Cesco, ovvero la generazione perduta

Cesco sta al bar. Non dalla Clara. La Clara è una pasticceria tirata, con i tavolinetti che paiono di smalto per quanto brillano e le pastine che sembrano soprammobili, tanto sono carucce ed aggraziate. Il bar di Cesco è quello che sta dall’altra parte della strada, in un viottolo nascosto dove il centro di Spinola sfuma verso i capannoni della zona industriale ed il quartiere delle case PEEP. Un bugigattolo lercio con fuori due tavolini grigi e sbilenchi che assorbono lo scarico dei camion in transito e le scatarrate di auto che di motori euro4 non hanno nemmeno mai sentito parlare.

La vita di Cesco si svolge tutta in quel quadrato, formato dal bar, dal marciapiede e dall’angolo, su cui si affaccia il portone di casa sua, un appartamento comunale che suo padre e sua madre occupano da sempre. Lavorano, il padre e la madre. Il padre come muratore, la madre come donna delle pulizie, a ore, in una ditta che però la chiama solo quando c’è bisogno. Ha un fratello più grande, Antonio, che ha trent’anni e ha sempre fatto il muratore, come papà, fin da quando ne aveva quattordici, e s’è sposato, e ha due bambini. Ha anche una sorella più grande, Emma. Che non è sposata, ma non vive più con loro da quando aveva diciotto anni; sta a Milano, perché è sempre stata un po’ così la Emma: indipendente, e anche un po’ testa calda, di quelle che vogliono fare sempre come pare a loro, e tutte le cinghiate del padre non sono riuscite a toglierle via dalla zucca questa idea di far da sola e come vuole lei. E così, invece di andare a lavorare con mamma a pulire gli uffici e poi sposarsi, lei si è fatta le scuole serali di ragioneria, si è imparata il computer e poi un giorno ha detto: “Mi sono trovata un lavoro a Milano!” e via, chi l’ha vista più. La mamma ha pianto tutte le sue lacrime, perché ci aveva il fidanzato qua, la Emma, e la mamma si vedeva già nonna con i nipotini, perché questo fanno le ragazze serie, si sposano e fanno nipotini. Invece la Emma no, ha piantato tutto, non ha fatto nipotini e sta a Milano, da sola, che cosa da ragazza tanto seria non è, e la mamma non riesce a farsene una ragione. Glielo dice, tutte le volte che Emma telefona, per far sapere alla famiglia che ha avuto in aumento di stipendio, o una promozione, perché è brava: così le due litigano, certi strilli che Cesco si sente scoppiare le orecchie come i cani quando gli fischiano vicino, e allora scende e va al bar e ordina una birra, perché le birre sono sempre più silenziose degli esseri umani.

Anche Cesco, come Antonio, ha finito di andare a scuola a quattordici anni, con il classico sei-calcio in culo della terza media, dato da una commissione di professori stanchi e sudaticci. Non è mai stato bravo a scuola, Cesco. Mica perché non si impegnava. No, lui proprio non ci capiva niente. Tutte quelle materie, i compiti, i calcoli di matematica, e gli esercizi di italiano. Emma era quella brava. A lei le robe le riuscivano così, senza fatica: leggeva la pagina e zàc, compilava la scheda, mettendo nei quadratini giusti tutte le x. Lui leggeva la pagina e restava poi là con la matita in mano, senza sapere che fare, dove sottolineare, perché mettere le crocette. Per fortuna a casa non è che qualcuno ci facesse una malattia. Ecco, mamma giusto si vergognava un po’ quando lo sentiva compitare, perché pensava che a messa non sarebbe mai potuto andar sul palco a leggere le letture, però si limitava a sospirare, guardandolo e dicendo: “E’ così il figlio mio, queste cose non fanno per lui, non ce la fa!”; papà, papà invece alzava le spalle: “Che cazzo serve la scuola, tanto tu vieni a lavorare con me, di muratori ce n’è sempre bisogno.”

