E poi arrivano gli esami

Gli esami sono brutti. C’è questo grande tabù a scuola, che nessuno dice mai. Fra le milioni di cose che si fanno a scuola per anni e ogni anno, gli esami sono la cosa più stupida, inutile, e che dà a tutti meno soddisfazione. E non parlo dei ragazzi, che sono lì, accaldati e stravolti, accampati sulla sedia del bidello a tentare l’ultimo inutilissimo ripasso, o in crocchio a parlare di quello che capita, trattenendo appena, più per un senso di guardinga superstizione che per vera paura, le risate consuete. Chi odia gli esami siamo per primi noi, i docenti, quelli che dovrebbero essere in qualche modo i supremi valutatori, gli Zeus della situazione.

Se conoscete un docente che ama gli esami o le interrogazioni, che prova esaltazione o anche solo piacere nel farli, siatene certi: è un cretino. Il bello del nostro mestiere è stare in classe ogni giorno, parlare, discutere, vivere lì fra quei banchi assieme ai nostri alunni. E’ lì, quando sono con te e non li interroghi, e nemmeno li erudisci, che li conosci davvero e sei in grado di intuire come sono fatti e cosa pensano, che donne e uomini diventeranno. Tutto il resto, i compiti, i test, i voti e le interrogazioni sono solo orpelli burocratici necessari come tutte le formalità, ma vuoti, perché è come stabilire se uno sa o meno guidare una macchina dal fatto che paga in tempo il bollo auto.

Gli esami sono brutti esteticamente perché si volgono in scuole che già durante l’anno non sono niente di che, ma che durante gli esami toccano l’apice della sciatteria e dello sbaracco, con aule semivuote, corridoi deserti, muri privati dei cartelloni multicolori che almeno nascondevano le crepe e gli intonaci scrostati. E siamo imbruttiti noi, i docenti, ormai ridotti al lumicino, insofferenti a tutto e tutti dopo giorni di riunioni in cui abbiamo cercato di capire cosa diavolo si siano inventati al Ministero quest’anno di nuovo per renderci ancora più penosa la compilazione degli atti. E’ il momento in cui diamo il peggio di noi, tirando fuori tutte le frustrazioni e le ansie, eruttando il livore contro il mondo ed i colleghi, esibendoci in meschine ripicche trasversali sulle medie e sui conteggi, sulle compilazioni dei moduli, pretendendo esegesi bizantine dei regolamenti.

Tutta la delicata poesia della fine d’anno, con l’abbraccio fraterno fra docenti ed alunni, la commozione e la tenerezza si stemperano ed evaporano in sbuffi di caldo, e si trasformano nell’odore rancido di sudore d’adolescente che scrive l’ennesimo tema stentato, s’infogna nei calcoli sbilenchi di un problema, si arrampica a tradurre malamente una lingua che mai ha studiato.

I ragazzi ci guardano e nei loro occhi indovini lo spaesamento perché quel docente cui si erano affezionati si tramuta in un essere che non riconoscono, un mostro sudaticcio e distratto, che li guarda come se non li vedesse già più, resta stravaccato sulla sedia e parlotta con i colleghi mentre loro espongono tesine e illustrano ricerche. Non importa se quelle tesine le hanno copiate alla rinfusa due ore prima da un sito e le sanno malissimo, e hanno pregato in tutte le lingue e tutti gli dei che il loro prof fosse colpito da improvvisa sordità durante la loro interrogazione; nel momento in cui sono lì, sotto esame, persino il bulletto più tracotante passa quell’attimo di fatale smarrimento in cui vuole disperatamente l’attenzione del suo prof, cerca uno sguardo di incoraggiamento, una qualsiasi forma di sostegno o di interessamento.

Perché noi siamo i prof. E anche se ci hanno odiato, e dileggiato e preso per il culo per anni e anni, spesso siamo nella loro mente di quasi adolescenti ancora bambini la cosa più vicina ad un adulto maturo che abbiano incrociato; abbiamo rappresentato nel loro universo di ragazzini l’Autorità esterna e il Mondo, quella cosa magmatica e confusa che è altro rispetto alla Famiglia, sempre che ne abbiano una. Siamo stati, nel bene e nel male, i primi con cui hanno potuto e dovuto confrontarsi da soli, come individui, hanno proiettato su di noi amore e odio, e anche aspettative.
Ma quello che si ritrovano davanti siamo solo noi. E siamo degli esseri umani miserelli, che si sventolano con il foglio di carta svogliatamente, e compilano arruffati scartoffie per chiudere la pratica esami in fretta, per carità o per noia fanno meno domande possibile, e quando le fanno nemmeno ascoltano le risposte, anche lì per noia, o per carità.

