Nella mattina dei giorni di vacanza sono un po’ zuzzurellona per il web, e quindi oggi sono capitata su questa strana recensione dell’autobiografia di Keith Richards. E’ uno di quei libri che, confesso, non mi verrebbe mai in mente di comprare: le autobiografie mi annoiano, e quelle delle rock star in maniera particolare, perché di solito sono pateracchi cuciti alla bell’e meglio da ghost writer un tanto al chilo, che si limitano a presentare il protagonista come un individuo al di fuori della massa, toccato fin dalla più tenera età dal talento e per tanto destinato chiaramente a distinguersi, anche se il mondo attorno gli ha remato per lungo tempo contro. Il taglio di questa recensione, invece, mi ha incuriosito proprio perché sottolineava la cosa opposta: i grandi personaggi, siano essi rock star, attori o letterati divengono tali perché gestiscono il loro talento con lo stesso identico principio con cui si crea una azienda di successo: cioè dedizione, pazienza, costante aggiornamento e perpetua attenzione agli sviluppi del mondo circostante.
Una delle più deleterie eredità che il peggior romanticismo ci ha lasciato è stata l’idea sballata che l’arte sia una ispirazione divina, una illuminazione trascendente, che taluni hanno e altri no, e non ci si può fare nulla. Nella mentalità comune l’artista (cantante, attore, letterato in genere, pittore) è un essere nato per essere al di fuori delle regole, ma soprattutto uno che le regole non sa nemmeno cosa siano. L’arte, infatti, è qualcosa che trascina e travolge, ma pare che cada dal cielo come la manna, senza una particolare logica e senza preavviso. Il che non solo fa disperare schiere di ragazzini, i quali, poco sicuri di sé, automaticamente si convincono di non possedere alcun talento perché non riescono ad avere immediate ispirazioni, ma ne esalta in maniera ingiustificata schiere di altri – e non solo ragazzini, purtroppo – perché non appena Tizio e Caio per puro caso imbroccano una frase appena appena ispirata o strimpellano decentemente due note o disegnano una cosa non proprio orribile, ecco che si convincono di essere artisti, dei talenti naturali destinati al successo, e se questo non viene raggiunto la colpa è sicuramente di qualche complotto del mondo invidioso e crudel.
Prendiamo l’Italiano a scuola. Diciamolo chiaramente una volta per tutte: è una materia bastarda. A volerlo imparare bene, richiede forse persino più dedizione che la matematica, e una precisione e pignoleria di certo non inferiori. Eppure, sembra impossibile, ma nel sentimento comune di alunni e genitori, l’Italiano non è considerato poi così difficile, perché è sentito come una materia in cui i risultati si hanno “se si è portati”. E se non si è “portati” si è autorizzati ad essere delle zucche. Genitori ed alunni sono convinti, per esempio, che per andare bene nei temi si debba essere “creativi”, avere tanta fantasia e scrivere a ruota libera, così come sono parimenti sicuri che per aver buoni voti nelle interrogazioni basti “parlare”.
Ogni anno ci si ritrova la fila di madri e padri che ai colloqui vengono a chiederti come mai il loro pupetto, che ha tanta tanta fantasia e inventa cose meravigliose, non riesce a beccarsi un sei: ma come? Ha un temperamento così artistico, è così creativo! E tu a spiegare che sì, il bimbo avrà anche montagne di idee, ma ahimè le esprime in maniera incomprensibile, non le sa mettere in fila, salta di qua e di là senza una logica, si rifiuta di imparare e rispettare le più elementari regole della grammatica e dell’esposizione, per cui le sue belle intuizioni restano una poltiglia informe senza capo né coda e le interrogazioni orali sono sbrodolamenti interminabili che però non portano alla fine ad un solo concetto. Altri genitori, invece, già depressi in partenza, vengono lì a dirti che insomma, anche tu, dal loro figliolo non puoi pretendere granché, perché lui per la materia non c’è proprio portato: non ha fantasia, non è creativo, quindi piantala di tormentarlo per insegnargli a forza come reperire qualche idea da mettere nel tema, perché non fa per lui: non ha il temperamento artistico, così è.
