Ambrosoli, gli eroi e i comunisti immaginari

uomo al guinzaglio

Ieri sera, sorpresa da un temporale, non dovevo stare a casa, ma mi ci sono ritrovata lo stesso. Così, a zonzo per i canali, sono capitata su La7, che da un po’ di tempo è un refugium peccatorum, perché, nello svacco di una tv che è inguardabile e inudibile, almeno ogni tanto mette in onda qualche programma decente. Difatti c’era Antonello Piroso – che può anche non stare clamorosamente simpatico, ma di questi tempi avercene – il quale, unico fra i giornalisti italiani del video, invece di ipnotizzarsi sul G8 a ripetere il mantra dell’“Ammazza quanto siamo stati fighi ‘sta botta, uè”, si è ricordato che oggi era il trentennale della morte di Giorgio Ambrosoli, avvocato fallimentare milanese fatto ammazzare da Michele Sindona per aver messo fine ai suoi maneggi finanziari.

A parlare di Ambrosoli, di fianco ai giornalisti, c’era il figlio Umberto, un pacato signore che deve avere la mia età, e nella sventura che lo ha colpito si dice persino fortunato, perché, al contrario di altri figli di vittime del terrorismo o della mafia, può contare su un processo già celebrato, che ha individuato i mandanti e i moventi degli assassini; anche se ammette che il padre non fu affatto aiutato dallo Stato e poco dalle istituzioni, e fu ucciso perché solo a combattere contro un sistema capillare e ramificato, non parlava con astio e non cadeva nella giaculatoria qualunquista: dal padre deve aver ereditato, oltre al cognome, la sobrietà e la capacità di tenere la schiena diritta.

Tutto il dibattito, a dire il vero, era così: asciutto. Niente concessioni al patetico, al ricordo strappalacrime, alla carrambata, ma neppure la digressione sui massimi sistemi un tanto al chilo: s’è parlato nel merito di un caso, presentato la storia di un uomo che si è visto dare un incarico e, da incaricato, l’ha voluto portare a termine secondo i dettami della logica e della coscienza, non perché ci tenesse a fare l’eroe, o si volesse ritagliare chissà che ruolo, ma perché era un professionista e si comportava come tale, cioè con professionalità.

La professionalità di Ambrosoli è stata più e più volte sottolineata, così come il suo distacco dalla “politica”, o meglio, il suo non essere incasellabile in uno degli schieramenti di allora (di allora?): non democristiano e non comunista, l’unica sua simpatia politica era una blanda affiliazione, in gioventù, al Partito Monarchico: insomma, un avvocato grigio e borghese, che teneva in cuor suo forse ancora per il Re. Nel dibattito questa cosa – non la simpatia per il Re, ma il distacco dai partiti – è stata più volte sottolineata, con enfasi. Devo dirlo, è stata una cosa che mi ha stupito, su cui ho riflettuto a tv spenta: che ci fosse dietro una rivendicazione forte da parte del figlio è comprensibile, ma l’esigenza di sottolineare che Ambrosoli non era un “comunista”, anzi non era neppure latamente di “sinistra”, anzi non era proprio di nulla perché, in buona sostanza, non si sa proprio per chi votasse, era ribadita da tutti, persino da quelli che avevano alle spalle una storia di sinistra, con veemenza. Pareva quasi che bisognasse ficcarlo bene nella zucca del telespettatore eventualmente distratto che Ambrosoli non scelse di fare quello che fece, cioè, in pratica, difendere la legalità, perché uomo di un qualche “partito”, men che meno perché aderente ad uno dei “Partiti” per antonomasia.

Lo confesso, di tutta la serata, è questo atteggiamento ad avermi colpito di più. L’ho trovato antropologicamente interessante, e degno di nota. Rilevatore di una forma mentis che non tocca solo il caso dell’avvocato Ambrosoli, ma l’Italia e gli Italiani tutti, oggi come allora, e che è il corollario perverso, se uno ci pensa, di questa eterna lotta fra Guelfi e Ghibelini in cui noi trasformiamo la politica, rimandoci impelagati, in qualunque secolo ci tocchi vivere. Da un lato abbiamo un programma che, per presentarsi ai suoi telespettatori con le credenziali “giuste” dell’imparzialità, dipinge come eroe “perfetto” un uomo che non ha mai preso una specifica posizione politica, e le uniche simpatie che gli si possono attribuire in quel campo sono vagamente destrorse ma comunque fuori dal tempo e così ancien régime da non contare, in pratica, una cippa. É lui il prototipo del “servitore dello Stato” imparziale, perché martire senza tessera. Che è giusto, per carità, e lodabile, ma sottintende però, anche se forse solo in maniera inconscia, che gli altri eventuali martiri, quelli che ci hanno rimesso la vita, sì, ma perché facevano anche politica, oltre al loro mestiere, lo siano un pochino meno, perché comunque erano sempre uomini – e donne – “di parte”. Come se bastasse, in una ricostruzione di questo tipo, aver in tasca una tessera, o aver manifestato una simpatia specifica verso un’area (destra o sinistra non ha importanza) per aver automaticamente abdicato a parte della propria onestà intellettuale e libertà di manovra. Il che è una cazzata emerita, per dirla in maniera semplice e comprensibile a tutti, ma viene giù diretta diretta dal nostro intendere i partiti non come libere associazioni di esseri pensanti ed autonomi, ma come consorterie o come Chiese, circoli chiusi in cui si aderisce ad una Fede e s’incontrano gli amici Guelfi o quelli Ghibellini, per tramare tutti assieme sgambetti agli avversari di sempre.

