C’era questo cuoco qui, Vatel. E attorno c’era il Seicento e la Francia. E soprattutto c’era lui, Luigi XIV, il Re Sole, lo Stato sono io, la grandeur fatta persona come non capiterà mai più nella storia, perché persino Napoleone, al confronto di Luigi, era un omettino dalle ambizioni limitate.
Li sottovalutano sempre, i cuochi. E invece non c’è regime e non c’è impero che sia davvero fastoso se non ci sono loro. Sì, certo, noi ricordiamo gli artisti, e gli scultori, e i pittori e gli architetti o i poeti. Ma quella è gente che lavora per l’eternità, o per lo meno avendo in testa un ragionevole numero di secoli di durata per le loro creazioni. I cuochi, invece, sono il volto immediato del potere. Tangibile, come sono tangibili i loro pasticci, i loro sformati, gli arrosti per i banchetti, le torte lussureggianti di panne e di creme, le pernici e le beccacce lardellate, i buoi ed i cinghiali al forno, le salse, i contorni. Creano e consolidano il mito dell’abbondanza e della ricchezza del loro signore, perché il loro non è più solo cibo, ma è scenografia, artificio, meraviglia. Ogni banchetto è un rito di umiliazione dell’ospite, sotto parvenza di educazione: serve a stordirlo con la potenza del fuoco della cucina, ogni piatto è una mazzata alla sua autostima, al suo credersi il centro del mondo. E dunque il cuoco vale più del ministro, e, qualche volta, del generale.
E dunque c’era lui, Vatel. Cuoco, e cuoco di Nicolas Fouquet, cioè l’uomo che teneva i cordoni della borsa di Francia. Era sopravvissuto con astuzia alla Fronda ed agli intrighi della corte di Anna D’Austria e di Mazzarino, e del resto il Seicento è un secolo di arabeschi in cui anche gli uomini si affidano all’arabesco per sopravvivere, in politica e nella vita. Protettore delle arti e delle lettere, era però appassionato di grandi banchetti e di grandi feste, e Vatel, il suo capocuoco, era a questo punto un confidente ed una eminenza grigia, l’uomo che sapeva ungere ed oliare non solo gli arrosti ma l’intera servitù, trasformarla in una perfetta macchina da guerra, organizzare pranzi complicati come campagne di conquista, piatti che erano battaglie.
Era così, il Seicento, una grande rappresentazione, un perenne palcoscenico in cui nessuno poteva permettersi una battuta fuori tempo, un giambo zoppicante da pronunciare sulla scena. Le feste e i banchetti erano le rappresentazioni giornaliere, e Vatel aveva l’animo del perfetto regista: ciò che Shakespeare era per il teatro, lui era per la cucina. Così indispensabile che quando il suo signore cade in disgrazia, lui si salva, perché il Re Sole ha bisogno di lui: può giustiziare un Ministro delle Finanze, ma non un cuoco di genio.
E quindi via, a Versailles, quella reggia che è il palcoscenico del mondo. Inventa ricette, Vatel. Ogni volta che ancora oggi addentate un bignè stracolmo di crema chantilly, uomini ingrati, state addentando un pezzo della sua anima: quella panna che si sposa alle uova ed allo zucchero, goduriosa e soffice, è opera sua. Gestisce banchetti che non hanno fine, sono estesi ed estenuanti come le guerre che insanguinano il continente, e vanno pianificate con la stessa meticolosità della grandi battaglie. 1000, 2000 invitati, portare che si susseguono, piatti, stoviglie, vassoi, un andirivieni di servi che mescono, e impiattano, e condiscono, e tagliano, ogni giorno, ogni santo giorno. Vatel è lì, sorveglia e sovrintende, di ogni commensale valuta secondo il cerimoniale l’importanza, e s’informa sui gusti e sulle fisime, perché è un secolo di etichetta feroce, e una posata messa male, un piatto con un’ombra può essere considerato una offesa mortale e costare la testa all’incauto che non ha controllato. Se Luigi è il Re Sole, lui è l’astro che illumina i palazzi, il suo tocco trasforma in evento ed arte questa cosa così quotidiana che è il cibo.
E’ monomaniaco, Vatel. Come sono monomaniaci tutti gli artisti e tutti i grandi, perché vivono della loro arte e al di fuori della loro arte non sono nulla, nemmeno qualcosa di vivo. Così, quando la sera dell’ennesimo banchetto, si accorge che i frutti di mare e le ostriche ordinate non sono lì, non sono nella dispensa, e quindi il disastro incombe perché non ce n’è abbastanza per tutti i commensali, nell’anima di Vatel si apre il baratro. Non è cibo, è la sua anima che viene meno, la sua reputazione che crolla, come crolla quella del generale che ha perso la battaglia.
Si uccide, Vatel. Si getta su di una spada, mentre nel cortile quei maledetti carri che portano le ostriche stanno arrivando. Ma lui non le vede, non ragiona: pensa solo che è un cuoco che non è riuscito a sfamare i suoi commensali, uno chef che ha fallito la sua missione, e non vuole sopravvivere all’onta. Perché lui non è un cuoco, ma un poeta del cibo, e attraverso il cibo ordina il mondo, trae la ragione dal caos degli ingredienti primigeni, disvela il segreto della natura tramite la cultura e l’arte, dà forma e senso al creato.
Per fortuna che non era giudice di Masterchef. O sarebbe stato un massacro.
Mi è piaciuto il film che hanno tratto dalla sua vita, con Gérard Depardieu
"Mi piace""Mi piace"
Che belli questi racconti e quante cose Sai!
"Mi piace""Mi piace"
Certe personalità forti, sono spesso disturbate e monomaniacali. Gente alla quale, se sei furbo e potendo scegliere, te ne staresti alla larga il più possibile.
"Mi piace""Mi piace"
L’ha ribloggato su L'arme, gli amori.
"Mi piace""Mi piace"
… o un critico letterario odierno, sarebbe stata un’ecatombe
"Mi piace""Mi piace"
Anche io l’ho scoperto grazie al film, anche se sarebbe più educato da parte mia dire che avevo letto di lui nella corrispondenza della Sévigné. Dopo aver saputo della sua fine, i nobili hanno cercato di non farsi rovinare la giornata e sono partiti in gita…
"Mi piace"Piace a 1 persona