Dedicato a Cinzia dal Maso e a tutti gli Archeoblogger
Numitore di Alba Longa. Già dal nome, poraccio, si capisce che è uno di quegli uomini bravi, ma bravi bravi bravi: così bravi, in pratica, che appena li si sente nominare parte d’istinto uno sbadiglio.
In effetti doveva essere così Numitore, famoso per essere stato il nonno di due nipoti famosissimi, Romolo e Remo, e quindi, a voler andare a spanne, il nonno di Roma.
Le leggende che lo riguardano non sono tante, e sono tutte collegate alla storia dei nipoti. Di lui e delle sue ascendenze non si sa molto: era re di Alba Longa, potente città dei latini. In qualche modo doveva essere discendente di Enea, il principe profugo da Troia, che, scappato alla notte di fuoco che aveva distrutto la città frigia, s’era spostato nel Lazio antico e qua aveva sposato la figlia del re Latino, Lavinia, avendone un figlio, Ascanio, o Iulo, da cui i re di Alba, appunto, dicevano di discendere. Ma l’albero genealogico dei re Latini è tremendamente complicato, anche perché l’idea che i re latini, tramite Iulo figlio di Enea, discendessero da Enea e da Venere è una versione rimaneggiata in epoche un pochino più tarde, per magnificare le antiche e divine origini della gens Iulia, la famiglia da cui discenderanno Giulio Cesare ed Augusto. Quindi che Numitore fosse considerato discendete di Venere e di principi troiani in origine è cosa assai dubbia; certo invece è che era di stirpe latina e potente. Il padre, re dei Latini, gli aveva lasciato il regno. O meglio, avrebbe dovuto lasciarglielo, dato che Numitore era il suo primogenito. Ma il carattere rancoroso e violento del figlio minore, Amulio, gli avevano fatto temere il peggio: così, invece che rispettare la prassi, decise di lasciar perdere la tradizione e far in modo che i due figli potessero in qualche modo regnare assieme. Questa cosa che i re latini regnassero in coppia, un po’ come i re di Sparta, era forse una antica usanza di quel popolo. Esiodo, in un frammento spurio, ma se non originale di certo antico, ricorda il “duo” di re del Lazio, Agrio e Latino, figli, forse, di Odisseo e della maga Circe. Quindi alla morte del padre, fu trovata una formula per far sì che il potere fosse diviso fra i due. Come, le leggende non lo chiariscono del tutto: alcuni sostengono che i due regnassero un po’ per ciascuno, tipo a mesi alterni; ma i più sostengono che in punto di morte il genitore avesse affidato ad Amulio, per stroncare ogni possibile protesta da parte sua, il compito di dividere in modo soddisfacente il potere. Amulio, da quel furbo che era, lo divise non tagliando a metà il regno, come tutti si aspettavano, ma dicendo al fratello: «Scegli: o ti tieni il titolo di re o le ricchezze.» Una forma di win-win, perché se Numitore avesse scelto le ricchezze, Amulio, come re in carica, avrebbe potuto portargliele via; se Numitore avesse scelto invece il titolo, senza soldi il suo potere sarebbe stato poco più che quello di una carica onorifica.
Resta un mistero il capire perché Numitore, primogenito e pertanto in una posizione di vantaggio, abbia accettato una proposta tanto sbilanciata. Stupido non era di certo, perché tutte le fonti lo descrivono poi come un monarca saggio e molto amato. Forse troppo pacioso, buono e senza carattere? C’è di che dubitarne, anche perché, non dimentichiamolo, Numitore è un personaggio leggendario, e come tutti gli eroi della leggenda, il suo carattere e le sue scelte sono pensate per essere emblematiche di un modo di comportarsi. Perché dunque i Romani scelsero di descrivere così il loro mitico “nonno”? Di farne cioè un personaggio che si china senza protestare ai voleri del padre, accetta di cedere al fratello perfido una eredità che gli spettava di diritto, e poi sembra incapace per tutta la vita di ribellarsi alle angherie di Amulio?