Solo che ad un certo punto il bisogno era finito. O meglio, di muratori il bisogno c’è, ma ci sono quelli del Terzo Mondo, i Rumeni e i Marocchini. Così papà, che ha più di cinquant’anni, adesso lo chiamano ogni tanto, pagandolo sempre meno; e anche Antonio, che ha moglie e due bambini, è sempre lì lì appeso, che non sa mai se il mese dopo lo tengono o lo lasciano a casa. E figuriamoci Cesco, che poi non è neppure tanto forte, e ha poca esperienza, e il padre gli grida che ha anche le mani di pastafrolla, e lo chiama “il signorino”.

Così Cesco, che ha ventitrè anni, non lavora, e sta al bar, con la sua birra, tutto il pomeriggio, a sentire le bestemmie dei vecchi che giocano a carte, e quelle di suo padre, che quando non lavora entra, si siede e bestemmia anche lui, contro i Romeni.

Emma gli ha detto di venire a Milano, da lei. “Fai un corso serale, prendi un diploma, fai un corso di inglese, di computer…poi te lo trovo io un lavoro qua, da qualche parte, dài!” Ma a Cesco il pensiero di tornare a studiare, di dover riprendere in mano i libri fa girare la testa, gli si chiude la gola e non respira più: glielo hanno sempre detto tutti, papà, mamma, i professori, che lui e i libri non sono proprio fatti per prendersi, e poi l’inglese, il computer sono troppo complicati, non li potrebbe imparare mai.

Così sta al bar, con davanti la birra, e attorno le bestemmie per le carte e i Romeni.

Si sente solo. Non sa che sono più o meno due milioni, i ragazzi come lui.

36 Comments

  1. clap clap!

    gran pezzo!
    mai pensato di scrivere per mestiere? 🙂

    No a parte gli scherzi, fotografia perfetta della desolazione rassegnata imperante tra noi “quasi trentenni”..

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  2. bravissima, e dire che oggi al mercato in piazza erbe c’era un commerciante che sbraitava contro i giovani scansafatiche che non hanno voglia di lavorare. E io avevo in mente la disoccupazione giovanile al 23%. C’era anche un ragazzo della mia età che lavorava per lui, ha provato a rispondere qualcosa, ma ovviamente è stato inutile.

    Non so quanti altri casi di padri che hanno rubato il futuro ai figli ci siano nella storia dell’umanità. Direi che questa generazione al governo ci è perfettamente riuscita, e anche facendoci sentire in colpa.

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  3. @Xte: Sì, ma non ci camperei. 🙂
    @franco: più che altro nessun presente e nessun futuro, temo.
    @Vitainpillole: Appena lo scrivo, immagino. 😉
    @ugolino: un po’ sì, dài. Quanto alla Gelmini: non credo che dirglielo serva a qualcosa. Non ha gli strumenti per capirlo.
    @vegetarian:eh. E’ che molto riducono tutta la loro visione del mondo a quell’esperienza diretta e ristretta che ne hanno loro, e per il resto credono a quanto dice la tv. Quindi la crisi non esiste, e i giovani sono solo scansafatiche.

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  4. Salve don Peppì, non sapevo che lei fosse stato eletto Consigliere comunale con il PD a PM, posso farle in ritardo i miei auguri?

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  5. Vede sig. Train,
    le spiego una cosa semplice-semplice.
    Lei, cerca di farmi capire che conosce la mia identità. Lo fa in una discussione minima in cui il suo riferimento non era rischiesto. Ma lo fa.
    La cosa ovviamente non mi spaventa, nè tanto meno mi crea problemi di sorta.
    Trovo il suo riferimento inutile.
    [Le concedo una quadra: può tranquillamente scrivere chi lei ritiene essere l’autore di Profeta. L’autore di Profeta, immediatamente, prenderà i suoi provvedimenti. In entrambi i casi. Se lei dovesse avere ragione. Se lei dovesse avere torto.]
    Mi aspetto, quanto prima, le sue scuse. I suoi metodi dalle mie parti cascano male.
    Malissimo, sig. Train.

    P. S. Alla dottoressa Galatea, chiedo personalmente scusa di questo mio intervento che non riguarda il post in questione.

