Ogni volta che rivedo Cleopatra, (il film di Mankiewicz, non la regina, ovviamente), da spettatrice e da antichista provo una sensazione strana, che è un mezzo fra la curiosità scientifica, il fascino, il fastidio e la voglia di scoppiare in una irrefrenabile risata.
Di tutti i peplum (i “sandaloni”, come venivano affettuosamente chiamati a Cinecittà) Cleopatra è quello con più ambizioni filologiche. In un ‘epoca in cui le trame dei film romani consistevano nel far passeggiare a caso per lo schermo personaggi dai nomi antichi improbabili, gli sceneggiatori si rilessero con impegno tutte le fonti antiche e in special modo Plutarco. Si vede, perché in effetti le scene migliori sono quelle che rubano di peso da lui, e non è un caso: accadeva già nelle tragedie di Shakespeare. Ci si misero di buzzo buono, insomma, e gli effetti si vedono. Nel film non c’è in fondo nulla di profondamente scorretto o di errato. Quello che fa ridere e lo rende irrimediabilmente poco credibile, per lo spettatore di oggi e soprattutto per l’antichista, non sono gli svarioni, ma l’interpretazione generale della Roma e del mondo antico. Il guaio di tutti i romanzi e i film ambientati nel passato è che, come diceva Croce, gli artisti parlano solo del presente. Così abbiamo un Giulio Cesare interpretato con aplomb britannico da Rex Harrison, tanto per confermare la famosa osservazione di Roland Barthes, e cioè che i Romani visti da Hollywood sembrano tutti avvocati wasp sulla soglia della pensione. Non è che Harrison reciti male, anzi, ma il suo Cesare manca totalmente di ambiguità, di quel guizzo di oscurità inafferrabile che nel Cesare reale c’era e costituiva una parte prepotente del suo fascino. Cesare non è un eroe tutto d’un pezzo, magnanimo e senza ombre. Era un giocatore amante dell’azzardo, un avventuriero, uno scommettitore spregiudicato e qualche volta intossicato dal rischio, un uomo che amava la trasgressione e che non smise mai di praticarla in nessuna sua forma. Per riassumere in una formula bruta: un elegantissimo figlio di puttana.
Anche la Cleopatra di Liz Taylor soffre della stessa impostazione datata. Più che l’erede dei Tolomei sembra una casalinga in carriera che vuol fare ottenere una promozione al marito di turno, ed organizza cenette informali , invitando i senatori più in vista come si invitano i capufficio. L’idea che Cleopatra fosse una politica tanto se non più scafata degli uomini che si alternavano al suo fianco non sfiora gli sceneggiatori mai, e nemmeno il dubbio che, per una regina egiziana discendente (anche se solo virtuale) di Alessandro Magno i Romani fossero in fondo solo dei parvenu della storia, da usare come pedine.
In tutto ciò il più moderno e il più centrato è Richard Burton. Non tanto per le battute, spesso imbarazzanti, che gli mettono in bocca, ma per il suo essere se stesso. Quando non recita, Burton è un Antonio perfetto. Per tutto il film ha nel fondo degli occhi un tocco di stolidità, di smarrimento. Antonio doveva essere così, un uomo non stupido, ma in balia degli eventi. Assetato di vita quanto Burton lo fu di burbon e affascinato dalla vita stessa in tutte le sue forme, era l’opposto di Cesare anche se ne ripercorreva da sempre il cammino. Il limite, anche politico, di Antonio, è di non aver saputo mai essere ambiguo. Cesare gioca con la trasgressione e la governa, ha con lei un approccio celebrale, come se fosse un esperimento di laboratorio; Antonio è sanguigno, nelle cose si butta senza calcolo e ne viene travolto. Come un bambino capriccioso, vuole tutto ciò che Cesare ha, ma non è Cesare: se ama ama, se odia non ha confini per il suo astio e regole per la vendetta.
Ciò che colpisce in Cleopatra è che tutti gli attori erano “giusti”, ma il film manca di qualcosa. Ciò che li frenò fu probabilmente l’età in cui la pellicola fu girata, i vincoli della censura e della società di allora. Burton e la Taylor furono una coppia magnificamente disfunzionale della vita come Antonio e Cleopatra, ma sullo schermo erano bloccati e non poterono mettere in scena quella che per loro era la quotidianità. Harrison si trova imprigionato in un santino di Cesare che non può colorare neppure con tutta la spietata freddezza “britannica” che l’originale probabilmente aveva. Sono lì e non riescono a rendere vive e credibili le scenografie di un gusto pacchiano e per questo, inconsapevolmente, molto romano.
Per questo ogni volta che si vede Cleopatra si ha l’impressione di assistere ad una grande occasione perduta, un film che non riesce a travalicare i limiti della propria epoca, a giocarci e a sconfiggerli per raccontarne un’altra in maniera credibile. Una cosa che invece in parte riuscì allo Spartaco di Kubric. Ma lì, appunto, era Kubric. E quindi era un’altra storia.
Spartacus, più che di Kubrick, era di Dalton Trumbo.
Comunista, e si vede.
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pensare di vedere nella finzione scenica, ma vale anche per i romanzi, quello che era l’epoca rappresentata mi pare arduo. O uno scrive un saggio o un documentario oppure qualsiasi storia romanzata sarà sempre un qualcosa di posticcio.
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Grazie per il nuovo articolo ” Il Nuovo Mondo di Galatea” Solo una citazione ” Sakespiriana ” ” L’ Eta ‘ non potra’ farla invecchiare, Ne rendere tetri, i suoi commenti “. Cordiali saluti Buona serata !!! S. Baudanza
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