La boxe e le donne di casa mia: elogio di Cassius Clay e della boxe come sport “femminile”.

Lo so che fa ridere, ma per me guardare lo sport è una cosa da femmine.

Era così a casa mia. Papà, unico maschio di casa, sostanzialmente indifferente, guardava poco la tv e poco il calcio: da ex pallanuotista al massimo qualche partita in piscina, ma con l’indifferenza e l’aplomb di uno che passava di là per caso, un inglese flemmatico che butta l’occhio ma non si intigna nel tifo mediterraneo e plebeo.

Chi guardava lo sport, tutti gli sport, in compagnia, sbracciandosi e urlando per incitare gli atleti, a casa mia erano le donne. La nonna e la zia, per essere precise.

Me le ricordo assise nelle loro poltrone, come divinità infere di un qualche olimpo pagano. I riccetti a posto da permanente fatta con cura, come le signore di una volta, la vestaglietta buona da casa, di fianco gli assortimenti di caramelle e di viveri assortiti e stagionali (il panettone a Natale, i semi di zucca d’inverno, le giuggiole o le ciliegie), e di fronte lo schermo su cui passava ogni tipo di agone atletico.

C’era il Giro d’Italia e il Tour, con le sfide infinite fra Moser e Saronni, e il campionato di calcio e le partite della Nazionale. Il rito dei Mondiali che si seguivano tutti, dal principio alla fine, commentando anche partite di sconosciuti paesi infilati nei gironi più secondari. C’erano le coppe, e gli Europei. E poi gli altri sport: l’atletica, il tennis, il canottaggio, persino la vela.

E poi c’era la signora di tutte le gare, la boxe.

Dio, come me li ricordo gli incontri di boxe! Con io piccina, seduta sul pavimento con il bambolotto, e loro lì, che non si perdevano un colpo, esultavano per un montante ben assestato, invocavano un gancio risolutore, contavano assieme all’arbitro per il knock out.

Clay era il loro idolo, come Pelè per il calcio. Queste due donne così a modo, e di quel sottile razzismo d’epoca che faceva dire loro:«Ma i xè proprio neri e i g’ha le rece da simìon!» erano capaci  però di esaltarsi come ragazzine per l’eleganza sopraffina con cui i due danzavano palleggiando o tirando pugni. Soprattutto tirando pugni, perché Cassius Clay lo amavano più di tutti, visto che nella loro visione la boxe era lo sport più sport che vi fosse, per quel suo richiedere l’arcaico coraggio di affrontare il rischio e il dolore, come sul campo di battaglia.

Il calcio, in fondo, è roba da fighetti, al massimo ti atterrano con uno sgambetto e finisci a terra lungo disteso con il massaggiatore che arriva lesto e si china veloce per far passare la bua.  La boxe no, è roba forte, è una gragnola di colpi secchi, labbra che si spaccano, denti da sputare, lividi e tagli sulla fronte, sangue che corre sul volto, ossa che scricchiolano. Quelle due donne che erano sopravvissute a due guerre mondiali, assise sulle loro poltrone, nella penombra di un tinello, riconoscevano agli eroi della boxe lo stesso valore dei soldati, lo stesso animo nello sfidare la sofferenza e persino la morte. Intuivano in quel nero possente che’l g’ha le rece da simìon la tempra di un antico Ercole, la determinazione di chi non arretra di fronte al pericolo e non molla, mai, neppure se lo bastonano forte.

Erano innamorate di Clay, o di Alì, come aveva deciso di chiamarsi poi, della sua irruenza, del suo non arrendersi mai, della sua incapacità di stare zitto e di sopportare in silenzio le ingiustizie. Lo amavano e lo hanno fatto amare anche a me, in qualche modo passandomi l’idea che quello è il modo di affrontare la vita: menando, quando serve, e non accettando, soprattutto, di farsi mettere i piedi in testa mai.

Non si è fatto mettere i piedi in testa mai, Cassius o Mohamed: né dagli avversari, né dallo Stato, né dalla malattia o più in generale dal destino. Nero diventato musulmano quasi che non gli bastasse essere già dentro una minoranza discriminata, e poi pacifista perché musulmano: una roba che se ci si pensa oggi, è uno sberleffo ad ogni Al Qaida ed Isis. Boxeur, e perciò considerato fra tutti gli atleti quello considerato appartenente alla categoria più stolida, divenuto invece un portavoce di istanze politiche nelle sue conferenze stampa. Infine malato di una malattia che non perdona, ma che non gli impedì di fare il tedoforo alle Olimpiadi, perché il morbo più terrible si deve fare da parte quando incontra un uomo testardo e determinato.

È morto oggi, Cassius Clay o Mohamed Alì. E io non credo nell’aldilà. Ma se ci credessi, mi piacerebbe immaginare l’incontro fra lui e le sue due fan più accanite, che lo hanno aspettato lassù, assise sulle loro poltrone per applaudirlo ancora una volta.

 

8 Comments

  1. La storia dell’islam sembra strana solo se non si è familiari con la nation of Islam, Malcolm X e dintorni.

    Non è per contestare quanto scrivi, ma sembra strano solo per l’idea di Islam prevalente nel pubblico. Ma come membro di una minoranza rifiutare la religione degli oppressori è un atto che rinforza politicamente.

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  2. Cassius Clay alias Mohamed Alì (il nome dei due maggiori rappresentanti dell’Islam) the best….

    Non ci sarà mai più un personaggio sportivo carismatico come lui…

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  3. Oggi per esempio mi chiedevo, guardando il Moto Gp, possibile che non ci sia una donna lì in mezzo? Solo le ombrelline a fare il loro mestiere femminile e basta? Ci sono sport che sono considerati ancora solo maschili? Mah

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  4. In effetti io sono come tuo padre, escluso un passato da atleta qualsivoglia- lo sport lo vedo di sfuggita – unica eccezione Valentino Rossi – per. Cassius lo ricordo diciottenne alle olimpiadi romane del 1960. Uno spettacolo vederlo danzare sul ring. Uno spettacolo – sia pura amaro – vederlo in prigione perché giustamente non ne voleva sapere di andare nel Vietnam.
    Adesso non c’è più e credo che abbia lasciato un vuoto dentro di noi.

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  5. Trovo che ci sia connessione tra la figura delle donne affascinate dagli “eroi della boxe”, a cui attribuivano “lo stesso valore dei soldati, lo stesso animo nello sfidare la sofferenza e persino la morte” – cioè mica roba da fighetti-, col tema di due post fa, sul c.d. femminicidio.

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