Bologna mi ha adottato. Non chiedetemi perché, sono quegli amori che scoppiano senza ragione, per pura affinità elettiva. A Goethe capitava con le Carlotte, a me, tanto per cominciare, con la cucina bolognese: non sono molto romantica di carattere, ma mi commuovo davanti alla poesia dei tortellini.
Si vede che Bologna sta cosa la sente, e mi ricambia. infatti il libro a Bologna ha venduto un botto, e così, fra le altre cose, mi han fatto interviste nelle due radio storiche della città, Radio Città del Capo a giugno e Radio Fujiko ieri.
Comincio a pensare che un buon motivo per scrivere libri è che poi ti invitano a parlarne alla radio, perché la radio, specie se poi è in diretta, è una figata pazzesca. Fa molto anni ’80, mi rendo conto, dire “figata pazzesca”. Ma io in fondo sono abbastanza anni ’80, e poi non trovo altro termine per rendere l’idea. Già sei in radio e ti mettono le cuffie e poi c’è il microfonone appeso in cui devi parlare. No, no, figata è il termine giusto.
Poi c’è Bologna che è Bologna. Così prima di passare in radio, l’amico che ti fa da cicerone ti può portare su, sui colli, a vedere la città che si stende ai tuoi piedi, al tramonto. Con quelle pennellate di rosso e giallo che colpiscono le torri medievali e le fanno parere lame di fuoco, ma non fuoco infernale, o bellicoso, un fuoco inquietante di guerra e distruzione: trasformano il mattone in qualcosa che sembra il riverbero di un camino, anzi di un focolare. Quello in cui ribolle la pentola del brodo per scaldare i tortellini ed i bolliti, perché Bologna è così, sensuale e concreta, lussuriosa e bonacciona. Del resto è una città che ha inventato la mortadella, quindi tutto torna.
E alla fine della serata, come coccola finale, ti portano pure a mangiare da Vito, che è la trattoria per antonomasia, quella, per chiarire, dove un cuoco di masterchef con la puzza sotto al naso, gli abbinamenti fighetti e la mistica dell’alga giapponese in abbinata con la spuma di fungo in dose omeopatica, lo prendono a calci appena si affaccia, e continuano a calciarlo ancora di più se si azzarda a sedere. Che ha il menù fotocopiato e uguale nei secoli, il cameriere spiccio, e quei quattro piatti seri e tosti fatti per gente che vuol mangiare, per cui le porzioni sono consequenzialmente da camionisti.
Tu sei lì, che ridi e scherzi, e ti abbuffi di tagliatelle e passatelli in brodo («I passatelli sono tassativamente in brodo!» ti informa immediatamente il cameriere, ed il tono è di quelli che fa capire che se li vuoi magiare in qualche altra maniera, fai meglio ad alzarti ed andare via, sciagurato!), e ti diverti e pensi che, finché ci sono gli amici, e le trattorie, e le città che mettono allegria, la vita è bella, ma bella bella, ma bella bella bella, così bella alle volte che non ti vengono per descriverla altri aggettivi.
Ah, dimenticavo. Poi esci nel caldo di una serata che è di ottobre ma pare fine agosto, e scopri che la macchina l’avevate passeggiata in via Paolo Fabbri, 42. E che sulla serranda del negozio davanti a cui sta, una mano anonima di writer ha trascritto:
Gli eroi su Kawasaki coi maglioni colorati
van scialando sulle strade bionde e fretta,
personalmente austero vesto in blu perchè odio il nero
e ho paura anche d’ andare in bicicletta:
scartato alla leva del jet-set,
non piango, ma compro le Clark,
se devo emigrare in America,
come mio nonno, prendo il tram!
E pensi che tutto ha un senso. Profondo, bolognese. Che forse indagherai meglio, non appena avrai digerito quei meravigliosi passatelli.
Ti capisco, carissima. Io sono profondamente innamorato di Bologna, che rimane una delle mie tappe fisse quando torno in Italia
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«Con quelle pennellate di rosso e giallo che colpiscono le torri medievali e le fanno parere lame di fuoco, ma non fuoco infernale, o bellicoso, un fuoco inquietante di guerra e distruzione: trasformano il mattone in qualcosa che sembra il riverbero di un camino, anzi di un focolare. Quello in cui ribolle la pentola del brodo per scaldare i tortellini ed i bolliti, perché Bologna è così, sensuale e concreta, lussuriosa e bonacciona.»
Passaggio magnificamente scritto, anche se un po’ troppo smaccatamente gucciniano. La forza poetica della signorina Vaglio c’è tutta, una poetica che ancora il volo alto della parola ben scritta alla concretezza terrena dei sapori, degli odori, degli umori. Solitamente è il veneto basso e nebbioso, ma scivolare giù, fino all’utero protettivo di Bologna, è un viaggio verso la propria autentica natura. Bologna è in effetti una città mamma (e non madre come Genova ad esempio). Le pennellate di luce radente sono un espediente pittorico di calibrata efficacia (la signorina Vaglio non scrive di getto, e fa bene). Per me questa è una scrittrice, ma è troppo intelligente per scrivere storie inutili, quindi niente romanzi, ma gustosi pezzi di vita, come i salami in vetrina di gucciniana memoria. Complimenti Galatea.
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Bologna c’ha una cosa, c’è che rimani accecato da LuCE!!
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Io ci ho vissuto, in via Paolo Fabbri, in quei numeri lì (ma Vito è folklore e storia, ma oramai non è più così buona e, a dirla tutta, nemmeno così doc).
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Rimane sempre inteso che Agorà ormai è casa tua e potrai tornare tutte le volte che vuoi,
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e pensare che di tanto mondo Bologna è una delle città che mi manca.. mi hai fatto venire voglia di recuperare.
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Mi sa che esistono 2 Bologna: da cittadini che l’hanno partorita vista fatta creata sentita e gustata, noi la ricordiamo effettivamente così, ma è appunto un ricordo. Ci manca, ci manca tantissimo quella Bologna. La cosa curiosa è… che chi la visita, ne incontra il fantasma e lo prende per realtà. O noi siamo diventati ciechi, o dobbiamo migrare e decidere a tornar qui 2 volte all’anno per vedere ciò che i visitatori vedono, sperando di incontrare anche noi quel fantasma e andarci in giro a braccetto.
Al di là di ciò, un altro fulgido esempio della tua Scrittura, che decisamente ammiro e seguo da mesi. Un GRAZIE di cuore per l’affetto alla nostra città… ci rincuora molto. Un abbraccio Felsineo.
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