E tu prenderesti gli uni e gli altri per la collottola, li metteresti sui banchi dei loro figli e gli spiegheresti a furia di randellate, se necessario, che il “temperamento artistico” da solo non vale una cippa, è una cosa inafferrabile come il sesso degli angeli, e parimenti ci si potrebbe parlare su per anni senza approdare a nulla; e se il loro amato pupetto vuol prendersi un buon voto in Italiano, almeno alle medie, non serve che abbia sfavillanti idee per scrivere a dodici anni il corrispettivo di Guerra e Pace, ma deve, molto più banalmente, imparare a fare un riassunto corretto, a usare le parole adatte nel contesto giusto, a saper consultare un vocabolario e coniugare i modi ed i tempi dei verbi secondo le regole della grammatica. Perché i grandi letterati e geni della letteratura nascono da queste banali operazioni: Dante non avrebbe potuto scrivere la Commedia se non avesse imparato a farsi per bene i riassunti dei libri che leggeva, e Tolstoi col piffero che riusciva a terminare Guerra e Pace se avesse avuto problemi a individuare in una frase il soggetto e il predicato. Prima si imparano bene i fondamentali, poi il resto può essere che arrivi: è impossibile capire come fare una cosa totalmente nuova che infranga le regole precedenti se quelle regole precedenti non si sa bene quali sono, e quindi non si sa neppure dove martellare per mandarle in frantumi.
Nella vita privata l’artista può essere il più gran cialtrone del mondo: comportarsi da stronzo con gli amici, dimenticarsi i compleanni delle amanti, essere per mesi strafattissimo dalla mattina alla sera. Ma non è artista per quello: il grande poeta maledetto è maledetto nel tempo libero, quando non fa il poeta. Quando si mette invece a produrre diventa più ascetico di un monaco di clausura: è capace di star giorni a limare un verso, padroneggia come lui solo le figure retoriche, i trucchi della lingua. Tutte cose che ha immagazzinato in anni di studi monomaniacali e disperatissimi, rosicando le ore al sonno, agli amici, persino al sesso.
L’artista quando fa la sua opera è serio come un imprenditore serio quando fa la sua azienda: controlla le fonti come l’altro controlla i fornitori, fa quadrare il bilancio dell’opera come l’altro fa quadrare quello semestrale, è pignolo, meticoloso, testardo e capace di concentrazione assoluta.
Chi immagina l’artista come un bislacco mattoide isolato nella sua torre d’avorio che la mattina si alza, ha una improvvisa ispirazione caduta dal cielo e realizza qualcosa su due piedi, come fosse in trance, ha una visione dell’arte buona per una puntata di Scherzi a Parte. L’artista vero con il mondo ci fa a pugni ogni santo momento, lo conosce, lo studia, lo cataloga: se qualche cosa cambia nel mondo, lui se ne accorge subito non tanto perché è dotato di una sensibilità innata, ma perché è sempre di vedetta e non smonta mai. Capitani d’industria e grande artisti spesso per questo riescono a capirsi e diventare amici: sono diversi ma entrambi drogati di lavoro, pensano a quello per la maggior parte del tempo, investono in quello ogni loro risorsa, e per ottenere il risultato cui aspirano sono spesso disposti a sacrificare tutto il resto, famiglia, hobby, persino la personale tranquillità.
