
I voti sono voti. Anzi, di più, sono numeri. E i numeri devono essere sommati e dare la somma giusta per avere la maggioranza, o la cosa non va. Il Sempresindaco Carlo Taragnin, che pure non ha fatto scuole alte, questo fondamentale concetto matematico lo ha capito e assimilato fin dalla sua prima elezione a consigliere in quartiere, quando a procurargli il quorum ci pensò il sagrestano della parrocchia, in cambio dell’assunzione del cugino in Comune; e da allora lo ha tenuto presente assai più dei comandamenti che gli hanno insegnato a catechismo: i voti sono voti e se non si hanno è inutile candidarsi, perché te lo prendi solo in quel posto là.
I voti a Spinola sono stati per anni divisi a pacchetti, praticamente già imballati a scatola chiusa, pronti per venir tirati fuori ed utilizzati ad ogni elezione. Taragnin ha sempre avuto un pacchetto suo proprio, fatto di pensionati e beghine che trascina in gite con pullman su e giù per tutti i santuari raggiungibili senza necessitare pernottamento; sono il suo tesoretto, la rendita fissa che è come se avesse depositato in banca: finché ci saranno elezioni e lui si candiderà, quelli saranno suoi. Ma poi il grosso delle preferenze, quelle che l’han fatto andare su come Sindaco e lo han tenuto là per anni saldamente assiso, gli sono venute dal Trio, che a Spinola fa confluire mille diversi rivoli, dalle fonti più impensate. Adesso che col Trio si è giunti alla rottura, e il candidato prescelto è il bel vicesindaco Erberto Guidi, e la cosa è ormai talmente nota che non c’è manco bisogno che divenga ufficiale, perché nel paese chi conta la sa già e chi non conta se l’è sentito riferire, il Sempresindaco Taragnin è da giorni chiuso in un riserbo mutangolo e incazzoso. La nuova campagna elettorale si presenta con una geografia tutta da definire, e non si è più sicuri di nulla: non si sa chi starà con chi, né come, persino dentro alle due parrocchie le correnti, le correntine e gli spifferi vari si mischiano senza regole, e le perpetue, le beghine, i nonzoli, i maestri del coro col loro seguito di cantori c’è il rischio che votino seguendo la loro testa, un po’ come cazzo gli pare, senza che i sacerdoti nemmeno ci provino a dar loro una precisa indicazione da seguire; e poi ‘sti i sacerdoti, smadonna Taragnin, son diventanti anche loro incerti e frou frou, con questa fregola della democrazia, perché, ahimè, anche a Spinola non ci sono più i sacerdoti di una volta.
La mattina arriva in Municipio, sbraita al fido Evelino qualcosa che pare alle orecchie dei più smaliziati un vaffanculo, e si chiude nel suo ufficio a meditare. S’è fatto portare una mappa di Spinola dal Catasto, e col dito e persino con una lente d’ingrandimento la percorre strada per strada. Per ogni viuzza, per ogni casa, caseggiato, condominio e villetta, conta quanti sono gli abitanti, guarda i nomi, controlla le parentele, le cerchie di amici, studia quali possano essere le armi per ingraziarseli, corromperli, metterli sotto pressione, alle peggio ricattarli, e calcola infine quanti siano quelli che lo potrebbero votare. Ma somma, dividi, moltiplica e sottrai, il computo dà sempre lo stesso responso: non abbastanza.
Che fare? La risposta non si appalesa, la divina ispirazione non vuole venirgli in aiuto. Almeno finché il dito, nel seguire una voluta di strada in mezzo alla campagna, non va a cadere su una villa un po’ isolata, con attorno del verde tanto vasto da poter agevolmente essere etichettato come parco, ma che viene catalogato giardino solo per evitare al proprietario di dover pagare tasse ben più alte. Folgorato dall’improvvisa intuizione, prende il cellulare, fa il numero. All’altro capo gli risponde dopo qualche squillo la voce di una anziana sospettosa.
“Chi xé?”
“Sono Carlo, Carlo Taragnin, signora Irma, avrei bisogno di parlare con Monsignore…so che c’è, posso passare nel pomeriggio?”
Dall’altro capo un bofonchio, che non è proprio un sì, ma non è certo un no, e tanto basta: è fatta.
