La salute ed il potere

hermes caduceo

L’ospedale è una fuga di corridoi che si inseguono, si intorcolano, girano a gomito e poi sbucano in scale, scalette, scaloni che paiono ogni volta nuovi, tanto da chiederti se non siano come quelle della Hogwart di Harry Potter: come ti volti, cambiano disposizione.

Il mio medico mi ci ha spedito per fare un esame, non ho capito quanto urgente. Lo odio, il mio medico, perché quando mi ordina qualche controllo è sempre così, imperscrutabile.

Ma c’è qualcosa di grave?”

Mmm, no.”

Be’, allora aspetto…”

Mmmm, no, è meglio che lo fai subito…”

Ma non me lo danno l’appuntamento, subito, se non è urgente..”

Mmm, allora facciamo così, ti metto il timbro urgente, così lo fai…”

E ci aggiunge un sorriso punico che può voler dire tutto e nulla, e non sai se è per minimizzare qualcosa che sospetta grave ma non ti vuol dire, o perché convinto che sia una stupidaggine davvero, e non vuole farti angosciare per uno scrupolo suo.

Sia come sia, eccomi lì, a vagolare senza meta fra i vari reparti, che è come vagolare per la main steeet di un paesino del West in un film di Sergio Leone, caldo e non un’anima in giro, solo che invece dell’odore della polvere da sparo c’è quello del disinfettante da ospedale, una zaffata continua di menta andata a male o limoncello scaduto nel frigo: i disinfettanti sanitari i microbi non li ammazzano, li fanno scappare per la puzza.

Svoltando l’ennesimo cantone, capisco subito che ho sbagliato: il corridoio scalcinato che ho percorso fino ad ora si trasforma in un reparto nuovo di pacca, con un brivido d’aria condizionata che ti accoglie come alito di paradiso. I muri sono imbiancati di fresco, il pavimento lucido, alle pareti, improvvisamente, si materializzano cartelli con su scritte delle indicazioni utili (tipo: dottor Qualchetale, chirurgia toracica, di qua; dottor Santotizio, ecocardiologia, dall’altra parte) e attorno al gabbiotto della accettazione c’è un tacchettare di infermiere indaffarate, ma sorridenti e persino fighe.

Scusi – chiedo intimorita – cercavo il reparto di ginecologia”

No, è al piano superiore, segue la scala, giri a destra, poi rigiri a sinistra, poi va diritta per dieci metri…” chiarisce una delle claudieschiffer in camice.

Alla terza giravolta della spiegazione virtuale mi sono già persa, capisco che se vorrò uscirne viva dovrò fabbricarmi lungo il corridoio un paio d’ali di cera modello Icaro. Sto già meditando su come procurami delle penne d’uccello per la bisogna, quando alle mie spalle sento un soffio:

Dottoressa *****!”

Mi volto. Dinanzi a me c’è una donna minuta. Ha il volto stanco, ma per il resto è perfetta: capelli raccolti in uno chignon, trucco leggero, camicia e pantaloni che, nonostante siano di lino, cadono senza una piega, sorriso velato da un’ombra di tristezza, ma educatissimo. Aggiungendo panico al panico, tento di recuperare nell’archivio della memoria un nome da associare a quel volto. Dopo qualche attimo di stand by il cervello ci riesce: è la signora ****, la moglie del Vecchio Barone.

Signora Ludovica! – faccio stupitissima, perché la Signora ha abitudini precise, che comprendono solitamente viaggi in giro per il mondo e lunghe soste a Cortina, nelle villa avita in Toscana o a Rapallo, ma non stazionare in un reparto ospedaliero – Ma… cosa ci fa qui? Sta poco bene?”

Lei tira un sorriso sul volto: “No, io fortunatamente sto benissimo… è Guido che sta facendo accertamenti… sa, il cuore…”

Trasecolo.

Caspita, mi dispiace! Non ne sapevo niente! Giulia non me l’ha detto…pensavo che il professore fosse in vacanza..”

Lei si morde impercettibilmente il labbro, come se d’improvviso si fosse resa conto di aver detto troppo; si ferma per un attimo perplessa, forse valuta la situazione sua e la mia, sospesa tra il bisogno evidente di sfogarsi con qualcuno e l’opportunità di farlo con una persona che fa pur sempre parte, anche se in maniera molto lata, dell’entourage del marito, contravvenendo quindi ad un suo specifico ordine. Ma la voglia di parlare ha la meglio e poi sa bene che io, in università, non sono ormai altro che una presenza occasionale e avventizia, praticamente una lontana cugina che di tanto in tanto passa a salutare o s’invita al banchetto di un qualche matrimonio.

