
Orazio non mi è mai stato simpatico fino in fondo. Mica colpa sua, in parte. Ma questi poeti augustei, culo e camicia con quel pezzo di ghiaccio di Ottaviano, mantenuti da Mecenate per interposta persona, sì, sono bravi, e grandi, ma caratterialmente anche no. I miei poeti preferiti sono quelli che verso i potenti praticano un sano e oppositivo distacco. Mi piacciono i Dante e non i Petrarca, e dei Romani amo di più il bizzoso ma autonomo Catullo.
Orazio però ė un poeta che si infratta. Come certe città apparentemente grigie e piatte, che poi invece si aprono all’improvviso in squarci bellissimi e segreti. A me Orazio piace quando si distrae, quando non fa Orazio, quando emerge suo malgrado. Si era costruito questa maschera di poeta bonario e simpatico, lo smagato cantore di un impero al suo apogeo. Ma sotto sotto, o dentro dentro, senti un che di tragico, di angoscioso che lavora, erode e riaffiora, travolgendo tutto.
Carpe diem, cogli l’attimo, ė questo. Non è, come molti lo leggono, un invito spensierato, non è, diciamolo subito, il chi vuol esser lieto sia di Lorenzo. Ė un grido che ha dentro qualcosa di oscuro, di peso, di irrisolto. È Orazio che anche nel momento più sereno, davanti al fuoco, abbracciato alla sua donna, mentre brindano assieme, vede la morte che fa capolino, le sciagure che incombono e il tempo. E non c’è remissione, non c’è salvezza, forse nemmeno speranza.
Il carpe diem ė una scena invernale, di un inverno che potrebbe essere anche l’ultimo, perché i progetti che gli dei hanno per noi mortali sono inintelligibili. C’è fuori il freddo, il vento che ulula e sbatte con violenza sugli scogli del Tirreno, e la camera di Orazio e Leuconoe, che non è un’oasi, quanto più una tana, un ultimo rifugio, un presidio contro il caos del fuori. L’impero al suo apogeo si rivela quello che è: una scenografia lussuosa, ma di cartapesta. La realtà è quella, la stanza, il vino come unico conforto, lo stringersi per un attimo assieme. Il futuro è incerto, il passato non c’è più, il presente è questo attimo solitario e sospeso.
E Orazio non è più Orazio, non è più nessuno, è solo un essere umano, solitario e stordito, nella tempesta del tempo. Come tutti noi.
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Vt melius, quidquid erit, pati,
seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum! Sapias, uina liques et spatio breui
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit inuida
aetas. Carpe diem, quam minimum credula postero.
Orazio e Virgilio sono due grandi poeti che non furono servi di partito. Riuscirono a mantenersi liberi pur sotto la protezione di Mecenate. L’ultimo verso dell’Enride è per Turno…Lo sconfitto. Non si era mai visto in un poema epico:il poeta non esalta la guerra. Neanche quella di Enea. E Petrarca era libero,perché era se stesso solo nella solitudine di Vaucluse e ad Arquà,lontano dalle corti ufficiali. Sì deve essere liberi dentro. Loro lo erano
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Anna,ognuno è libero nei limiti che il suo carattere gli pone.
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Colpa dell’Attimo Fuggente. E perché tutti dimenticano quel “quam minum credula postero”.
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