Alfieri che si fece legare al tavolo per dedicarsi allo studio matto e disperatissimo non ebbe l’ispirazione perché il Destino ebbe pietà di lui. Ebbe l’ispirazione perché si legò al tavolo e studiò come un forsennato. E quando ebbe studiato come un forsennato quella marea di minuzie che erano la grammatica, la retorica, la storia, e letto opere di altri matti monomaniaci come lui, ecco, allora gli venne l’ispirazione per scrivere le sue. Che ebbero successo, perché in fondo si era comportato come un manager che vuole creare una sua azienda, e quindi cura ogni aspetto del prodotto, sacrifica per crearlo quello che c’è da sacrificare, investe in aggiornamento costante per rimanere sul mercato. Se si fosse limitato a continuare a sbronzarsi perché non gli veniva l’ispirazione, senza studiare, probabilmente sarebbe diventato solo un altro aspirante artista fallito. Buono per fare il paio con i tanti aspiranti imprenditori falliti, che passano la vita a dire che il mondo è cattivo perché non ha tributato il giusto successo alle loro sfavillanti idee, rimaste però quasi sempre, per mancanza di capacità pratiche, delle vaghe intuizioni che giravano solo nella loro testa.
come sempre, MG, è come se tu scrivessi i miei pensieri!
un abbraccio grande grande
🙂
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d’accordo con tutto quel che dici.
l’artista è un artigiano un po’ più bravo, ma come ogni bravo artigiano deve prima imparare a fare il suo mestiere.
e imparare vuol dire studio e applicazione.
l’ispirazione, se c’è, seguirà, come l’intendenza di napoleone.
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Ehi, ma stai attaccando uno dei principi cardine della “cultura contemporanea”. Io lo sintetizzo di solito con un termine di 8 lettere: DUALISMO.
Che aggiungere, che le fate non esistono e che la natura vista con gli occhi di un darwinista è molto più prodigiosa….
L’immagine dell’artista, mi ha rimandato ad un film “epico” come AMADEUS di M.Forman con W.A.Mozart che compone facendo scorrere le bocce su un biliardo e scrivendo direttamente in “Bella Copia”. Infine una considerazione sull’AMATA…. Ovvero la scuola, i tuoi studenti, non sono di certo il primo a dirtelo, sono fortunati, in quanto questo approccio, che io semplicisticamente riassumo in dualismo, è in realtà comune a molti tuoi colleghi e non solo ai genitori dei tuoi allievi. Se sapranno farne tesoro (e sono convinto che qualcuno, statisticamente deve essere in grado di farlo) un giorno, magari soltanto dentro di loro, ti ringrazieranno. Io ho soltanto una stagione di insegnamento risalente ormai a quasi vent’anni fa e ho predicato concetti affini (a proposito, il “pallino” della matematica è dello stesso tipo) e sono persuaso di non aver predicato invano…. chissà
Un Sorriso
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Completamente d’accordo sul fatto che l’arte richiede una padronanza assoluta dei fondamentali – lo studio “matto e disperatissimo” (questo non implica che il talento, il genio o l’ispirazione non esistano, per altro). Ma perché il paragone con l’imprenditore? Quella ricetta al limite forma l’artista di successo, non il bravo artista (o artigiano).
Bach non era un artista di successo, scriveva “come gli antichi” in un periodo in cui il pubblico chiedeva altro (solo un’ottantina d’anni dopo la sua morte la sua musica uscì dai circoli degli intenditori). Wagner interruppe la composizione dell’Anello del Nibelungo (4 lunghe opere) con l’intenzione di scrivere un’opera “semplice”, di facile esecuzione: ne uscì Tristano e Isotta, uno delle opere più innovative della storia della musica. A Vienna, con una delle migliori orchestre del mondo, provarono invano ad eseguirla: dovettero rinunciare perché troppo difficile. Di esempi del genere potrei farne a decine.
Ligabue, invece, è probabilmente un ottimo “imprenditore”, se da qualche lustro riempie gli stadi e sbanca i botteghini senza sapere cos’è la musica.
Certo, occasionalmente può esistere un artista che unisce i due aspetti… ma è un altro discorso.