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  6. Sig. Train,
    dalle mie parti siamo abituati a ridere poco e a sorridere molto. E, siamo molto suscettibili.
    Ora, ad esempio, sono molto dispiaciuto che per causa sua, in questo blog – da me frequentato da poco non senza curiosità- mi tocca rispondere a Lei su cose che interessano al massimo l’etica dei risentiti.
    In questo, vede sono un cristiano: separo il sì dal no. Ed allora le ambiguità, le mezze cose, i non detti, l’impensato…non trova posto nel mio pensiero.
    Ribadisco il concetto: da Lei mi aspetto delle scuse. Per il suo presunto riferimento alla mia identità e per la sua poca educazione nei confronti della dottoressa Galatea.

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  7. Non pensavo di metterla in tale difficoltà, se lei chiede le mie scuse non ho alcun problema a farle, a patto che mi chiami Jazztrain.

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  8. -Io non la conosco.
    -Non mi azzardo a fare riferimenti alla vita reale.
    -Discuto, quando ne ho voglia, con delle pure entità virtuali.
    – Le chiamo, queste entità, come preferisco, per il semplice fatto che nel mondo vituale il nome non indica la cosa o il chi.
    -Non permetto a nessuno, tanto meno a Lei, di adoperare un atteggiamento che superi questi paletti.
    – Non sono in difficoltà per le cose da Lei insinuate.
    – Ribadisco: mi aspetto delle scuse.

    P.S. Dottoressa Galatea, questo è il mio ultimo intervento in merito al sig. train. Le porgo le mie scuse più sentite per questo siparietto molesto e certamente incomprensibile.

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  9. Il post è bello, indubbiamente. Ma rappresenta una situazione non veritiera o, almeno, superata di almeno una decina d’anni. Oggi, lavoro per chi s’adatta a fare l’apprendista idraulico, muratore, dipintore, carpentiere, posatore, piastrellista, termista, carrozziere, ce n’è a sufficienza, almeno qui in Veneto, tanto che lo occupano albanesi e rumeni proprio per questo. Sì, oggi come oggi, c’è un po’ di crisi, ma passerà presto. Resta il fatto che i nostri ragazzi non vogliono più spaccarsi la schiena per due soldi: tirare marmi o posare parquet per dieci, dodici ore al giorno è roba da duri, ci vogliono gli attributi. Non è faccenda da fichetti, a cui la mamma rimbocca ancora le coperte prima d’andare a letto. Spacci dieci dosi al giorno e due, tremila euro al mese, ti vengono su abbastanza facilmente, senza far tanta fatica. Nel frattempo, continui a telefonare a qualche agenzia di Lele Mora, nella speranza di essere scelto prima o poi nel casting del “Grande fratello”.

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  10. @Peppino Profeta e jazztrain: Per favore, le beghe personali che si trascinano da altri blog potreste risolvervele fuori da qua? Grazie.

    @lector: Sarà forse il fatto che a scuola di ragazzi e ragazzini come Cesco ne vedo ancora parecchi. Sono ragazzi che non riescono a scuola perché certo non sono geni, ma anche perché in famiglia e in classe la loro autostima viene ridotta a zero fin dalla più tenera età.
    I genitori sono convinti che studiare non serva, e quindi non li spingono o non li aiutano a colmare le loro lacune (io ho alle volte addirittura baruffato con genitori che non vogliono fare nulla per i figli dislessici perché temono che i vicini pensino che il figlio è ritardato e si vegognano); i ragazzi, che magari non sono per niente portati per i lavori manuali – anche per fare il piastrellaio o il muratore ci vogliono certe caratteristiche, e, come dici tu, palle e carattere – vengono comunque costretti a seguire quella strada, controvoglia, e poi, siccome non sono granché, alla prima turbolenza del mercato vengono licenziati, per essere sostituiti dal Romeno volenteroso (e giustamente). I ragazzi come Cesco, lector, spesso non hanno nemmeno le palle per fare i piccoli spacciatori di quartiere, o per telefonare a Lele Mora. Sono letteralmente una generazione perduta nel nulla. Forse in parte anche per colpa della loro mancanza di carattere, ma spesso solo perché nessuno gli ha mai dato una mano nemmeno a capire che ce la possono fare. E restano là.