Noi lo sappiamo che gli esami sono un guscio vuoto, una parvenza senza sostanza; ma loro no. Li abbiamo intronati per mesi con questo babau dell’esame che alla fine persino i più menefreghisti ci hanno creduto, perché sei ancora nell’età in cui se un adulto ti dice una cosa un po’ ci credi. E ora che ci sono arrivati e vedono invece cosa l’esame è, si sentono delusi, persino traditi. Osservi l’innocenza svanire nei loro occhi, perché ti vedono lì, per la prima volta, non come un professore ma per quello che sei: un tizio, normale, bruttarello, ridicolo, che gli ha raccontato un sacco di balle su quello che succede davvero nella vita.

E tu li vedi andar via, alla fine della prova, felici e bellissimi: corrono incontro al loro futuro come giovani dei e come giovani dei ti guardano con un misto di compassione e gioiosa superiorità, perché hanno tagliato il cordone ombelicale con te per sempre e ora si chiedono con innocente crudeltà e buona fede come mai solo ora si siano resi conto di quanto piccolo e buffo e miserevole sei, e come abbiano mai potuto scambiarti per un Maestro, mentre eri solo un prof.

E tu li guardi, accaldato, stanco, disfatto, leggi tutto ciò nelle loro occhiate, nelle loro movenze, senti il cordone ombelicale che si è reciso, per sempre, con un secco zàc. Sai che tra qualche mese non si ricorderanno più la tua faccia e fra qualche anno, con gran difficoltà, forse vagamente rammenteranno ancora il tuo cognome. E ti consoli pensando che se questo gli riuscirà bene sarà perché sono diventati dei ragazzi forti, autonomi ed indipendenti, e il tuo mestiere, in fondo, è renderli così.

6 Comments

  1. Aspetto sempre con grande emozione il suo blog e quando arriva nella mail l’avviso di un nuovo scritto, lo leggo come se stessi aprendo uno scrigno pieno di tesori. Questo mi ha emozionato, mi sono ritrovata ragazzina, in un’aula grigia, a osservare i professori come se li vedessi per la prima volta, finalmente per quello che erano: semplici uomini e donne, un po’ annoiati e sudati, che mostravano la loro umanità e le loro debolezze. Alcune, per inciso, avrei fatto volentieri a meno di scoprirle.

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  2. Sarà per il peso delle 38 seconde prove di economia aziendale che ho corretto in due giorni – cercando di setacciare in 20/30 minuti per compito le pietrine preziose dell’apporto personale dalla polvere dell’imparaticcio, e le incomprensioni profonde dalle cazzatine di poco conto dovute all’emozione – sarà per la prospettiva degli “otto giorni di esame orale” che mi si erge davanti, sarà per l’età, che mi rende sempre meno propensa a trasmettere una qualsiasi scintilla di entusiasmo e sempre meno adatta a questo mestiere, però una lacrimuccia me l’hai strappata, ‘sto giro…

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  3. Confesso di viverli in modo completamente diverso: non solo sono un importante rito di passaggio (ancor di più in una scuola di paese, da dove l’anno prossimo dovranno prendere treno o corriera per andare alla nuova scuola) ma sono anche un momento di fusione alchemica dove molti di loro, sotto stress, scoprono di sapere più di quel che credevano e di saper fare più di quel che immaginavano e ci sorprendono piacevolmente con prestazioni che mai durante il triennio avevamo nemmen sperato di vedergli fare.
    Sul fatto che riemergano i più remoti attriti tra colleghi perché siamo tutti assai stressati, naturalmente, non posso che essere d’accordo ^__^

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  4. Non per me, oggi.
    Questo è stato uno degli esami più belli che abbia mai fatto da esaminatrice.
    Loro sembravano più grandi e, sì, felici e bellissimi. Un po’ impacciati, ma tenerissimi, con le loro mappe concettuali in bianco e nero e/o a colori, fotocopiate in molteplice copia (una per ogni professore) e il loro vestito più bello.
    E’ stata una summa fatta non solo di parole, ma anche di sguardi e di sorrisi, di non detto e di intesa. Tutto un intero anno scolastico si è riassunto e condensato qui. Ognuno di loro ha dato il meglio di sé e non c’è stato niente, ma proprio niente, di raffazzonato. L’ho capito quando ho letto i loro temi e mi sono stupita, perché ho trovato l’inaspettato. E il loro congedo è stato come un regalo.
    Ecco perché stasera mi sento fortunata e felice anch’io.

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  5. Non per me.
    Questo, appena finito, è stato uno degli esami più belli che abbia mai fatto da esaminatrice.
    Loro sembravano più grandi e, sì, felici e bellissimi. Un po’ impacciati, ma tenerissimi, con le loro mappe concettuali in bianco e nero e/o a colori, fotocopiate in molteplice copia (una per ogni professore) e il loro vestito più bello.
    E’ stata una summa fatta non solo di parole, ma anche di sguardi e di sorrisi, di non detto e di intesa. Tutto un intero anno scolastico si è riassunto e condensato qui. Ognuno di loro ha dato il meglio di sé e non c’è stato niente, ma proprio niente, di raffazzonato. L’ho capito quando ho letto i loro temi e mi sono stupita, perché ho trovato l’inaspettato. E il loro congedo è stato come un regalo.
    Ecco perché stasera mi sento fortunata e felice anch’io.

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