È divertente quando ti vengono a trovare amici che abitano altrove. Non solo perché li rivedi, e questo già ti mette di buon umore a prescindere; ma perché, per un attimo, mentre li accompagni in giro per casa tua, hai l’occasione ed anche l’obbligo di guardarla un po’ meglio, quella casa che tu hai sempre così tanto sotto gli occhi da non vederla più bene per ciò che è, perché l’abitudine è la forma più impenetrabile di velo.
L’amico arriva a bordo della sua macchinona nera, che, adesso che so chiamarsi, nella corretta pronuncia svedese, Sob, come un sospiro da fumetto, quasi quasi, nonostante la cilindrata grintosa, mi fa simpatia, perché noi ragazze di sinistra siam così, basta un piccolo particolare sfigatino per farci intenerire il core.
Il Veneto lo incuriosisce come un’esperienza antropologica: ogni tanto pare che ci osservi nel modo in cui il biologo guarda il microbo sotto il vetrino, annotando puntualmente le reazioni, o con l’occhio di un Montesquieu in cerca di materiale per novelle Lettere Persiane. Quello che lo manda in tilt sono le nostre strade, budellini interpoderali assunti al grado di arteria perché ogni tanto ci colano sopra un po’ d’asfalto, e in cui la segnaletica è distribuita con fantasia amena. Arrivato ad un bivio, in cui entrambe le direzioni portano l’indicazione “Treviso”, inchioda perplesso ai piedi del cartello, ho il sospetto che mediti se sia il caso di tirar fuori il cellulare e fare un foto da portare come prova agli amici lasciati nella regione d’origine; io di mio sorrido, sollevata che il federalismo sia ancora in fieri, perché, passasse l’obbligo della lingua veneta nelle indicazioni stradali, già mi immagino le frecce con su scritto solamente: “par de qua” e “par de là”.
Oltre alle strade, lo colpisce quanta gente ci circoli sopra: “Ma non fate altro che spostarvi, voi Veneti!”. In effetti, mi rendo conto, più che muoverci ormai ci mettiamo in coda. Del resto qui è normale, anzi, quasi scontato, che chi abita a Venezia lavori in provincia di Treviso, chi abita a Treviso abbia l’ufficio a Padova, chi sta a Padova abbia magari ufficio a Padova, ma clienti disseminati per tutti i restanti capoluoghi e capannoni costruiti nel mezzo di un niente dove non arriva nessun mezzo pubblico, per cui vive in macchina lo stesso; e poi, finito il lavoro, per svagarsi è un nuovo pellegrinaggio, perché le discoteche sono a Jesolo, i multisala fuori nelle campagne, i teatri e i locali trendy nei centri città, ma le paninoteche e i ristoranti e le pizzerie imboscati un po’ dove capita e mai vicini a casa, per cui via, tutti in fila, agitandosi come le palline del flipper ma con la velocità dei treni merci, per stradine e stradette perennemente ingorgate al limite del collasso. Con occhio clinico da ex amministratore locale, gli edifici che vede sporgersi lungo la via spesso lo perplimono, come Totò: “Azz, ma le distanze le hanno rispettate?”
“No – confermo- infatti il Tal dei Tali l’hanno condannato poche settimane fa a otto mesi per abuso edilizio…”
“Ah ecco, mi pareva. Sospeso dal servizio?”
“Ma manco per i tacchi. È ancora al suo posto all’ufficio tecnico, con tutti gli onori.”
“Ah, però. Certo, strano posto, il Veneto.”
L’arrivo in città è di quelli che restano impressi: troviamo parcheggio giusto sotto un negozio di paramenti sacri: una vetrina che è un tripudio di mitre dorate e camauri di un lusso medioeval preconciliare: mancano giusto le pantofoline in zibellino firmate Prada, ma insomma, al massimo qui si serve un vescovo, certe robe bisogna lasciarle ancora al Papa, ohè. L’amico guarda affascinato l’esposizione, poi la chiesa che immediatamente riconosce in stile “qualchecento” di non meglio precisabile ascendenza, infine nota il portone aperto e il corteo di scout in bragozze e fazzolettoni che stanno uscendo dal patronato.
“Già, qui da voi le chiese sono ancora aperte normalmente..c’è gente che ci va..da noi le aprono giusto la domenica mattina, forse…” E non aggiunge: “Strano posto, il Veneto”, perché è troppo educato per rimarcarlo di nuovo.
Entriamo nel centro di Treviso, inerpicandoci a piedi per una salitina linda e medievale, che si apre in un piazzetta spazzata di fresco e poi si sperde in un intrico di calli: tutto è silenzioso, pulito, il selciato in pavè con sampietrini tanto perfetti che paiono aver ricevuto l’ordine di mettersi in posa da soli e restare lì fermi per l’eternità, o arriva un ronda a menarli.
“Però, tenuto bene…qui la crisi economica mi sa che l’han ancora sgavagnata.” dice l’amico, e subito chiarisce il lemma, che significa, nel dialetto suo, “sfangata, scampata”.
