Berengario del Friuli, il mastino dell’impero

 

7 aprile 924, chiesa di San Pietro in Castello, Verona. Una macchia di sangue, sul gradino della chiesa. Le gocce rivolano giù, da una ferita profonda sulla schiena del re. Macchiano il marmo bianco dello scalino. Berengario, marchese del Friuli, re d’Italia, imperatore romano, rantola, cercando di pronunciare per l’ultima volta un nome, Flamberto. Nei suoi occhi più che paura vi è stupore. Ma la voce gli si strozza in gola, e cade a terra.

«È morto.» dice uno degli armati, chinandosi a controllare.

Flamberto è in piedi, fermo. Nelle mani ha la spada.

«Andava fatto. È Rodolfo il nostro nuovo legittimo signore.» mormora, con il tono ufficiale che gli deriva dalla sua carica, perché come sculdascio è suo compito assicurare in città l’ordine e il rispetto delle leggi.

Gli altri annuiscono, ma continuano a guardare il corpo ai loro piedi come se non sapessero capacitarsi di quello che hanno appena compiuto: uccidere l’uomo a cui avevano giurato fedeltà, il conte Berengario, il loro imperatore.

Berengario, un imperatore mastino

Ha combattuto contro tutto e contro tutti, per l’intera vita, come un mastino dell’impero. Nelle sue vene scorreva il sangue di Carlo Magno, e lui se ne è sempre ritenuto l’unico vero erede. O almeno, l’unico erede degno.

Le sue terre nell’impero carolingio erano considerate periferia. Ma quando la linea di successione maschile del grande Carlo si è estinta, lui era lì. Una leggenda, forse creata ad arte da lui, diceva che lo zio Carlo il Grosso lo avesse indicato come imperatore prima di perdere la vita e il trono. Di certo lui da allora aveva combattuto strenuamente contro chiunque avesse osato intralciarlo nel suo progetto di governare l’Italia: Guido da Spoleto, suo figlio Lamberto, poi Ludovico di Provenza. A quest’ultimo, che aveva osato violare il giuramento stipulato fra loro, Berengario rivolse le stesse parole che Cicerone aveva rivolto un tempo a Catilina: «Fino a quando abuserai della nostra pazienza?» Perché Berengario aveva sì la fama di mastino, ma era anche un uomo colto. Era nato e cresciuto in un mondo di ideali cavallereschi e carolingi. La parola data al proprio signore era tutto, era ciò che rendeva un uomo uomo. Per questo aveva sempre disprezzato coloro che non avevano rispettato i patti stipulati con lui. I feudatari italiani già allora erano famosi per cambiare bandiera ad ogni alito di vento. Lui non lo ammetteva, e la sua ira si scatenava senza pietà contro i ribelli. Lo scoprì Pavia, che venne lasciata in balia degli Ungari suoi mercenari e distrutta con una pioggia di fuoco. Lo scoprì Ludovico, accecato per aver osato attaccarlo. E alla fine, riuscì ad ottenere ciò che sognava da sempre: il trono imperiale.

il mastino che si fidava troppo

Vivere in questa Italia infida, in cui Papi, feudatari maggiori e minori e donne spregiudicate tramavano intrighi e congiure avrebbe dovuto smaliziarlo. Invece in qualche modo continuò a pensare che un patto fosse un patto, e che non si dovesse mollare mai. Quando  Rodolfo di Borgogna si armò con l’idea di rovesciarlo per diventare imperatore, Berengario combatté con la solita determinazione da mastino, ma la sorte non gli fu favorevole. Sconfitto a Fiorenzuola, si salvò fortunosamente, nascondendosi sotto il suo scudo, che era coperto da una montagna di cadaveri.

Riparò a Verona, con l’intenzione di rimettersi in forze e contrattaccare. Arrendersi, per Berengario, non era un’opzione praticabile, mai. In città però serpeggiava il malcontento. Il popolo forse temeva che la testardaggine del re portasse a pesanti ripercussioni. Quello che i Pavesi avevano subito da Berengario qualcun altro poteva farlo subire a Verona. Così una schiera di notabili capeggiati da Flamberto, un alemanno, ordirono una congiura. Berengario non era stupido e subodorò il pericolo, con il suo fiuto da mastino. Ma fu la sua visione del mondo a fregarlo. Convocati Flamberto ed i suoi sodali offrì loro pace e perdono, convinto che si potesse convincerli ad appoggiarlo nella nuova lotta, per cui ogni uomo è necessario.

Una congiura a palazzo

Loro giurarono. Bevvero da una coppa che l’imperatore regalò loro, come in una rappresentazione dell’Ultima cena di Cristo. E come Cristo, Berengario fu tradito.

La mattina dono Flamberto ed i suoi si presentarono davanti alla Chiesa dove l’imperatore voleva chiedere aiuto a Dio per la sua nuova lotta. Lo circondarono armati, giurandogli di essere venuti a portargli aiuto. Ma appena volse loro le spalle, Flamberto lo colpì a morte. Il mastino moriva così, come un cane ucciso a tradimento

La leggenda narra che la macchia di sangue sia ancora lì, sullo scalino della chiesa. Non si lava, riaffiora sempre testarda. Come fu sempre testardo e tenace Berengario, il mastino dell’impero.

 

3 Comments

  1. ricordo Berengario il primo re d’Italia, che avrebbe aspettato quasi mille anni per averne un secondo.
    Alludi? La fedeltà ai patti non è nel DNA degli italiani 😀

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