Carlo Taragnin e Monsignor Cassolato si conoscono dai tempi dell’oratorio, quando Taragnin era un ragazzetto smunto che già sgomitava per farsi notare nei tornei parrocchiali di calcio, e Monsignor Cassolato un seminarista altrettanto smunto ed ambizioso, con la faccia dipinta di quel pallore cereo da fumigagione d’incenso che hanno giovani preti destinati a far carriera nella gerarchia. Col tempo non ha preso un grammo di peso, né ha perso un grammo d’ambizione: tanto è vero che i gradini della carriera vaticana li ha percorsi quasi tutti, fino a diventare monsignore di spicco, nonché segretario ed unico gestore di uno di quegli enti ecclesiastici che dal nome pare non valgano due soldi, ed invece sono il centro di tutti gli scambi ed i maneggi dell’italico sottobosco.
Quando arriva, il cancello si spalanca come se aperto da una mano divina; lo accoglie un giardino pieno di ombra, dove in sottofondo si sente uno sciabordare d’acqua che non si sa bene da dove provenga, come non si capisce mai da dove provengano i suoni in una chiesa. Svoltato il primo cespuglio, gli si para davanti la Irma, la sorella di Monsignore. E’ una donna ossuta, con lo sguardo cattivo di chi pensa che chiunque le si avvicini solo per portarle via qualcosa.
“Cossa vollo?” chiede, rabbiosa.
“Irma, lassa star, el xé qua par mi!”dice la voce di Monsignore, emergendo da una indefinita penombra.
Taragnin si avvicina, bacia l’anello, il capo inclinato in avanti, il ginocchio che si piega veloce, come si fa davanti all’altar maggiore. Monsignore gli è sempre stato sulle balle, ma è un riflesso condizionato per lui cresciuto in parrocchia: vede una tonaca e abbassa la testa, per mimare la deferenza che non prova. Il volto di Monsignore gronda bonomia pretesca: un sorriso di condiscendente paternalismo cui fanno da corona occhi duri e freddi come il marmo del fonte battesimale.
Si siedono su un paio di sedie rigide e ghiacciate. Con un cenno Monsignore ha ordinato in silenzio alla sorella di portare qualcosa, e lei serve un liquido senza gusto con la faccia imbronciata di chi te lo vorrebbe gettare sul muso, ma il fratello è maschio, prete e istruito, mentre lei non ha fatto scuole, quindi obbedisce e basta.
Taragnin sorbe il liquore, ammesso che lo sia, cercando un modo per entrare in discorso. Ma Monsignore non ha tempo da perdere: “Ho sentito che ti ricandidi lo stesso, alle elezioni…”
“Sì, Eminenza.”
“Senza l’appoggio dei vecchi partiti sarà difficile….”
A Taragnin è chiaro che gli è stato dato il la: “I vecchi partiti non ci sono più, forse, Eminenza, ma gli uomini sono sempre gli stessi…sono uomini di cui ci si può fidare, anche in questi tempi così travagliati…”
“Eh già, sono tempi così travagliati….tempi forse che abbisognano di cambiamenti…” Monsignore sospira, guarda l’orizzonte, un orizzonte che non è fatto dalle siepi del giardino, ma dai mille secoli di quella Chiesa di cui è umile servo e rappresentante in terra. Taragnin sbianca. È un modo per scaricarlo? È un no?
Ma Monsignore d’improvviso pare riprendersi dalle sue elucubrazioni: “Tuttavia i cambiamenti, si sa, vanno gestiti con sapienza ed attenzione, sono cosa delicata, da non lasciare in mano al primo che capita…”
“Già, Eminenza – farfuglia il Sempresindaco, che ha ritrovato il respiro – E io sempre in passato vi ho dimostrato quanto io sia un buon cristiano fedele alla Chiesa, quanto abbia a cuore i vostri consigli, e sappia farmi guidare dal pastore come la docile pecorella…” dice, snocciolando come una corona di rosario la litanie di frasi fatte che ha imandato a memoria fin dai tempi della Prima Comunione per guadagnarsi l’indulgenza del prete confessore.
