Lo amano tutti, perché lo trovano bonario, simpatico, alla mano. Difficile non amarlo, invero, Orazio. Già, come si fa a non affezionarsi a questo ragazzotto, poi signore, spiritoso, che ti immagini sempre seduto in disparte, a guardare l’orizzonte dal suo appartato podere di campagna. Te lo figuri così, non vecchio né giovane, non pingue, ma robusto, con in mano un bicchiere di vino, davanti un po’ di formaggio come rustico antipasto, e negli occhi lo sguardo saggio e tranquillo di chi il mondo lo osserva, lo capisce, lo trova magari divertente, ma, in fondo, non se ne intriga. È sempre citato come esempio di equilibrio, di classica misura, perché Orazio sa prendere per il culo, ma non affondare il coltello: se è cattivo, non è mai crudele.
Lo trovano tutti divertente, spiritoso; poi era pure epicureo, per soprammercato, e agli epicurei non si può non voler bene, perché è gente che si sa goder la vita, non rompe l’anima al mondo e, pur non essendo poi i viziosi che si immagina, verso il vizio altrui hanno una forma di simpatica e umana comprensione. E dunque non si può non amarlo, Orazio. Forse è proprio per questo, confesso, che io non son mai riuscita fino in fondo a farmelo piacere. Per quel suo apparire così “liscio”, così pacificato, così tranquillo, che non sai se è davvero atarassia, la sua, e non piuttosto una resa.
E dire che aveva tutte le carte in regola per essere un ribelle, questo giovanottone venuto dalla provincia, disceso da un padre liberto e per di più esattore di tasse, cosa che portava ad accumulare in fretta fortuna, ma non prestigio sociale. Manda il figlio nelle migliori scuole dell’Urbe, babbo, per cercare, assai probabilmente, attraverso di lui il riscatto che i soldi da soli non bastano a garantirgli, perché a Roma sì, come diceva Giugurta, tutto è in vendita e i primi a mettersi sul mercato sono proprio i patrizi, ma, pur se comprabili, sempre patrizi restano poi, agli occhi del mondo.
Orazio doveva essere buono, di fondo, fin da piccolo. Va a scuola per far contento il genitore, e si prende, dal maestro, la sua giusta dose di nerbate; magari anche qualche scaracchio in faccia dai compagni, che saranno stati certo meno brillanti di lui, ma sono nobili, e lui è solo prole di uno schiavo liberato. Un altro sarebbe diventato rivoluzionario: avrebbe sottratto al docente manesco il suo bastone, si sarebbe arruolato nella gang di Clodio, e su e giù per i vicoli di Roma, a distribuir legnate. Orazio no. Se sta male, lo fa in silenzio, per conto suo: non dimentica, ma neppure sbotta. È uno di quei ragazzini in fondo seri, dal carattere pastoso, che alla fine vincono le resistenze invischiando gli altri nella loro bonomia. Non ha i tratti del capopopolo, ma del fanciullone che anela solo la calma e la pace: sorride e si allinea. Così me la spiego, la sua giovanile adesione al partito di Bruto, di Cassio. Gli amici di scuola, aristocratici, non potevano essere certo cesariani: Cesare minava l’ordine costituito, quella Res Publica in cui gli Optimates sguazzavano perché i privilegi erano tutti loro. Voleva dire, in fondo, Tradizione, la Res Publica, e la Tradizione è sempre sinonimo di certezze incrollabili e immutabile tranquillità.
Va sul campo di battaglia, perché è pur sempre un giovane, anche se pacioso. Sarà stato convinto, non ne dubito, ma a immaginarmelo guerriero, ho sempre fatto un po’ fatica: me lo vedo, al massimo, a girovagare per il campo perplesso, fra i fumi della battaglia finita, chiedendosi perché lui sia ancora vivo e gli altri morti, e a prendere coscienza in quell’attimo di quanto il Caso governi ogni evento, ed il Senso, invece, non ne controlli nessuno.
Torna a Roma, si defila. Non credo per paura, piuttosto per disinteresse. Non è lo schifo di chi si ritira nell’indignazione: è che Orazio è sempre Orazio: cerca la calma. D’istinto, più che per filosofia, si tiene distante dalle cose che non capisce, e ha capito che la politica, no, non fa per lui. Troppo sangue, troppo disordine, troppe brutture: le bandiere non sono così belle da seguire quando hai visto quanto spesso vengono usate anche se sporche di fango e di merda. Fa quello che sa fare, scrivere. Ed è scrivendo che lo presentano a Mecenate.
È l’incontro di una vita. Sono fatti per capirsi, i due. Mecenate è un gran signore che discende in linea retta da principi etruschi: per dire, gente già nobile quando Romolo, antenato dell’amico Ottaviano, ancora pascolava capre chiedendosi chi era il buzzurro che aveva messo incinta mamma. Da principe sa che gli artisti sono artisti: vanno semplicemente coccolati. Se gli dai un grattino, fanno le fusa senza bisogno di imposizioni. Sono degli insicuri, gli artisti: gli dici che li trovi bravi e ti seguono spontaneamente, come i bimbi van dietro ai maniaci che offrono caramelle.