“Sì, be’, fino ad un certo punto – replico io – più che altro sono tutti zitti e buoni, sperando che passi…”
Ma a guardarsi in giro, mi rendo conto che l’impressione è quella. È tutto così perfettino e pittoresco che mi pare di trovarmi in un angolo di Salisburgo o per un vicolo di Kitzbuhel, o meglio ancora di essere una delle statuine di ceramica che nei Simpson Nel Flanders colleziona con maniacale cura ed entusiasmo. Ci sono gli scorci, le case che danno sul fiume, l’acqua che scorre e persino un cane che ci guarda sornione, facendo capolino da una porta socchiusa per lasciar intravvedere una quinta d’interno, come a teatro. È tutto bello, ed è tutto animato, con la gente seduta nei caffè in piazza, dove ci sediamo anche noi per sbafarci un doveroso bignè: i bambini trottolano via con palloncini in mano, lo struscio preserale è fatto di professionisti in cappotto dall’aria molto impegnata anche se è sabato e ragazzotti/e firmati Gucci originale da capo a piedi, che non hanno mai avuto altro dovere pressante in vita loro se non l’incipiente nottata in discopub. Non ci sono le ronde, ma nel giro di pochi metri si incrociano tre camionette dei vigili, bardate in tenuta antisommossa, che tutti guardano con sorridente complicità.
Dovrebbero rassicurare, immagino, ma a me, lo confesso, lasciano dentro invece una inquietudine vaga e persistente, che in realtà non ha nulla a che fare con loro: è che continuo a guardare la piazza, il cielo di un azzurro terso già primaverile, l’ultima lama di luce che carezza i tetti, l’ordine meticoloso di quello struscio e di quella gente che mi pare muoversi in maniera non tanto misurata, quanto trattenuta, e mi sembra di non stare guardando una città, ma una rappresentazione di ciò che si pensa la vita debba essere. Non il brulicante e vitale affresco medioevale del Comune con arti e mestieri, no: piuttosto il lezioso manierismo didascalico delle statuine di ceramica, appunto, perfettamente descritte ma fredde, cesellate in gesti eterni però senza scopo: pietrificate in un canone che non ammette variazioni né la minima elasticità d’esecuzione.
Quando entriamo nel museo, Canaletto e Guardi ci attendono, e soprattutto, accanto a loro, ci sono i quadri dei loro epigoni e imitatori più dozzinali, è quasi una rivelazione: guardo le tele, le minuziose fotografie in pittura di feste e grandi processioni per accogliere ospiti illustri, con i cieli sempre azzurri appena solcati da acconcie nuvolette, le barche agghindate a festa, il popolo che gesticola in maniera pittoresca e non già più popolare, mi sembra che fra il dentro e il fuori, fra la vita e l’arte sia caduta ogni barriera. Potrei spalancare una finestra e i personaggi nei quadri, smesso qualche mantello di foggia desueta, sono gli stessi appena incrociati sulla via. Se Canaletto dà il brivido di uno splendore dorato e ancor caldo e Guardi lascia intuire nella sartia di una vela strappata, in un muro sbrecciato, in una finestra che s’apre su una stanza oscura l’inquietudine di un mondo alla fine, i minori invece si ingessano nella rappresentazione di una umanità di maniera, vincolata allo stereotipo perché incapace di pensare a qualcosa di alternativo ad esso. Sono puliti, precisi, probabilmente in preda ad una forma negata di terrore, al pari degli animali che, quando fiutano un pericolo incombente, invece di scappare si paralizzano. Stanno lì, fermi, zitti e immobili, sperando di sgavagnarla. Come noi.
Brava, hai superato te stessa! Anche io, che ci vivo ormai da tanti anni, non posso fare a meno di continuare a mormorare tra me e me: “strano posto, il Veneto”. E confesso che, per quanto ci provi, non riesco proprio ad affezionarmici.
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peccato non abbia visto gentilini arringare i vigili…
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Osta,l’emozione d’esser parte d’un post mica si può spiegare bene!
Non è male,il Veneto che s’è visto: c’è di peggio, in qualunque parte d’Italia.
Quanto alla mostra ,concordo: è risultata interessante al pari dello spaccato socio-urbanistico che s’è avuto modo di osservare fuori dall’esposizione.
Un grazie di cuore, oltre al consueto inchino e baciamano, stavolta doppio perchè l’occasione merita.
Ghino La Ganga
per Pellenera:
Gentilini non l’ho visto fare alcunchè, salvo notare la civetta d’un giornale che riferiva d’una sua querela a un extracomunitario che l’aveva minacciato .
Lo considero un modesto dilettante: quand’ero assessore,offrivo a mie spese champagne al primo reparto di vigili che mi sgombrava i nomadi.
Che la Ninfa padrona di casa conceda la Sua amicizia anche a beceri reazionari come il sottoscritto,sorprende anche me.