Un roteare di mano fa capire al Sempresindaco che non è il caso di andare avanti, l’omaggio è chiaro, il non detto dettissimo. Monsignore guarda di nuovo al di là, non si capisce bene dove, un al di là lontano, ma pur sempre però terreno, poi sbufficchia, si schermisce con umile rassegnazione: “Oh, ma caro figliolo, io posso tanto poco…”
Taragnin sa che è ora il momento di tentare l’affondo: “Oh, via Monsignore si sottovaluta.. una sua parola ai parroci…”
“Sapete bene che non ho autorità su di loro…”
“Ma non parlo di autorità gerarchica, ma di autorità morale…”
“Non posso impormi sulle altrui coscienze…”
“Ma sarebbe un suggerire, da padre caritatevole…”
Insinua Taragnin, che però comincia ad avere una punta di fastidio nella voce, perché della manfrina inizia anche un po’ a stufarsi, e con i sacerdoti di una volta le cose andavano ben più per le spicce.
Monsignore recepisce per istinto che non si può tirare poi troppo la corda, se non si vuol restare con uno sfilaccio in mano.
“Eh certo, figliolo, tu sai bene che ne sarei felice di spendere per te una buona parola, soprattutto contando sul tuo impegno passato e sulla tua fede sempre tanto limpida…però…bisognerà anche tenere conto dei bisogni della comunità… per esempio, quel campo, dietro all’oratorio…”
Un rapido focus, e Taragnin ha già capito, manco avesse un geolocalizzatore nel cervello, perché giorni e giorni di studi di mappe nel suo ufficio lo han fatto diventare meglio di Google.
“Quello dietro il vecchio muro del Cimitero?” chiede, ricordando benissimo un fondo abbandonato a sé stesso, ma risultante di proprietà della Irma, la sorella di Monsignore.
“Eh già, quello…da anni non lo si può rendere edificabile, per quella storia del vincolo cimiteriale…invece ne verrebbero fuori almeno sei appartamenti… pensa, anche una dozzina. In questo momento in cui c’è tanta penuria di case per le giovani famiglie…”
Taragnin assume più virtuosa che gli riesce di dipingersi sul viso: “Io ho sempre avuto a cuore le giovani famiglie del territorio.”
“Certo, e proprio per questo, magari, si potrebbe anche trovare per le spese di costruzione un contributo a fondo perduto del Comune…”
“Ah, Monsignore, Lei m’insegna che quando si ha Dio dalla propria, nel Bilancio possono accadere miracoli. Non si può certo porre freno alla Provvidenza.”
Monsignore approva, soddisfatto: “La Provvidenza sa render merito ai buoni cristiani.”
“E posso quini contare su un suo interessamento presso i due parroci?”
“Caro figliolo, farò quel che potrò, con i miei mezzi limitati…come tu ben sai ognuno ragiona con la sua testa, oggi, anche la Chiesa è cambiata, la gerarchia conta meno, non ci sono più i sacerdoti di una volta…”
Taragnin annuisce con l’aria di chi non smentirebbe mai le parole di un Monsignore. Ma mentre bacia l’anello tira un sospiro di sollievo, perchéi tempi saran pure cambiati, e saran travagliati come dicono, ma almeno i preti ,a Spinola, sono sempre gli stessi di un tempo.
E’ un racconto di fantasia, che non parla di Sindaci o sacerdoti reali. In Italia i preti e soprattutto i monsignori si comportano in tutt’altro modo, si sa.
le vie del Signore, eh 😉
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Bello. Bello. Bello.
Come sempre, leggerti è un piacere. Il post, poi, tenendo conto che è un racconto di fantasia è anche divertente, oltre che ben scritto.
L’unica cosa che non capisco è perché mi debba lasciare in bocca una sensazione come di amaro…
certo, se fosse vero, o se fosse una rappresentazione di qualcosa che accade quotidianamente, o quantomeno in corrispondenza delle elezioni. Perché è tutto frutto di fantasia, vero?
Vero???
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Ti rubo la cappellina del monsignore, mai viste di cosi deliziose.
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interessante.
meno male che, in italia, cose del genere non succedono.
non ce ne sarebbe bisogno…
claudio
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si niente di nuovo sotto il sole insomma
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Tutto bello, tutto giusto, tutto vero, per carità. Ho solo il sospetto che, contemporaneamente, il bel vicesindaco Guidi stia facendo un discorsetto con alcuni amministratori condominiali sul tema di certi abusi edilizi. Temo per la beghina: se voterà come dice il suo parroco, diremo che vota con la testa di un altro; se vota come dice l’amministratore del suo condominio, diremo che ha agito secondo coscienza.
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@Galliolus: Conoscendo Guidi, è più probabile che stia facendo il giro delle beghine, per sedurle.
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