Rubicone, 10gennaio 49 a.C. : La notte è tersa, ma gelida. Un brivido scuote l’uomo avvolto nel pesante mantello, mentre guida il piccolo carro trainato da due mule. È un carro da mugnaio, ma non ha nulla del mugnaio colui che regge le redini. Sotto il cappuccio grezzo, tenuto giù a bella posta per nascondersi da sguardi indiscreti, si intravede un volto magro, solcato dalle rughe della maturità, un profilo aquilino, il brillio tagliente di due occhi neri vivaci e inquieti, e il baluginare di una fronte segnata dalla calvizie.
Nel buio non distingue la strada, né la direzione. Si fida dei segni che gli fa la guida indigena, un pastore che lo precede a piedi, e si esprime più a grugniti che a parole. È stata la sua salvezza, quel bifolco, che ha incontrato per caso poc’anzi, quando ormai temeva davvero di essersi perduto. Sorride. Sarebbe stato un incredibile scherzo della Fortuna fargli smarrire la via lì, dopo averlo protetto per tanti anni da agguati sui campi di battaglia e spedizioni nelle selve più oscure e impenetrabili. Ma no, la Fortuna, come sempre, ha deciso di non tradirlo.
Con l’abilità di un animale, il pastore si destreggia nell’intrico di fogliame, e il falso mugnaio lo segue.
Il suo unico punto di riferimento è il gorgogliare delle acque del fiume, che emerge a tratti dalla boscaglia.
Non è un gran fiume, il Rubicone. Quasi un ruscello, rispetto a quelli che ha visto al di là delle Alpi. E persino rispetto allo stesso Tevere, sulle cui sponde è nato. Ma è un confine. Il confine che Roma si è scelta come limite invalicabile del pomerium, lo spazio sacro della città. Al di qua del rigagnolo, ci sono le province, i territori che Roma ha conquistato e annesso al suo impero, dove gli eserciti e le legioni possono spostarsi e muoversi al seguito dei loro comandanti. Al di là c’è Roma, e nessun esercito, nessun comandante può varcare quella soglia in armi, se non per autorizzazione del Senato. Lui invece quello sta per fare: entrare nel pomerium, senza autorizzazione. Come un bandito. Come un rinnegato. O come un uomo che sa ciò che vuole, ed è determinato a prenderlo.
Uno slargo, il guado. Arrivati ad una piccola radura, il falso mugnaio fa un cenno di saluto rapido alla sua guida, che si allontana veloce, come quell’animale selvatico che è. L’uomo abbassa il cappuccio. Le foglie dei cespugli attorno si muovono appena. Ma non è il vento. Dall’intrico compaiono ad uno ad uno, come ombre evocate dall’Ade, altri, in loriche e mantelli. Sono uomini, sono soldati. Sono legionari, i suoi.
Gli portano un cavallo, un destriero adatto ad un comandante romano. Lui ci sale in groppa. Ma prima di dare il segnale guarda pensieroso il chiarore del giorno che sta nascendo e si volta verso i compagni.
«Per ora possiamo ancora tornare indietro – dice – Ma passato quel ponte, tutto sarà deciso con le armi.»
Non è una esortazione, non è una minaccia. È una constatazione. Vuole essere sicuro che chi lo segue sia conscio di quello in cui si sta imbarcando.
Nessuno parla, nessuno si muove. Soprattutto nessuno indietreggia. Anzi, un giovane trombettiere avanza dalle retrovie, senza attendere oltre si lancia, attraversa il ponte suonando il segnale di battaglia.
Caio Giulio Cesare sorride: il suo esercito è con lui. Come sempre. Fa cenno di muoversi.
«Il dado è lanciato.»
Che la sfida cominci.
Tratto da Mariangela Galatea Vaglio, Cesare, l’uomo che ha reso grande Roma, Giunti Editore, 2020. Acquistabile qui (link affiliato)