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  11. @lector: Sarà forse il fatto che a scuola di ragazzi e ragazzini come Cesco ne vedo ancora parecchi. Sono ragazzi che non riescono a scuola perché certo non sono geni, ma anche perché in famiglia e in classe la loro autostima viene ridotta a zero fin dalla più tenera età.I genitori sono convinti che studiare non serva, e quindi non li spingono o non li aiutano a colmare le loro lacune (io ho alle volte addirittura baruffato con genitori che non vogliono fare nulla per i figli dislessici perché temono che i vicini pensino che il figlio è ritardato e si vegognano); i ragazzi, che magari non sono per niente portati per i lavori manuali – anche per fare il piastrellaio o il muratore ci vogliono certe caratteristiche, e, come dici tu, palle e carattere – vengono comunque costretti a seguire quella strada, controvoglia, e poi, siccome non sono granché, alla prima turbolenza del mercato vengono licenziati, per essere sostituiti dal Romeno volenteroso (e giustamente). I ragazzi come Cesco, lector, spesso non hanno nemmeno le palle per fare i piccoli spacciatori di quartiere, o per telefonare a Lele Mora. Sono letteralmente una generazione perduta nel nulla. Forse in parte anche per colpa della loro mancanza di carattere, ma spesso solo perché nessuno gli ha mai dato una mano nemmeno a capire che ce la possono fare. E restano là.
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  12. Guarda, stiamo confrontando ovviamente grandi numeri, nei quali le piccole disperazioni quotidiane si disperdono come lacrime nella pioggia. La mia esperienza deriva sia dal continuo contatto professionale con i piccoli imprenditori artigiani, che non trovano più ragazzi italiani – neppure i loro figli – disposti a continuare il mestiere, sia dai racconti di mio figlio ventenne, per quel che riguarda l’altro punto di vista, cioé quello dei giovani. Purtroppo, sono piuttosto convinto che la mancanza di carattere, di cui tanti ragazzi sono disperatamente affetti, derivi in primo luogo dalla bambagia con cui li crescono le “mamme d’Italy”, autentiche caricature di genitrici per il resto del mondo. I ragazzi mollano subito, alla prima difficoltà, convinti che qualcuno tirerà fuori le castagne dal fuoco per loro. Nella scuola, che dovrebbe per prima formarli, genitori iper-protettivi son pronti a scatenare l’ira di Achille contro qualsiasi insegnante che si permetta di mettere in dubbio le capacità dei figli. I risultati, poi, si vedono tutti.

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  13. Chiedo scusa Galatea, personalmente non ho proprio nulla con il buon Peppino Profeta. Anzi, provo simpatia per lui, nonostante la sua reazione un po’ fuori le righe.
    Buona giornata.

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  14. Tutto questo mi ricorda una canzone…
    Times have changed
    Our kids are getting worse
    They won’t obey their parents
    They just want to fart and curse!
    Should we blame the government?
    Or blame society?
    Or should we blame the images on TV?
    No, blame Canada – Blame Canada
    With all their beady little eyes
    And flapping heads so full of lies
    Blame Canada – Blame Canada
    We need to form a full assault
    It’s Canada’s fault!
    Don’t blame me
    For my son Stan
    He saw the darn cartoon
    And now he’s off to join the Klan!
    And my boy Eric once
    Had my picture on his shelf
    But now when I see him he tells me to fuck myself!
    Well, blame Canada – Blame Canada
    It seems that everything’s gone wrong
    Since Canada came along
    Blame Canada – Blame Canada
    They’re not even a real country anyway
    My son could’ve been a doctor or a lawyer rich and true,
    Instead he burned up like a piggy on the barbecue
    Should we blame the matches?
    Should we blame the fire?
    Or the doctors who allowed him to expire?
    heck no!
    Blame Canada – Blame Canada
    Sheila: With all their hockey hullabaloo
    And that bitch Anne Murray too
    Blame Canada – Shame on Canada

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  15. @lector: Le mamme (ed anche i padri, ti posso assicurare) d’Italia sono responsabili di gran parte della rovina del paese. Se le mamme la smettessero di piangere ogni volta che pupetto viene sgridato e coccolarlo qualsiasi stupidaggine combini, ed i padri non ricorressero alle minacce via avvocato ogni volta che il ragazzino prende un brutto voto questo paese sarebbe molto molto molto migliore.