Nel nostro sistema il cane sciolto non solo non è apprezzato, ma non si contempla proprio che esista: se resti solo, è il sintomo che sta per arrivarti una pallottola in testa. Ma anche le appartenenze, in questa Italia strutturata per gruppi, son variabili e aleatorie, e basta un niente per vederti stracciare l’iscrizione al tuo club e trovanrti annoverato d’ufficio in quello fino a ieri avversario.

Ad Ambrosoli, quando si mise in capo di indagare a fondo sulle società di comodo di Sindona, ricorda il figlio, diedero del “comunista”. Anche su questo ci sarebbe da ragionare, tanto, e, mi verrebbe da aggiungere, non solo da Sinistra. Perché anche questo è un segnale della gabbia invisibile in cui ci ritroviamo a vivere, tutti: siamo una nazione in cui per prendersi del “comunista” basta essere un tantinello onesto, o anche solo un po’ rompicoglioni. Così chi si batte non solo contro il sistema, ma anche all’interno di esso per farlo funzionare come dovrebbe diventa un pericoloso sovversivo, un rivoluzionario, un tizio da cui ci si deve guardare perché non si sa mai cosa possa architettarti domani, è una variabile impazzita che ragiona con logica e quindi può colpire di qua e di là, e alla fin fine diventa “comunista”, perché, come direbbe Brecht, si finisce dalla parte del torto in mancanza di un altro posto in cui mettersi .

Ora io capisco che alla “Sinistra” questo tipo di vulgata possa aver fatto piacere, e anche comodo, in taluni frangenti: ma non capisco perché dall’altra parte l’abbiano così supinamente accettata e ancora adesso se ne glorino quasi, e ogni volta che qualcuno – neanche più Ambrosoli, basta un Fabio Volo – fa tanto di dire che insomma, così non va, il “comunista” parte con il pilota automatico, e la discussione si affossa, esattamente come spesso bastava un “fascista”, dall’altra parte, per perdere ogni possibilità di argomentare.

A me fa tristezza. E mi fa tristezza anche che il povero Ambrosoli diventi il paradigma dell’eroe perfetto perché è dimostrabile che non era iscritto a nulla. O che Borsellino sia da considerarsi eroe nonostante da giovane fosse missino (personalmente non condivido, ma sono fatti suoi), o che altri siano considerati eroi solo da una parte o dall’altra, perché avevano o meno in tasca qualche tessera e allora se sono dei nostri li santifichiamo, se sono dei loro chissà che ristorni avevano a far i martiri, neh. Continuo a pensare che le brave persone sono più o meno brave perché ragionano con la loro testa, e vanno misurate per ciò che fanno o non fanno, da qualsiasi parte poi decidano di schierarsi.

Forse sono io che sono scema, eh.

PS. Lo so, il sabato in internet non c’è un cane. Però un dibattito su tutto ciò sarebbe anche interessante, prima o poi.

11 Comments

  1. Si può essere una persona per bene e non “appartenere” a nessun partito? Certo. Va detto però che al tempo di Ambrosoli l’appartenenza era quasi un dovere, un obbligo morale. Il mondo era diviso in blocchi. L’Italia era divisa in blocchi. Si “doveva”, per forza, appartenere a qualcuno oppure scattava l’inevitabile condanna di “qualunquismo” e buonanotte ai suonatori.

    Era importante poi anche il “come” si apparteneva al proprio blocco. Le accuse di scarsa ortodossia (specie a a sinistra) erano equivalenti ad una bolla di scomunica.

    Oggi, per quanto mi piacerebbe “appartenere” a qualcuno o a qualcosa trovo l’impresa particolarmente difficile. Se poi capita che un militante Pd, a via di sentirsi dire che “bisogna sfondare al centro” dai vari Rutelli, Letta, Binetti ecc. fraintende e diventa uno stupratore seriale… direi che stiamo proprio a posto.

    Ciao. Leftorium©

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  2. “Il sabato in internet non c’è un cane”.
    Io ci sono soprattutto il sabato…
    Però oggi sto facendo le valigie; e al tema ho poco da aggiungere, se non che sottoscrivo in pieno.
    Buona estate, Galatea.

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  3. Quoto Leftorium. Anche il misurato servizio su RaiNews24 h è stato interessante e senza mostrare nulla fra le righe. In uno spezzone del film di Placido, <i<Un eroe borghese Sindona incolpa della sua situazione giudiziaria i comunisti. Sembrava di sentir parlare il Presidente del Consiglio. Roba da brividi.