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@il più cattivo: Nel film di Amadeus nessuno fa vedere che se Mozart poteva scrivere direttamente in “bella copia” era perché il padre, fin dalla culla, lo aveva massacrato di lezioni di musica, affinando le capacità naturali. Al di là del talento forse minore (dico “forse” perché il training cui fu sottoposto Amadeus da padre fu certo più pesante, dato che era il maschio di casa), pare che anche la sorella riuscisse a memoria a trascrivere partiture dopo averle sentite suonare per una sola volta.
@spillo: Bach mi sa che era semplicemente troppo avanti per i suoi tempi, sempre per quella attenzione maniacale con l’artista vero studia quello che gli sta intorno. Quanto all’imprenditore, be’, l’artigiano lo è. E poi mi piaceva mettere a confronto due categorie che oggi sembra siano agli antipodi: pare che il mondo sia fatto di quelli che “fanno”, gli imprenditori appunto, e degli intellettuali che divagano sul nulla e sono inutili. Mentre in realtà per avere successo sia come imprenditori che come intellettuali ci vogliono, in buona sostanza, delle capacità molto simili.
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…like.
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le stesse cose sullo studio dell’italiano e i temi le diceva (e metteva in pratica) il mio prof di italiano al liceo. non era importante tanto il contenuto dei temi, la presunta creatività, quanto la capacità di esposizione, di correttezza grammaticale-sintattica, di sintesi.
una delle persone più importanti nella mia formazione.
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A Thomas Edison è attribuita la frase “Success is 10 percent inspiration and 90 percent perspiration.”
E il commercio di deodorante è una delle colonne dell’economia moderna.
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@Galatea: esattamente quello che intendevo.
Amadeus è un film romantico, non certo un film “didattico”. Anzi il fatto che vi contrapponga fortemente il “mestierante Salieri” che però privo del dono non potrebbe mai raggiungerlo direi che diviene didattico proprio come esempio dell’errata percezione dell’espressione artistica.
Un Sorriso
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gli scultori delle cattedrali gotiche si ritenevano solo scalpellini di buon livello, e spesso non firmavano la propria opera
è il feticismo della firma, una sorta di carta moneta impropria, che è il sintomo di quella parola a me antipatica che è artista
esistono le opere, non gli artisti, che sono semplicemente uomini
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ricordo che all’esame di maturità classica la professoressa di italiano, che veniva da un famoso liceo di milano, il parini, commentando il mio tema disse: hai scritto delle banalità sconcertanti, ma le hai scritte in un italiano bellissimo
me ne andai con un 60 (allora i voti erano in sessantesimi)
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leggo molte biografie, m’ interessano le vite degli altri.
quando cammino e guardo il volto dei passanti a volte mi chiedo cosa li spinge a fare un passo dietro l’altro. figuriamoci se non sono interessato a “chi ce l’ha fatta”.
basta il talento per essere un artista o imprenditore di successo? no,se si è pigri.
basta la perseveranza?no, senza un minimo di talento.
il tempo in cui si opera? nel ‘400 meglio essere un pittore che un ballerino. meglio ancora un banchiere fiorentino. oggi un cantante o uno sportivo per arrivare alla vetta in fretta.
sui complotti ? nel passato alle donne non venivano offerte molte opportunità, come testimonia il rapporto numerico tra uomini di successo e donne di successo. ancora oggi “qualche” discriminazione domina il campo. credo siamo tutti d’ accordo che in questo caso non si debba parlare di mancanza di talento o d’abnegazione.
complotto si avvicina sicuramente alla verità.
una cosa è certa però. spesso le biografie sono scritte da altri. spesso adulatori del soggeto, amici o parenti. credibili al 50 %.forse.
qualche volte capita siano detrattori.credibili in % difficilmente definibile.
gli storici? qualcuno li paga per farlo. dipende chi e diventano o detrattori o adulatori.
delle autobiografie invece una cosa quasi sempre non cambia. il protagonista non sa mai definire quale sia stato il vero motivo del suo successo.che sia umiltà?
nelle interviste odierne invece mentono spudoratamente.
dell’ artista e dell’ imprenditore, o meglio dell’ “artistimprenditore”, sicuramente posso dire che sia il mestire più difficile al mondo. ma entrambi se si sporcano le mani durante il cammino, certo non lo vanno a raccontare in giro.
al di là del talento. al di là della perseveranza.