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  16. @lector:
    Io naturalmente ringrazio per la caricatura generazionale fatta.
    In fondo siamo sempre bamboccioni viziati che non hanno voglia di lavorare. Non importa che la disoccupazione giovanile sia al 23%. Non importa che l’unico mio amico con un contratto a tempo indeterminato è stato messo in cassa integrazione qualche mese fa. Non importa che il wellfare familistico di questo paese renda difficilissimo l’affrancamento dalla famiglia se non con l’accordo di questa e sempre che i tuoi abbiano abbastanza soldi per aiutarti. La colpa è tutta di noi giovani che non abbiamo voglia di fare, o delle mamme apprensive, o dei professori incapaci.

    E poi c’è una altra questione perché mi ribolle il sangue in questo momento.
    Naturalmente laurearsi in matematica non è faticare, mica ti spacchi la schiena al sole no? Non stai certo 8 ore a girare le pelli della concia.
    Certo, forse dovrei vergognarmi di essere il primo a laurearmi nella mia famiglia, in fondo sto sprecando i soldi no? Meglio se andavo a asfaltare le strade, quello sì che è costruirsi una vita con la fatica.

    Mia mamma, che quando ha finito le medie è stata mandata in conceria dai miei nonni perché all’epoca solo il figlio maggiore e maschio poteva studiare. Mi ha sempre detto che la cultura e lo studio sono fondamentali nella vita di una persona, e io sono grato di aver avuto una madre tanto diversa dalle madri del nord-est. E non mi vergogno di aver dato più peso alla cultura che a spaccarmi la schiena: sono sicuro che se nella vita avrò molte occasioni dei miei coetanei sarà perché fin dalle elementari ho studiato diligentemente. Perché non ho avuto paura di essere un secchione, perché non mi sono fatto impaurire quando ho scelto di fare il liceo, anche se tutti mi prospettavano la disoccupazione.

    C’è una cosa strana nella retorica del lavoro del nord-est. Non si pesa il valore di una persona in base al vantaggio sociale di quello che fa col suo lavoro, si pesa invece solo su quanta fatica fa. Se non sudi facendo quello che fai sei un inetto, se non porti a casa tanti soldi sei un cretino. In pratica è molto più onorevole uno speculatore dell’edilizia che lavora tutto il giorno per comprare e vendere case e di fatto contribuisce al malessere del paese che il bravo professore che insegna a tuo figlio.

    Non c’è che dire, stiamo proprio diventando un paese del terzo mondo.

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  17. “C’è una cosa strana nella retorica del lavoro del nord-est. ”

    Quanto è vero!

    Credo che l’attuale crisi occupazionale, qui nel nordest, sia particolarmente grave per della gente abituata a fare del “laòro” una specie di ossessione, o culto pseudo religioso.

    Mi spiego meglio. Al TG regionale ogni tanto (di rado, per fortuna) viene data la notizia del tizio, irreprensibile, che inaspettatamente sbrocca e commette un delitto. Seguono interviste alla gente che lo conosceva: sempre, invariabilmente c’è la frase “Sembrava una brava persona, l’ha sempre laorà”.

    Ha sempre lavorato: ecco qui, l’unico giudizio di valore. Magari picchiava i figli, evadeva le tasse, sottopagava i dipendenti e vessava la segretaria: ma “l’ha sempre laorà” è l’unica cosa che mi sembra interessi a tanti veneti. Forse mi sbaglio, ma non ho mai sentito questa frase in corrispondenze da altre regioni.

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  18. Trovo che molti commenti a questo post siano squisitamente classisti. L’importante, si sa, è la felicità, non la cultura (o i soldi). Inoltre, trovo minuta, ma per niente originale, l’analisi psicodinamica verticale di Galatea. Intendo dire questo passo: “Se le mamme la smettessero di piangere ogni volta che pupetto viene sgridato e (di) coccolarlo qualsiasi stupidaggine combini, ed i padri non ricorressero alle minacce via avvocato ogni volta che il ragazzino prende un brutto voto questo paese sarebbe molto molto molto migliore”. Beh, mi vien da dire che i genitori hanno bisogno più di esempi che di consigli teorici e che è troppo facile pontificare sulla pelle degli altri.

