Costanza d’Altavilla, la zitella che governò un impero

Una tenda enorme, nel mezzo di una piazza medioevale. Una tenda enorme, e attorno l’andirivieni di gente, servi, famigli, dignitari, nobili, ancelle, cameriere, dottori, notai, armati, cappellani, curiosi, popolo sparso. Una tenda enorme, come se fosse una gran sagra di paese, o una processione, o un torneo di corte, di quelli che si fanno fra nobili e cavalieri per i begli occhi di una donzella da maritare, quando la primavera si risveglia e l’amore bussa alla porta dei severi castelli arrocati e dei borghi.
Ma è il tempo che è sbagliato, e la stagione: perché siamo nel pieno dell’inverno del 1194, a Iesi, e la tenda enorme è lì, nel mezzo della piazza e del caos, con un vento gelido che taglia gli angoli e sferza i mantelli dei nobili e dei notai. E non è una sagra di paese, e nemmeno un torneo, il motivo per cui in tutta fretta, su quella piazza, si è alzata quella tenda, ma una nascita. Dietro le pareti di velluto che contengono a stento gli spifferi ed il caos, c’è una donna in travaglio per un parto: è Costanza d’Altavilla, imperatrice di Germania e regina di Sicilia, erede di Normanni e sposa di re tedesco, che spinge ed urla per mettere al mondo il suo primo figlio, nonostante la scomodità del posto ed il rischio dell’età avanzata.
Ha quarant’anni, Costanza, un’età in cui nel Medioevo le donne sono già nonne, ammesso che siano ancora vive. Nessuno avrebbe mai pensato di lei che divenisse mai sposa, e figuriamoci madre. Figlia postuma del re Ruggero II di Sicilia, sangue normanno nelle vene, era cresciuta alla corte di Palermo, ma un po’ in disparte: una sua ascesa al trono era stata sempre giudicata così improbabile che i dignitari nemmeno si erano preoccupati, quando era ancora una giovane principessina, di cercarle sul serio un marito. Del resto lei non era forse particolarmente bella e nemmeno appariva dotata di una personalità prorompente: si diceva infatti che il suo sogno fosse prendere il velo e ritirarsi a far la monaca. Non si sa se davvero, come suggerirà Dante nella Commedia, abbia preso i voti in qualche chiostro: certo è che rimane nubile e defilata fino ai trent’anni. Per gli eredi del Regno è la zia Costanza, una figura pallida, noiosa e sfocata che compare forse ai pranzi di famiglia come un fantasma, e tutti considerano una di quelle zitelle che sono rami secchi delle dinastie regali, inutili ed oscure. Ma ha una tempra di ferro, Costanza, e nel Medioevo delle epidemie, dell’igiene precaria, dei microbi che uccidono a tradimento più delle siche, la banale resistenza fisica vale alle volte più della scaltrezza politica e del sublime pensiero. Così sopravvive ai fratelli e ai nipoti, e vede scendere nella tomba uno dopo l’altro tutti i maschi che erano le belle speranze della dinastia. Finché il nipote Gugliemo, prima di morire anche lui, non la nomina sua erede, e prima la tira fuori dal suo zitellaggio – non è chiaro se forzato o scelto – per farle fare un matrimonio davvero regale, anzi imperiale: il marito è Enrico VI di Svevia, figliolo del Barbarossa e capo del Sacro Romano Impero.
Costanza imperatrice. Un bel salto per una zitella che fino ad allora pareva essersi occupata solo di biascicare rosari e rifinire tovaglie al piccolo punto, da scialba principessa aspirante monaca e quasi vecchia. Ma in quegli anni d’ombra Costanza, che non è stupida, alla corte ha fatto apprendistato. Non è scialba, è prudente, e tira fuori una testa politica che non è seconda a quelle migliori della sua dinastia: i cromosomi di Roberto il Guiscardo le sono arrivati tutti, e lei li mette a fruttare. E’ spaccato, il Regno di Sicilia, fra i baroni normanni che non amano i Tedeschi, ed i Tedeschi che vorrebbero comandare. Lei è in mezzo, e per di più donna, e moglie di un marito che non molti amano e che non ha neppure la grandezza del padre: un vaso di coccio fra vasi di ferro, come diceva Manzoni di don Abbondio. Solo che Costanza di don Abbondio non ha il carattere, ed ha invece una testa sopraffina. Per cui gioca, con le armi che ha e per tutta la vita. Gioca sul suo ruolo di donna, e di donna per l’epoca anziana, per sembrare più indifesa di quello che non sia in realtà. Resta incinta, e nessuno lo avrebbe mai pensato possibile, ma quella tempra che l’ha fatta sopravvivere la rende anche fertile. Porta a termine la gravidanza, e nel Medioevo già quella è un’impresa, specie per una imperatrice che viaggia al seguito del marito dalla Germania all’Italia come una trottola, su carri e lettighe di fortuna, per strade che sono poco più di sentieri appena tracciati in mezzo al nulla.