Orazio ama le caramelle. Il suo bonbon preferito si chiama tranquillità. Non è uno stupido, o un volgare leccaculo: è che sogna un mondo sereno, ordinato, in cui tutti hanno un sorriso sulle labbra, anche se di tanto in tanto possono anche concedersi uno sghignazzo. Augusto glielo assicura. Sa essere ironico, sa tirare fuori bozzetti che sono lampi, delineare in due versi personaggi esilaranti e vivacissimi. Ma quello sono, bozzetti inoffensivi di una Roma che Augusto controlla e ordina permeandola con la sua nuova ideologia: del regime, Orazio, con il suo volto bonario e simpatico, è il guanto di velluto. Fa ridere, con misurata eleganza. Talvolta, sì, fa meditare: quando si distrae e lascia trapelare dai suoi versi l’angoscia che sotto sotto, nascosta da sempre, lo attanaglia: quella di doversi aggrappare al momento perché, ahilui, neppure la più tetragona filosofia può parare i colpi del futuro. L’incerto lo terrorizza, e decide, da bravo epicureo, di salvarsi schivandolo. Si ritira, nel suo poderetto, e nelle sue satire di personaggi comuni; quando lo traggono a forza nel Carmen Saeculare lo scrive, sì, ma si sente che non è nel suo. É il pedaggio che si paga per una lunga protezione che è stata quasi un’amicizia, di sicuro una frequentazione piacevole e pluriennale: Orazio non sa dire di no, e poi non ne ha motivo. A dirlo poeta di regime, in fondo, gli si fa un torto: non era un trombone retorico e acritico, non era, per dire, un Emilio Fede in versi.
Era un uomo sorridente che amava vivere tranquillo. Non sempre ciò impedisce di diventare un grande poeta.
al contrario di te, io ho sempre amato Orazio. credo che il motivo principale sia che in fondo in fondo ho sempre invidiato quel suo defilarsi in cerca di tranquillità, proprio perchè è ciò che desidero fare anch’io da sempre. io che sono epicurea nel senso in cui lo intendevano i Romani!
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leggevo questo post, e ragionavo sul fatto che io di Orazio non ne so nulla.
Mi correggo, non ne _sapevo_ nulla. 🙂
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🙂
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Anche a me Orazio piace, sia chiaro: è uno dei migliori poeti della letteratura latina. Ma, ecco, ho sempre avuto l’impressione che un lato del suo carattere lo portasse naturalmente ad allinearsi con il potere. Non c’è niente di male, eh. Però preferisco Catullo.
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E il “nunc est bibendum”? 😀 Tranquillo?
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Boh, il Nunc est bibendum, facendo l’occhiolino al classico Alceo, è un atto di assoluto schieramento nei confronti del potere, di quel giovine rampante che era Ottaviano che aveva appena fatto piazza pulita della molle Cleopatra e della sua sordida corte di mezzi effeminati. Un punto di vista, ai tempi, alquanto schierato con chi si stava acquistando Roma pezzo per pezzo, con la scusa di difenderla dal nemico, che una volta era alleato: Antonio…
Trovo questo post su Orazio uno dei più simpatici ed intelligenti che io abbia letto negli ultimi sei mesi. I miei complimenti.
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@->Falecius: Concordo con Ipazia. Il Nunc est bibendum è apologia di regime. Per tranquillo non intendevo mica dire che fosse un barbogio addormentato. Era simpatico, Orazio, non lo metto in dubbio. Ma perfettamente allineato con quello che il regime gli chiedeva. Si trattò certemente di una adesione spontanea, sentita e non ipocritamente calcolatrice, anche perchè, dopo quasi cent’anni di guerre civili, a Roma un regime simile era l’unica possibilità di sopravvivenza. Era poi un regime intelligente, quindi non chiedeva ai poeti di essere semplici megafoni. Ma Orazio, a ben vedere, non ha mai scritto qualcosa che potesse essere vagamente “fastidioso” o in contrasto con i desideri di Augusto. Rompeva più le scatole Ovidio, fattene un po’…
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Dunque…. mi par di ricordare che esista, a qualche parte, uno scritto di Orazio che ringrazia Mecenate per il dono di un poderino dalle parti di Frascati.
Lo scritto fa più o meno: ” si è avuto quel che si desiderava”.
Ecco: come compendio mi pare efficace.
Inchino e baciamano.
Ghino La Ganga
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Sarà che Cleopatra mi stava simpatica, ma Orazio apologo del regime lo trovo un po’ stronzetto.
Senza nulla togliere a “tu ne quaesieris” eccetera.
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@->Ghino la Ganga: già, ottenere quel che si desidera dona la felicità all’uomo… a Orazio è andata di lusso, pensa a Bondi, che per sperare di farsi leggere come poeta, deve fare il ministro. 🙂
@->Falecius: pure a me sta simpatica Cleopatra.
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