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Interessante il tema, molto.
Un particolare però:
non credi che la scuola, a volte, con i suoi aspetti valutativi portati spesso all’eccesso, possa infastidire i ragazzi, possa portarli magari ad odiare materie che, se affrontate come gioco libero, vengono amate?
Dovremmo riflettere sulla struttura della scuola che sembra un’invenzione per separare genitori e figli, introdurre un giudice superiore che viene vissuto spesso come un persecutore.
Bisognerebbe riuscire a rendere la scuola appetibile come imparare ad andare in bicicletta.
Qualche caduta ci sta sempre, ma la passione è sempre più forte!
E senza passione non c’è disciplina che tenga…
O no?
🙂
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Io mi sto applicando per diventare “il più grande mangiapreti del mondo”. Credete a me: ci vogliono sangue, sudore e lacrime e una fissazione monomaniacale come quella dell’Alfieri e d’altri come lui.
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Mi chiedo perché mai si discuta di italiano, grammatica e ortografia, massacrando oltre il possibile l’italiano, la grammatica e l’ortografia.
Non mi risulta che punteggiatura e maiuscole si siano trasformate in oggetti velenosi da usare il meno possibile – o proprio per niente – pena la perdita dell’uso delle mani.
E credo che l’italiano bellissimo di Pio all’esame di maturità, che gli ha valso 60/60, qualche maiuscola – all’epoca – la contemplasse.
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@galatea: allora diciamo che sono grato a Bach di non essere stato un buon imprenditore (ovviamente lui voleva aver successo presso i contemporanei, ma la spinta a scrivere bella musica era più forte).
Giusto per spiegare l’intenzione del mio primo post: trovo che inseguire l'”avversario” sul suo terreno sia sempre una strategia perdente. Nella situazione attuale, le capacità imprenditoriali sono già ampiamente (soprav)valutate, sia nella percezione comune che negli effetti pratici: un imprenditore appena decente in genere se la passa assai meglio di un artista (intellettuale, ecc) di valore.
Invece di chiedere attenzione affermando che gli artisti sono buoni imprenditori, preferisco far capire agli imprenditori quanto devono, nel loro lavoro, a un’infinità di tecnici, scienziati, scrittori, artisti, pensatori, ecc., che magari ignorano o disprezzano.
I miei 2 cent, come si usa dire.
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@Salasar io amo quella sensazione anarchica provocata dall’ evitare accuratamente le maiuscole.
perchè in una parola devono esserci lettere più importanti di altre? a volte solo per la loro posizione in una frase?
si comincia così. con il discriminare le lettere ,per poi finire col farlo con gli uomini.
se poi questo comporta un 4 in ortografia, ne sopporterò il peso.
al contrario di Pio, molti anni fa la mia professoressa d’ italiano mi valutò con un 8 un tema. devo ammettere fu l’ unico (la mia media era tra il 6,5 e il 7)
era scritto di merda,pieno zeppo d’errori d’ortografia. ero lento( ed un po’ pigro), quindi al termine del tempo stabilito o consegnavo o rileggevo. preferivo consegnare.
in quel caso tutti svolgemmo la stessa traccia. commento al film “schindler ‘s list”.
il mio fu l’ unico 8.
all’ epoca frequentavo il liceo artistico, che per mia fortuna dava la priorità al contenuto, piuttosto che alla forma. giustamente ognuno dovrebbe essere libero di scegliere l’ habitat che meglio più lo soddisfa.
detto questo, è chiaro che se avessi voluto intraprendere la carriera di scrittore avrei indirizzato il mio bisogno anarcoide verso altre direzioni.
a tutt’ oggi opero nell’ arte contemporanea, crogiuolo dove si fondono i linguaggi non verbali.
di una cosa potete stare certi. con la forma si vende, anche troppo facilmente.
ma senza contenuto potete scordarvi la parola arte, al massimo è solo intrattenimento.
p.s. per rispetto dei citati presenti, Pio lo scrivo maiuscolo.