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  19. @giovannifrancescosagredo: Invece è molto meno classista, caro il mio giovannieccetera, non preoccuparsi affatto che questi ragazzi restino così, senza un futuro e senza la possibilità di procurarselo, perché i genitori non li spingono a studiare davvero, a imparare qualcosa, vogliono solo che la scuola dia loro un diploma anche se non sanno un caspita, vero? Tanto, caro il mio giovannieccetera, quelli che alle spalle hanno famiglie con possibilità troveranno comunque un posto di lavoro, grazie alle conoscenze di papà. Gli altri, che non hanno imparato nulla, invece ciondoleranno nei bar, come Cesco. Magari sentendo qualcuno che fa un vago ed inutile discorso sulla “felicità” che non dipende dalla “cultura” come quello che fai tu.
    La felicità forse non dipende dalla cultura, ma non avere imparato niente a scuola, non avere un minimo di cultura ti impedisce di diventare indipendente, di costruirti qualcosa nella vita, di riqualificarti quando ti serve. Classista è dire: restate ignoranti perché la cultura non serve a niente. Certo, non serve a niente a TE, perché così resti schiavo di chi ne sa di più…

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  20. Sono quasi completamente d’accordo con vegetarian e quasi per niente con lector.
    Io non sono mai stata secchiona, studiare mi è costato molta fatica e molto tempo, con risultati non ottimi perché da ragazzina ero insicura e mi spaventava il giudizio dei professori. Per fortuna i miei genitori e qualche professore hanno creduto in me. Poi, all’università, le cose sono andate meglio. Studiare è faticoso, anche se si sta seduti alla scrivania. Io ho studiato con passione, a volte con angoscia, sicuramente senza farmi troppe illusioni. Credevo di essermi sudata la possibilità di scegliere, al momento del ‘dunque’ tra fare la panettiera, la postina, la scrittrice, l’impiegata o la spazzina. Invece questa possibilità non me la danno. Nel mondo della cultura non ci sono soldi nè spazio per giovani che vengono da famiglie ‘normali’, e va bene, rassegnamoci. Ma nel mondo della produzione si viene guardati con sospetto perché si pensa che non abbiamo voglia di ‘piegare la schiena’!
    Come la mettiamo?

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  21. @vegetarian e mick78: La descrizione del Cesco di questo post e le considerazioni mie e di lector credo che c’entrino molto poco con voi. Studiare è un lavoro faticosissimo, lo sappiamo tutti. Purtroppo molto spesso l’impegno di chi si è fatto anni chino sui libri non viene riconosciuto, solo perché si pensa davvero che l’unico lavoro degno di questo nome sia quello “fisico”, da una parte, e per giunta che chi ha studiato abbia sempre una gran puzza sotto al naso, cosa che non è vera. Quando anche io mi sono affacciata al mondo del lavoro, ricordo le battutine e le battutacce, al mio primo posto, delle segretarie anziane quando mi davano da fare le fotocopie, perché pensavo che, essendo una laureata, non fossi capace di pigiare un tasto, e per giunta considerassi le fotocopie un lavoro umiliante…o il colloquio in una piccola anzienda, dove il titolare, senza neanche farmi aprire bocca, mi disse che non voleva laureate perché in ufficio voleva “ragazze alla mano” che fossero pronte a lavorare…purtroppo in certi ambienti chi ha studiato viene guardato con sospetto a prescindere, quasi avesse perso tempo a farsi mantenere dai genitori.

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  22. M’avete frainteso: mica tutti posseggono le qualità per aspirare a migliorare la propria esistenza studiando. Purtroppo molte persone (“quelli che … i professori proprio non li capivano”) avrebbero una prospettiva migliore (di reddito, anziché ciondolare ai margini della società) se si dedicassero seriamente ad attività lavorative di carattere manuale. Non lo vogliono fare perché costa tanta tanta fatica e, soprattutto, la famiglia e la società offrono loro facili alternative. Non desidero citarmi ad esempio per nessuno, anche perché la mia vita non è mai stata propriamente esemplare (mio figlio me lo rinfaccia sempre, quando accenno a rimproverarlo), ma ho sempre lavorato d’estate per mantenermi agli studi e, quando frequentavo l’università, che ho frequentato lavorando, studiavo sia nella pausa pranzo che tutte le sere e tutti i week-end. Vi assicuro che è stato molto faticoso e che, se avessi avuto delle alternative o una mamma coccolona ed iper-protettiva, probabilmente mi sarei adagiato anch’io ed avrei mandato tutto a fanculo.