No, ha voluto lui che non lo si dicesse a nessuno…non gli garbava. Ha paura che lo considerino già con un piede nella tomba…quando invecchiano gli uomini sono tutti così: insicuri.” E sorride, con quell’affettuoso distacco che si riserva ai vecchi cani di casa e ai mariti sposati da molti anni.

Nel corridoio, una porta si apre: il Vecchio Barone esce, mentre il medico all’interno lo accompagna sull’uscio, deferente: è un giovane dottorino, addetto alle ecografie ed agli esami di secondaria importanza, ma si vede da come suda che il Primario deve avergli ben inculcato in testa che quel paziente va trattato come si tratta un’autorità, e lui lo coccola e lo incensa con tutta la buona volontà d’uno scolaretto diligente.

Ludovica..” chiama, con voce vagamente lamentosa.

Poi s’accorge della mia presenza, chiama le vertebre sull’attenti e aggiunge, con un tono immediatamente più virile: “Ah, Dottoressa *****!”

Si picca di mantenersi sempre identico, il Vecchio. La pelle è una cartapecora color bronzo, perché si sa che il Barone quando non è in Università o ad acchiappare aerei per convegni, veleggia per i sette mari, o nuota o scia; la faccia, sciabolata di rughe, è come al solito impenetrabile nel suo sorriso etrusco latamente carognesco, e gli occhietti sono due capocchiette di spillo che si appuntano sulle cose, le delineano come un piccolo veloce scanner e poi, dopo averle archiviate, passano ad altro. Però ora, nella luce al neon del corridoio ovattato, la curva delle spalle sembra un po’ più pesante del consueto, e l’abbronzatura nasconde, sotto, una sfumatura di pallore secco, appena accennato, invero, come appena un’ombra è la paura che leggi in fondo allo sguardo.

Quanti anni ha, il Barone? È la prima volta che me lo domando davvero. Lo abbiamo sempre chiamato il Vecchio, ma non è stata l’anagrafe ad imporre il titolo: il Barone è un Venerabile Anziano per nascita, non si riesce ad immaginarlo giovane come non si riesce ad immaginarlo che Barone: come il suo conterraneo Tagete è nato vecchio e già edotto in tutte le arti. Risalire alla sua data di compleanno è un’impresa, perché, con una punta di vanità, non la mette neppure nei risvolti dei suoi libri, e non la festeggia mai, ma, a conti fatti, deve essere coetaneo di mio padre, forse anche con qualche anno di meno: salito in cattedra quand’era infante, non è ancora stato pensionato d’ufficio, il che vuol dire che non arriva ai settantacinque. Qualsiasi sia la sua età, ora la dimostra tutta, anzi, il sorriso tirato che si impone di sfoggiare adesso che mi ha riconosciuto gli regala qualche annetto in più.

Anche lei qui per qualche controllo?”chiede.

Si sforza di essere cortese, ma lo si sente imbarazzato, come un bimbo sorpreso a fare qualcosa che nessuno si aspetta da lui; infastidito, ma non dal fatto che io sia lì, e l’abbia visto, no: è proprio che lui ci si sia fatto trovare a dargli noia: come se la sua vita di Gran Barone e una corsia d’ospedale fossero due universi paralleli che non erano destinati a tangersi mai, e aver consentito loro di entrare in contatto fosse stata una svista imperdonabile, una debolezza di cui ci si deve vergognare.

Oh, sì, ma ho sbagliato reparto, devo andare in ginecologia. Del resto, si sa, ogni tanto bisogna fare il checkup annuale, no?” dico con l’intenzione di lanciargli una ciambella di salvataggio.

Lui ci si aggrappa come ad un naufrago: “Eh, certo, certo, il checkup annuale! Anche io, come vede… che vuole, questi mediconzoli son così pignoli! Se non venivo a farlo, non mi lasciavano più campare in pace! Per fortuna che ‘un gli si dà soddisfazione!”

Ride. Non l’ho mai sentito ridere prima: il Vecchio Barone, di solito, è come l’oracolo di Delfi, va per accenni: quando proprio si sbilancia, manda fuori un ghignetto cattivo che dura pochi secondi e scompare, tanto che subito dopo ti domandi se c’è stato davvero o non l’hai sognato tu. Invece stavolta ride forte, per convincersi di essere molto, molto, molto divertente e divertito. Ma gli occhietti, puntati su di me come due calamite, non ridono: sono scuri, bui ed impauriti, e paiono solo dire: “Ti prego, fammi capire che starai zitta, che non dirai a nessuno di avermi visto qua, in queste condizioni.”

Io gli sorrido di rimando, per fargli intendere che non ho nessuna intenzione di violare un segreto, di cui, del resto, non mi importa granché.