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  4. Ti tiro le orecchie per aver trasformato un argomento interessante nella solita polemica “siamo comunisti e ci tirano le pietre”.
    Di fronte al malcostume italiano non si deve transigere alla ricerca del “meno peggio”, ma insistere per eliminare alla radice la collusione fra interessi pubblici e privati, e soprattutto obbligare tutti coloro che hanno delle piccole o grandi responsabilità nella Pubblica Amministrazione a rispettare un’etica professionale, come migliaia di “dipendenti” (come li chiama Grillo) in tutta Europa.
    Non so se il sistema delle lobby americano può essere una soluzione – o un momento di transizione – ma almeno si fanno le cose alla luce del sole.
    E forse dovremmo avere una televisione, anche locale, che invece di rievocare personalità integerrime, allontanate dai loro compiti perché morte ammazzate, stima e premia chi si fa oggi un mazzo tanto per fornire un servizio decente ai cittadini, senza pensare troppo alla carriera o al loro credo politico.
    Marco Travaglio non è un “comunista”, non è neppure di sinistra. Avercene!

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  5. Goody, guarda che il senso del post mio, era esattamente il contrario di quello di cui mi accusi. Sono la prima che non accetta il vittimismo di “ci tirano le pietre perché siamo comunisti”. Piuttosto vorrei capire perché se uno comincia a pretendere un pochina di etica, in politica, negli affari e nella pubblica aministrazione, automaticamente gli dicono che è “comunista”. Travaglio, infatti, non è comunista, come non lo era neppure Montanelli, che però morì dopo essersi sentito apostrofare come il “compagno Indro” (geniale trovata della Dandini!). C’è qualcosa che non va, ne converrai.

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  6. A questo mondo gli eroi hanno un unica caratteristica comune: sono morti.
    Fintanto che erano in vita ero solo rompicoglioni oppure, secondo il nuovo Zanichelli, comunisti

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  7. La politica un’eterna lotta fra Guelfi e Ghibellini?!? Magari!!!
    La politica italiana assomiglia piu’ al processo del lunedi’ e il dibattito politico uno scontro fra tifosi. Le conseguenze poi sono identiche: slogan, striscioni, lancio di fumogeni e nessun fatto, proprio come nel gioco del balone.

    Anche la questione degli schieramenti mi sembra un po’ sospetta.
    L’Italia mi ricorda la situazione di certi paesi africani, dove ci sono elezioni finto-democratiche e la consacrazione di un presidente-fantaccino, pero’ il paese viene mandato avanti da logiche completamente diverse e occulte, dove gli attori principali sono i colonizzatori e le etnie.
    Allo stesso modo in Italia c’e’ questo gioco di facciata dei partiti, di identificazione dell’appartenenza agli schieramenti, mentre cio’ che conta e’ l’appartenenza al clan. Ambrosoli dava scandalo non perche’ non si sapeva chi votasse, ma perche’ non si sapeva a quale clan rispondesse. Il clan dello stato?!? non scherziamo, non esiste un tale clan.

    La questione del comunista infine.
    Dare del “comunista” e’ diventato un modo per mandare avanti la discussione (o per chiuderla) senza slogarsi una circonvoluzione cerebrale.
    E’ un modo per identificare la squadra avversaria. Tirare fuori la paroletta magica “comunista” e’ un modo conciso per dire “e’ inutile discutere con te sul quel rigore rubato, sei della squadra X quindi giurerai sulla tomba di tua madre decomposta che il rigore era valido”.
    E’ per questo motivo che l’etichetta “comunista” viene appiccicata sul petto di qualsiasi fascistone che pero’ fa il gioco della squadra avversaria.

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  8. Ho l’impressione che la vostra percezione sull’accusa gratuita di “comunismo” possa dipendere da dove vivete: io vivo in Toscana e, dato che qui il sistema di potere è oggettivamente e storicamente di sinistra, in genere si rimedia l’accusa opposta: a chiedere trasparenza “fai il gioco di Berlusconi”. La conclusione (disperante, qualunquista, quello che volete, le etichette non mi spaventano) è che sono (siamo) tutti uguali, ovvero tutti compartecipi dell’italico genio.

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  9. Non ho visto il documentario, ma conosco abbastanza bene la vcenda.
    Concordo che di eroi se ne possono trovare in ogni partito o tribù, ma trovo corretto insistere sull’ isolamento di Ambrosoli perchè è una caratteristica importante della sua figura.
    Tenere la schiena dritta quando è in gioco la propria vita è dura per tutti, ma lo è ancora di più per chi sa di non avere alle spalle nessun gruppo di potere.

    Quanto alle etichette siamo d’accordo: ci si da del comunista o del fascista come ci si potrebbe dare dell’ “xxxista di m.” allo stadio.Purtroppo il livello medio delle discussioni politiche è quello. Almeno nei bar di provincia (Clara esclusa, se no mi picchia) e nei talk show nazionali.

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