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mi scuso per il “meglio più”, svista non anarchica.
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a salazar: ti ha già risposto papi
d’altra parte nel commentare un post, è solo una scelta di velocità
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A proposito dell’autobiografia di Keith Richards, un bell’articolo dell’Economist (o era una recensione? Quien sabe?) metteva in luce un’altra caratteristica importante: che il successo è correlato, nell’arte e nell’imprenditoria, dal sodalizio creativo, con varie configurazioni di divisione (o non divisione) dei ruoli. Portava numerosi esempi, di sodalizi cementati dai più diversi sentimenti. Anche questo è in contraddizione con l’idea dell’artista maledetto, incompreso, solitario, sofferente.
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@ Papibulldozer & Pio
Certo, l’anarchia cosa bella è. Anche la velocità.
Il problema è che passando maiuscole e punteggiatura al frullatore si complica la vita al lettore, poverino, abituato com’è a pause lunghe o brevi, ad accapo belli decisi sanciti dalla maiuscola, a nomi propri immediatamente identificabili.
Non riesce – il povero lettore – ad afferrare il ritmo e la musica che scaturiscono dagli scritti in aggiunta al contenuto: punteggiatura e maiuscole sono come le tonalità musicali, servono ad incupire oppure attenuare quello che si vuole esprimere.
In più, così facendo, non si usano tutti gli straordinari strumenti che una lingua, bellissima e flessibilissima, come l’italiano mette a disposizione di chi la usa. Ed è proprio un peccato non farlo.
Ma forse, quello che mi fa notare queste situazioni, è solo una deformazione professionale: nella tesi, anche solo lasciando lo spazio prima della virgola – una sola virgola – e non dopo, con me uno mica si laurea. Se lo può dimenticare.
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qui siamo sull’internet, non siamo sulla carta scritta, ogni media ha il suo linguaggio
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@ salazar
gentile professore,
concordo con lei sul fatto che la lingua italiana è bellissima (sulla flessibilità son meno d’accordo, ma transeat).
dopo più di cinquantasette anni di frequentazione e di studio, penso anche di conoscerla in modo discreto (se le può interessare, ho cominciato a leggere e scrivere a quattro anni, grazie ad una famiglia che a queste cose ci teneva, anca se in casa se è sempre parlà dialeto veronese e, come el pol védar, son bon de scrìvar anca quel).
quando mi è capitato di scriver tesi o qualunque altro documento che avesse forma ufficiale, le assicuro che mi son sempre accertato che maiuscole e virgole fossero al loro posto.
si dà il caso però che quando uso la posta elettronica le maiuscole mi dian fastidio (è un vezzo, eh!), e così le elimino.
come vede, per altro, vado a capo dopo ogni punto fermo, e mi pare che in tal modo la leggibilità (le pause cui lei tanto tiene) venga salvaguardata.
caro professore, ascolti un anziano: una lingua, se è robusta e ricca di storia come la nostra, sopporta sorridendo questi ed altri strapazzi.
se non li sopportasse, vorrebbe dire che è vicina l’ora della sua fine, cosa già successa ad altre gloriose parlate.
So it goes, direbbe vonnegut.
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In questo caso l’autobiografia è più un racconto che una celebrazione. Ivi comprese le messe a nudo delle proprie debolezze.
Poi come mi ha detto qualcuno per il mestiere che faccio ci ho letto l’ispirazione ad accostarlo al management.
Ma il messaggio era proprio quello che anche tu hai colto, il talento non è nulla senza dedizione e studio.
@laura non avevo letto l’articolo dell’Economist, ma la cosa l’ho citata anche io.
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