Ed è il suo capolavoro politico quella tenda, aperta sulla piazza, in cui partorisce in pubblico, rinunciando a quel minimo di pudore che persino le contadine più povere hanno. Ma il figlio che lei porta in grembo e deve mettere al mondo non è solo un erede, è una fusione di mondi, e sulla sua origine non ci possono essere dubbi o pettegolezzi. Costanza sa che i baroni ed i nobili di corte sono già lì che malignano, dicendo che la gravidanza è fasulla, che già è pronto un neonato comprato chissà da chi e che sarà mostrato al posto di quello regale, inesistente. E allora via, Costanza dà alla luce il figlio sulla pubblica piazza, in una tenda, con attorno il mondo che guarda e che controlla: solo Gesù Cristo era venuto al mondo in modo simile, nella stalla aperta di Betlemme; ma fin dal primo vagito il suo figliolo è importate come un nuovo Cristo: è Federico II di Svevia, il puer Apuliae, lo stupor mundi, il sovrano unico dell’orbe allora conosciuto.
Sopravvive al parto, Costanza, e poi anche al marito, che muore poco dopo. E resta al potere con il figlio ancora piccino e una corte spaccata ed infida. Governa con il bilancino, soppesando sempre ogni mossa ed ogni appoggio. Si avvicina al Papa, non solo perché è una donna di fede, che aveva sognato di monacarsi, ma perché lo sa l’unica potenza politica in grado di garantire appoggio e protezione a lei ed al figlio. E’ una eterna partita di scacchi, la vita di Costanza: la lotta di una madre che sa di avere un bimbo troppo piccolo ma troppo importante, e lo deve preservare, ad ogni costo. Soprattutto perché sa di essere vecchia, e intuisce che la sua tempra si va affievolendo, non la sosterrà ancora a lungo: troppo ha preteso dal suo corpo, troppi disagi e stress ha affrontato.
Quel figlio che tanto le è costato non lo vedrà mai adulto: muore nel 1198, quando Federico ha appena quattro anni. Chissà se, da madre, le sono bastati per intuire la grandezza del piccino, capirne l’intelligenza vivace, la vitalità, il tocco del genio, o se invece proprio quelle caratteristiche che saranno di Federico, Federico stesso non le ha sorbite da lei, assieme al latte materno. Perché i due hanno molto in comune, anche se si sono frequentati così poco: la stessa capacità di capire velocemente il nocciolo del problema, e di intuire subito come rigirare a proprio vantaggio la situazione, il dono di sapersi presentare al meglio, creare storie convincenti, diventare personaggi ed icone. Oggi si direbbe capacità di marketing o di self brandig: allora la parola non c’era, ma i due, madre e figlio, lo sapevano fare, lo seppero fare e lo fecero. Il fanciullo che stupì il mondo e dietro sua madre, la zitella scialba e vecchia che tutti pensavano destinata all’oblio e all’ombra, e invece, nel mezzo del medioevo, partorì una luce.

5 Comments

  1. Come di tante altre figure storiche femminili di lei conoscevo solo il nome, davvero interessante ! Mi è tornato in mente di aver letto da qualche parte che era costume delle regine barbare (germaniche ?) partorire in uno spazio comune dove si tenevano riunioni e banchetti, per dimostrare a tutti il loro valore guerresco ma soprattutto perché non ci fossero ombre sull’effettiva nascita del bambino. Chissà se è vero e chissà se la cosa è collegata alla scelta di Costanza d’Altavilla. In ogni caso tutta la sua storia, come dicevano una volta, ha del prodigioso.

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