori tutti gli operai e gli studenti erano assieme nei presidi, e distribuivano assieme i volantini… e il conflitto così si socializzava, si allargava, diventava sempre più ampio, a macchia d’olio, combattevamo tutti uniti, volevamo abbattere il sistema, non solo ottenere qualche soldo in più in busta paga…”

Parte, Giangi, e chi lo ferma più, a raccontare questo eden della lotta e della Rivoluzione, con toni epici sì, ma come quelli che usano gli adolescenti che raccontano il primo concerto o la vacanza con gli amici dopo la maturità. Pierfrancesco Damas lo ascolta come il ritratto di una età dell’oro, con nostalgia simile a quella che si prova quando nella balera scatta il revival di “Sapore di Mare”, il dottor Lonigo inalbera un cipiglio da storico locale e si rammarica, assai probabilmente, che nessuno di questi momenti epici sia avvenuto nei pressi di una delle sue fontanelle. Memo e i suoi amici, mi accorgo invece, prima ascoltano un po’, poi piano piano iniziano a dare segni sempre più marcati di insofferenza: forse perché quella “socializzazione dei conflitti” che Giangi rievoca come una divertente e primitiva forma di flash mob a loro invece rammenta problemi seri, i tagli di posti, gli stipendi che non arrivavano più, e mentre per lui è stato un meraviglioso caravanserraglio, per loro era stato un calvario di figli che piangevano a casa, mogli sempre più cupe per i soldi che non bastavano a fine mese, prestiti dai parenti per comprare il latte ed il pane. Tutta quella “socializzazione” del conflitto, insomma, fa venire in mente solo una lotta finita nel nulla nella maggioranza dei casi, perché dopo gli studenti tornavano a fare gli studenti, i volantini diventavano carta straccia per tappezzare i marciapiedi, e le lettere di licenziamento invece arrivavano casa per casa, con i nomi dei destinatari ben stampati e chiari. E di rivivere tutto quello solo per dare a Giangi il contentino di potersi sentire di nuovo giovane e rivoluzionario, ecco, mi sa che non se la sentono proprio. Ordinano un birrino alla cameriera, poi salutano educatamente e vanno via.

A socializzare da qualche altra parte: forse in osteria, forse a casa con i nipotini, forse ad un banchetto della Lega o su Facebook.

È un racconto immaginario che non fa riferimenti ad avvenimenti reali, socializzati o no.

2 Comments

  1. l’errore degli estremisti di sinistra (scrivo questo termine senza disprezzo, ma solo per brevità) è presentarsi alle elezioni, facendo così più facilmente vincere la destra; però, senza questo errore pernicioso, sarebbe invece piacevole ogni tanto sentir qualche bella tiritera anni 60/70, se non altro perchè è piacevole, come appunto ascoltare un vecchio vinile di hendrix, e poi diciamo che culturalmente vi sono anche avolte delle riflesisoni interessanti, anch’esse foriere di bei ricordi: marcuse, scuola di francoforte, felix guattari, una spruzzatina anche di nietzsche per quelli proprio molto intellettuali; comunque, sono bei ricordi, e, giustamente, come ai raduni si va con la vecchia vespa primavera, così si fa anche in politica; in realtà alcune tematiche, specie ambientali, sono ultraattuali, ma è il mezzo, la listina votata alla racconta di 16/20 voti, a fare tenerezza; insomma con tutti gli abnormi difetti che ha, tanto vale rassegnarci al partito democratico, e buonanotet al secchio

    "Mi piace"

  2. è sorprendente (ma non troppo) trovare un sacco di parallelismi fra questo paesino e il mio.

    Però da me la tiritera dell'”ai miei tempi…” riguarda spesso la Resistenza piuttosto che gli anni ’70.

    E’ desolante sapere che l’estrema sinistra si trovi così allo sbando, sia a livello locale che nazionale.

    "Mi piace"

I commenti sono chiusi.