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  23. @galatea e lecotr: sono andato un po’ fuori tema, ma in questo periodo non ne posso più di sentire dire certe cose e parto in quarta.
    Cerco di rispondere sul tema. Il fatto che ci siano persone come cesco non lo legherei all’essere sfaticati, e anzi direi che il tuo post rendeva benissimo la situazione e dava un’immagine di quei due milioni di giovani nelle sue condizioni che ce li rende molto più reali.

    Mentre quando mio papà era giovane c’erano occasioni e uno sapeva che lavorando, anche faticando molto, avrebbe tirato su casa e famiglia e un giorno sarebbe andato in pensione, per Cesco non è così. Lui può pensare solo a vivere alla giornata perché il lavoro è alla giornata, e quando si lavora a progetto si vive senza un progetto di vita. Si finisce così col passare la propria esistenza al bar, ad aspettare.
    Un dramma sociale, e qui mi ricollego a quello che volevo dire prima, che non può essere ricondotto alla dimensione psicologica come spesso si fa (la mamma e i bamboccioni) ma va analizzato nell’idea del lavoro che è stata portata avanti in questi ultimi 15 anni

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  24. “Lui può pensare solo a vivere alla giornata perché il lavoro è alla giornata, e quando si lavora a progetto si vive senza un progetto di vita.”
    Purtroppo l’economia è come la natura: mutevole. Non esiste uno stato che possa garantire stabilità, se l’ambiente economico ha mutato a tal punto l’habitat da ripudiare tale condizione. Per quanti ammortizzatori sociali possano essere introdotti, l’economia che non si adatta alle nuove regole del gioco – e con lei tutti coloro che s’erano oramai troppo conformati a quelle vecchie – è destinata a sparire. Ci sarà una classe di fortunati che continuerà a beneficiare dello “zoccolo duro”, comunque garantito dalle necessità più elementari d’una società (da cui il fenomeno del nepotismo, del passaggio di padre a figlio dei privilegi, ecc.), ma tutti gli altri o s’adattano o migrano dove esistono opportunità più confacenti al loro carattere (sinceramente non saprei dove, in un mondo globalizzato in media molto ma molto più competitivo e meno assistitito che quello italiano) o si rassegnano a morire d’inedia.
    (P.S. chiedo scusa per la brutalità – che senz’altro scatenerà un casino tra tutti coloro che preferiscono guardare il mondo con gli occhi foderati di prosciutto – ma tante ragazze italiane stanno preferendo albanesi e rumeni ai loro coetanei italici, perché s’accorgono che son molto più uomini, capaci d’affrontare la vita guardandola dritta negli occhi, senza star lì a piangersi addosso e a lamentarsi che non c’è nessuno che li aiuta).

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  25. Studiare e vangare sono attività entrambi difficili: dipende da quante braccia e quanto cervello hai. Lo stesso vale per moltre altre attivita’ fisiche (perche’ io assimilo lo studiare al pensare ed il pensare e’ un metabolismo). Il resto, e’ fuffa per benpensanti e intellettualoidi.

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  26. @lector: e allora perché negli altri paesi uno mette via la pensione lavorando e invece in italia no? Come mai una ragazza che rimane in cinta qui rimane a casa?
    A lei sembra una società giusta questa? Lo sa quante famiglie vengono aiutate con la pensione dei nonni? Le sembra uno stato che distribuisce bene i propri beni?

    Comunque bellissimo: le donne italiane con i veri uomini rumeni e gli uomini italiani con le vere moldave che stirano le camicie. Se a lei piace andare in questa direzione glielo lascio volentieri questo paese.
    Come dicevo mi pare che ormai anche gli italiani si siano rassegnati a essere un paese del terzo mondo, complimenti.

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  27. Non posso che risponderti con la più scontata delle frasi: quando avevo sedici anni, pensavo anch’io di poter cambiare il mondo e me l’hanno fatta pagare piuttosto duramente, la mia ingenuità … se tu ci riesci … in bocca al lupo!

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