Figuriamoci se lei darà mai soddisfazione a qualcosa, professore.” celio.

Lui china il capo, con un cenno di assenso che invero è puro e semplice sollievo.

Segue un saluto frettoloso. Vedo di sfuggita, mentre imbocco una nuova giravolta di scale, la signora Ludovica che gli prende la mano, come farebbe per un nipotino testardo, e lui, cui crollano improvvisamente le spalle e il profilo diventa ancor più affilato, che si afferra a a braccio della moglie, come fosse una boa cui aggrapparsi, in mezzo ad un gran mare in tempesta. Lo immagino percorrere il corridoio lento, passo dopo passo, lui abituato ai suoi corteggi infiniti di assistenti, dottorandi, studenti e studentesse che scodinzolano e sgomitano per meritarsi un blando cenno di riconoscimento. So quanto le ama, quelle teorie di famigli che lo seguono per ogni dove e che lui pretende di avere sempre attorno perché devono fargli compagnia e al tempo stesso servire da monito ai colleghi e da perenne promemoria che lui può tutto ciò che vuole. Ma lì dentro, adesso che si sente solo ed è fragile, non si può far seguire da quel nugolo di gente che normalmente usa come barriera, come schermo fra sé e il mondo e come continua conferma di ciò che è e possiede. Non possono essere lì perché lo vedrebbero senza forza, impaurito, basito di fronte al male, titubante: insomma, umano. Non si può mostrare loro debole, o li perderebbe per sempre, perché è la sua forza che li tiene attorno a lui.

Il potere dà tante cose, sì, ma non ti concede neppure un raffreddore.

18 Comments

  1. @->diego: La “cultura” non aiuta a superare o anche ad affrontare con stile la paura della morte, o la malattia, Diego. Di fronte a queste cose, purtroppo, ci ritroviamo tragicamente soli.

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  2. non so credevo ad esempio che seneca o montesquieu (chissà come si scrive) fossero d’aiuto; comunque, allora, questa cultura a che serve, solo per una brillante conversazione? hanno forse ragione, quelli che reclamano la filosofia del “fare”, in contrapposizione alle fumisterie degli intellettuali? no, carissima, una cultura vera, deve plasmare l’anima, altrimenti avrebbe ragione chi, solo al sentirla nominare, sentiva la voglia di metter mano alla pistola; certamente il barone è espressione di quella cultura burocratica e costosa che pesa su noi contribuenti, ma quella vera, deve essere qualcosa che ti cambia, se no non è cultura

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  3. @->Diego: No, Diego, siamo giusti: di fronte alla morte, o alla sua concreta possibilità, la cultura non ha poi tutto questo potere. Può aiutare ad affrontare la situazione, ma non è un rimedio alla paura, e sicuramente non la scaccia. Il Barone sopra descritto, per altro, non si comporta “male”: si dimostra semplicemente umano. E’ vecchio, è solo, ed ha scoperto di essere ammalato. Ha paura, e si appoggia alla moglie. Non vuole che lo si sappia perché conosce troppo bene il mondo per sapere che, al minimo sentore che non potrà più garantire loro per il futuro quei privilegi che ora garantisce nel presente ed ha garantito in passato, gli amici e i famigli della sua corte lo abbandoneranno, o cominceranno a guardarsi in giro, in cerca di un nuovo padrone. La cultura gli ha insegnato che avverrà, e lui sta cercando di prendere le contromisure necessarie. Forse teme più la perdita del potere e la conseguente solitudine che non la morte in sé e per sé, a guardar bene. Fa tenerezza, sotto molti aspetti, il Vecchio Barone.

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  4. La morte degli altri mi ha sempre terrorizzato, finché non l’ho vista attraverso una persona che amavo: mai immaginato espressioni più belle, più misteriose, più sacrali.

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  5. il vecchio barone è un uomo benestante, pensa a quelli che, come tanti piccoli artigiani e commercianti, vivono con una pensione di 600 euro al mese; naturalmente auguro al barone di cavarsela, ma c’è tanti vecchi molto meno fortunati di lui, su cui concentrare la propria compassione

    moltanoia, interessantissimo questo argomento, ce ne sarebbe da scrivere per ore

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  6. @->diego: Sinceramente trovo il tuo commento un po’ fuori luogo. La paura della morte è forse l’unica cosa che non ha a che fare con il denaro: colpisce tutti, è altamente democratica. Perché dare per scontato che il Vecchio Barone soffra meno solo perché ha probabilmente abbastanza soldi? Quando sei vecchio, solo e di fronte alla malattia i soldi certo aiutano a superare le difficoltà contingenti, ma non è detto che automaticamente chi è più ricco soffra di meno o abbia meno paura. Conosco persone molto povere che riescono a vivere gli ultimi giorni con grande serenità perché attorniate da affetto, amore, rispetto. Conosco molti ricchi che tirano le cuoia malissimo, spaventati e soli, anche se rendono l’anima fra lenzuola di seta. Chiunque sia solo e spaventato di fronte al male ed alla morte merita comprensione. Non importa l’entità del suo conto in banca.