Forse il nostro stupore dipende da una non perfetta comprensione di quella che era la mentalità romana nel suo complesso. Noi i Romani tendiamo a pensarli un po’ così, come dei cow boy dell’antichità, molto simili ad un John Wayne, ma con la lorica al posto del berretto verde. Un popolo di gente spiccia, al limite dello spregiudicato, che per questo è riuscita a conquistare un impero con la forza, spesso bruta, e l’ha poi mantenuto per secoli con la corruzione e gli intrighi. Solo che i Romani non erano così. Erano qualcosa di molto più complesso e sofisticato, ed è per questo, e non per la loro forza o spregiudicatezza, che sono riusciti a costruire e mantenere in vita un impero. I Romani, prima di tutto, erano il popolo della Legge. Una civiltà di avvocati, di legulei, di gente che viveva per l’amministrazione. Dalle Dodici Tavole in avanti, la conquista, anche la più brutale, doveva essere giustificata tramite la legge, e amministrata con la legge. Non c’era un solo atto che non fosse approvato dopo dibattito estenuante in Senato, e vidimato da caterve di funzionari, di supervisori. Le leggi romane potevano essere o apparire anche spicce, ma per esse tutti provavano il massimo rispetto, persino quando decidevano scientemente di infischiarsene: quando Cesare passa il Rubicone ed esclama «Il dado è tratto!» lo dice perché sa che il suo è un azzardo che lo pone formalmente dalla parte del torto, e, da Romano, in qualche modo ne soffre.
Ecco, nella mente dei Romani Numitore, il loro “nonno” saggio, rappresenta tutto ciò: l’idea che la legge e la tradizione vanno rispettate anche quando ti portano poi a dover affrontare per tutta la vita situazioni scomode, ti mettono in difficoltà. Per Numitore regnare da solo sarebbe stato molto più comodo, e anche fare fuori Amulio; ma la legge gli imponeva di rispettare la volontà del padre morente, e tenersi accanto quel fratello che sarà per lui solo fonte di disgrazie ed angosce. E sempre la Legge, quella sacra e con la L maiuscola, gli imporrà di punire l’amatissima figlia Rea Silvia, facendola murare viva in una cella del tempio di Vesta, perché lei aveva trasgredito il voto di castità ed era rimasta incinta, seppure contro la sua volontà e di Marte. Non può fare a meno di rispettare le leggi, Numitore, perché nella mentalità del suo popolo, che poi sono i Romani, sono le Leggi che reggono e disciplinano la comunità, ne danno il senso e ne garantiscono il valore. E se non le si onora non si è nulla e nessuno, non un popolo, ma un ammasso di tagliagole, di ladri di galline, gentaglia che non ha patria e non ha futuro, perché non ha passato e non ha tradizioni da rispettare. Erano queste le basi su cui i Romani costruirono il loro impero: sul rispetto delle legge, sul valore della parola data, sull’idea che la legge è fatta per arginare il privilegio dei pochi e le soverchierie dei prepotenti. E quando cominciarono a dimenticarsene, lo persero, trasformandosi in un accrocchio di rubagalline senza onore e senza prospettive di lungo periodo, impegnati solo a pensare al proprio bieco interesse personale, senza ammettere il sacrificio, che i Barbari si papparono in un sol boccone. Si erano trasformati in tanti piccoli Amuli e si erano dimenticati la lezione di nonno Numitore, che dai campi Elisi, probabilmente li disconobbe.
Hai saputo spiegare molto meglio di me, perché i romani non li ho mai potuti digerire. Per fare un impero ci vuole la legge e tanto pelo sullo stomaco, per essere umani basta ragionare sulle cose. Viva Antigone! Viva la terza via, che non è ne’ di Numitore ne’ di Amulio. Ma i romani non ci sarebbero arrivati mai. grazie per questo bel regalo di Natale
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Non cambia mai nulla..
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Io sono cresciuto in una casa che stava tra via Amulio e via Numitore (a Roma, per di più), in un quartiere le cui vie hanno nomi del mito preromano e protoromano: Evandro, rea Silvia, Eurialo, Muzio Scevola…
Cose e personaggi di casa, insomma: ma è bello rileggerne qui.
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Il fatto e’ che noi latini siamo ancora così e le orde di barbari che risalgono le pendici del vulcano durante i fine settimana non le digeriamo tanto. I nipotini della piana alluvionale del Tevere ci hanno portato solo guai.
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Nel De Bello Gallico, Cesare narra che dopo una battaglia con dei barbari (se non ricordo male gli elvezi) ne aveva catturato 25mila e li aeva uccisi. Roma la legge sua, in ogni parte dei suoi domini, la imponeva con la forza. Infatti, un certo Gesù di Nazareth, sospettato di essere un pericoloso agitatore sociale, è finito sulla croce come Spartaco e i suoi seguaci, crocefissi sulla via Appia da Capua a Roma.
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