Stai bene.
Ghino La Ganga
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In effetti, quella della cassa di champagne ai vigili non la sapevo. E’ parecchio bruttina, neh. Fossi stata io la corrispondente al tuo paese, con una storia del genere ti martellavo sul giornale per mesi.
Come un reazionario come te possa andare a vedere mostre con una rompiballe di sinistra come la sottoscritta, anche a me lascia sorpresa.
La vita è strana, come vedi, non solo il Veneto. 🙂
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sto cercando di concentrarmi sui miei ricordi di Bellotto e sono dubbioso sul giudizio che dai dell’umanità dipinta dai “minori”. Sarà che ho in mente i suoi dipinti di ambiente tedesco e le mostre bisognerebbe vederle. Ma che bel post Galatea…urge una polverosa immersione nei maestri del colore..
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🙂
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Che fosse un cispadano l’avevo intuito, ma addirittura Ghino!
Io le prime rotonde d’Italia le vidi costruire, nella terra ubertosa di Treviso, mentre andavo in vacanza tutte le estati in Cadore.
La storia dei cartelli è molte volte vera: ne posso dare testimonianza anche recente.
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quando leggo questi tipi di post resto sempre colpito del fatto che le persone “sentano” il caos in cui viviamo (non solo noi veneti, vi sono anche altre zone d’italia e del mondo che abitano nello sprawl) ma non sanno darsi una risposta e non riescono a capire come sia potuto accadere. oppure si danno delle risposte molto semplici: “questioni di distanze”. eh sì, fosse stata rispettata la “distanza” sicuramente abiteremmo nel giardino dell’eden 🙂
non voglio criticare e accusare nessuno… è una situazione che ho vissuto parecchie volte, la prime cercavo di spiegare ma capivo quasi subito che era inutile e perdevo tempo io, sia chi ascoltava. che poi, l’interlocutore, fosse uno qualsiasi o un amministratore non c’entrava, anzi, l’amministratore era ancor peggio, ti guardava con la faccia del tipo: “tu non hai capito niente della città e del territorio”. salvo il fatto che, quasi sempre, 10 anni dopo iniziano a darti ragione e la domanda (e non so darmi risposta) che mi faccio è la solita: com’è possibile tutta ‘sta distanza tra chi progetta, governa e abita il territorio?
robert
ps: sempre molto utili i tuoi post sul territorio veneto
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ciao, bello bello il post. io vivo in veneto da 4 anni. lo descrivi proprio bene, anche se pd, dove sono io, è meno linda e imbalsamata di tv. purtroppo, nonostante affetti ed amicizie, non mi ci sto trovando bene. non riesco a sentirmi a casa. basta uscire dalla cerchia di amicizie e passeggiare in centro, o quando si va al supermercato o nei luoghi pubblici, che provo un forte senso di disagio. pensavo fosse per causa mia, ma vedo che non e’ cosi’. saluti!
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e la mostra com’era? pensavo di farci una capatina sabato…
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@->Juni: Caruccia assai.
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Non conosco Treviso, o meglio: la conosco solo tramite ‘Signore e Signori’ e, mi pare, già allora Risi (o meglio: il suo sceneggiatore, di cui mi sfugge il nome, ma che era di Treviso) si era reso conto di come la piazza in questione fosse un palcoscenico e la gente che vi si aggirava stesse solo recitando. Comunque, un altro splendido post. Grazie
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per weissbach:
hai ragione,è chiaro che un cispadano come il sottoscritto non può apprezzare appieno i vedutisti del settecento,Sua Signoria la Ninfa era infatti imbarazzata dal mio anello al naso.
Quanto ai cartelli: la romagna ove vivo non scherza nemmen lei,se ci siete stati lo sapete.
Stai bene.
Ghino La Ganga
per Lineadisenso:
vale quanto sopra: venite in Romagna, poi ne riparliamo.
Per intanto, sentitevi ” Walzer transgenico” di Elio e Le Storie Tese, che in qualche modo può fungere da aperitivo.
Stai bene.
Ghino La Ganga
per alessandro:
in effetti “Signore e signori” era di Germi, sceneggiato da Age,Scarpelli ed altri.
Un Caffè nella piazza – ove Sua Signoria la Ninfa ed io ci siam sbafati in bignè – reca appunto il nome del film, celebrato all’interno con locandine poste accanto alla toilette.
Ho avuto modo di leggerle accuratamente,per tentare di distrarmi mentre trattenevo l’imminente minzione dopo aver ceduto il posto ad un babbo con bambina, recante berretta in lana padana, che educatamente mi ha ringraziato all’uscita “grazie,signore!” su invito paterno.
Città civile, Treviso.
Stai bene.
Ghino La Ganga
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@->Ghino: Con l’anello al naso, in effetti, saresti carino da morire. Però da queste parti fa troppo alternativo di sinistra. Col rischio che devo salvarti da qualche ronda che ti vuole menare. Occhio.
😉
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