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  7. @->moltanoia: io ho visto solo delle brutte morti. Non ci riesco a vederci nulla di sacrale. Si muore. Spesso soffrendo, e senza alcuna dignità particolare.
    Si muore e basta.

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  8. gentile galatea, chi è ricco si cura meglio, soffre meno, campa più a lungo, e se magari gli occorre, un rene di ricambio se lo compra, magari il rene di un giovane povero, di qualche periferia del mondo; chi è ricco sa di lasciare ai suoi figli un futuro di benessere, mentre magari un poveraccio muore e suo figlio è un 40enne di una fabbrica che ha chiuso; l’ingiustizia è troppa perchè certe mielose parole possano lenirla, questo è il mio umillimo parere, il mio modesto commento alla tua elegante scrittura, di cui apprezzo lo stile e dissento in toto dai contenuti

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  9. @Gala
    Prossimo post sul funerale del barone o del marchese del Qualcheshire, mi raccomando.
    Che altrimenti, a discutere di malattie e morti prossime a venire, c’è il rischio di rimanere troppo allegri. E pure la stagione aiuta molto (qua piove pure).

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  10. @diego
    l’incomprensione del significato e dell’importanza della cultura…
    l’insofferenza verso gli intellettuali, sicuramente “fannulloni”, e la preferenza verso la società del “fare” (a parole, aggiungo io)….
    il pensiero che corre subito ai poveri artigiani e commercianti….
    Diciamo che ti sei presentato proprio perfettamente.
    😛

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  11. gentile mikecas, sono un elettore del partito democratico, se questo ti interessa

    non ragionare a stereotipi, anche se è comodo; la realtà sociale è complessa, così come le dinamiche che la attraversano, se leggi gramsci, ci trovi ad esempio una messa in discussione profonda dell’intellettuale che stà nella torre d’avorio; artigiani e commercianti sono spesso quelli che stanno peggio, perchè non hanno alcuna tutela sociale, come accade ad esempio ai dipendenti del pubblico impiego; il problema fondamentale del partito democratico è ritrovare quel rapporto, quella sintonia indispensabile con il corpo sociale, altrimenti appare (erroneamente) il partito dei garantiti, di quelli che la paga gli arriva sempre e comunque; personalmente sono favorevolissimo al salario sociale, perchè, come spiega rifkin nel suo bel saggio sulla “fine del lavoro” la società moderna prevede per forza l’impiego di meno lavoratori, per cui la redistribuzione del reddito non può più avvenire col meccanismo “un lavoro, una paga”, perchè in troppi rimarranno fuori; amo la cultura, ma non gli intellettuali (non tutti, sia chiaro, vi sono grandi eccezioni); usciamo dai recinti mentali, perchè altrimenti la destra è più in sintonia con il corpo sociale; grazie dello spunto gentile mikas

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  12. @ Diego: fidati, ricchi e poveri muoiono uguale. Magari quelli ricchi si possono permettere una clinica privata (ma in linea di massima mica si prendono i terminali…) e hanno più attenzioni, ma si tratta di sottigliezze. Se hai culo ti prende un coccolone, se no non è assolutamente piacevole. Va meglio nel Terzo Mondo in cui generalmente ti risparmi il ricovero.

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  13. ottimo chacorro, sulla questione del terzo mondo, una qualche verità l’hai focalizzata; penso tu abbia letto “modi di morire” della healt (non mi ricordo come si scrive), in cui si riferisce come l’ospedalizzazione sia perpecita come un tormento, con un paragone fra persone prossime a morire in inghilterra rispetto a persone in analogo frangente in india; senza dubbio la componente “narrativa”, la componente umana, di cui le società ricche difettano, ha la sua importanza; difatti, forse tu hai letto l’ultimo libro del terzani, laddove parla della scelta di evitare le cure e il loro tormento; argomento attuale e scottante, che ci richiama alla vicenda di quella giovane e di suo padre, nella quale la politica italiana ha toccato livelli di bassezza incredibili

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  14. siccome ho scritto troppo, a chiunque ancora m’evocasse, chiedo scusa in anticipo, non risponderò, perchè non è giusto allargarsi in casa altrui più di tanto

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