Ed ė subito Sorrentino. 

C’è la troupe tedesca organizzatissima che sbarca sul pontile del Lido, esce dall’imbarcadero con telecamere, microfoni, zaini, navigatore satellitare, e si perde. Il giovane attore e conduttore fiero dei suoi muscoli e dei suoi tatuaggi che occhieggia dal tavolino del bar con fare meditabondo, per rimarcare che sotto la bonaggine ha anche un’anima sensibile e tormentata. Il tipo dello staff che smadonna come uscito da una puntata di  Boris, perché mancano le sedie, o le luci, o non si sa che, e il lounge non può aprire. C’è il tizio abbronzato e magrissimo, che al cellulare dice con fare suadente ad una lontana interlocutrice: “Ma io voglio che tu mi dica qualcosa di essenziale, non le solite parole vuote. Per esempio, come stai?” E poi mentre lei risponde si guarda concentratissimo le unghie. C’è il manager di qualcosa che parla al telefonino di qualche affare per un film che non si capisce (l’affare, ma anche il film) come se la storia del cinema dipendesse da lui, e la coppia di cinefili ventenni che discetta, in italiano strascicato, sulla visione del noto regista che è quasi come quella di Truffaut ma insomma però no. E in mezzo a questa folla, che si sposta verso la Mostra come i cammelli delle antiche carovane nel deserto, c’è, vi giuro, una famiglia di ebrei ortodossi formata da madre,  nonna, padre con barba e riccioloni, figlio adolescente senza ancora la barba ma con i ricciolini che escono dallo scuffiotto nero, figlia occhialuta e pudica.

Il Lido, durante il Festival, non è un luogo, e il set di un film di Sorrentino. 

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