L’insegnante è un intellettuale. Ricordiamocelo (noi insegnanti per primi)

L’insegnante a scuola cosa fa? Insegna. Ma insegnare è un atto intellettuale, e quel che volta noi docenti per primi ce lo dimentichiamo.

Che cosa significa insegnare?

Qual è il punto centrale del mio lavoro di insegnante? Fra i diluvi di corsi di aggiornamento, di formazione, di tutto che mi hanno propinato da quando sono finita in cattedra ormai quasi vent’anni fa ( e uso “finita” con cognizione di causa, davvero alle volte si ha l’impressione che l’assunzione in ruolo sia un vero terno al lotto)non ne ricordo uno che si sia posto questa domanda. Cioè, io sono stata assunta per insegnare. Ma perché?

Cos’è un intellettuale?

Nell’immaginario collettivo il lavoro degli insegnanti è insegnare, cioè spiegare. Una specie di cantilena noiosa, che accompagna ore e ore passate fra i banchi. Si spiegano le poesie, le guerre, gli assiomi di matematica, le catalogazioni di scienze. Poi si interroga per verificare che gli alunni le sappiano più o meno ripetere e si dà voto. La gran parte dei genitori che ci affidano i loro pargoli non si pone il problema se questo sia utile, lo subisce come si subiscono gli obblighi imposti; una parte minoritaria e combattiva addirittura è convinta che la scuola non serva proprio e i figli ce li manda malvolentieri e sottolineando bene a casa che ciò che viene detto a scuola non serve a nulla e noi siamo solo degli inutili burocrati sfigati che non hanno trovato altro modo per garantirsi un tozzo di pane.

Cos’è un insegnante?

Ma anche noi insegnanti per primi, spesso, abbiamo introiettato questa visione. Per alcuni questo si traduce in un quieto tran tran impiegatizio, fatto appunto di lezioni (magari un po’ meno noiose delle lagne che propinavano a noi, ma insomma), di verifiche corrette, di voti segnati sul registro elettronico con maniacale precisione. Per altri si trasforma invece in una altrettanto velleitaria immagine titanica, da eroe romantico fuori tempo. Sì, certo, il mondo non ci apprezza, ma noi siamo gli ultimi paladini del Vero, del Giusto, del Bello, che si battono come gli Spartani alle Termopili certi di soccombere ma con l’aura degli eletti. E allora giù tirate che gli studenti non capiscono (giustamente, sono spesso deliri), prese di posizione infantili, grandi discorsi sul nulla. E per corollario la partecipazione a tutta una serie di iniziative che con l’insegnamento non c’entrano: convegni, presentazioni, scrittura di corposi libri di altro o stesura di pamphlet che spiegano quanto brutto e assurdo sia diventato il nostro mestiere sempre per colpa degli altri, mai nostra.
Spesso ho l’impressione che abbiamo ridotto il nostro mestiere a due macchiette, diverse ma complementari. Da un lato il burocrate da cattedra che non fa domande e dall’altro il superuomo prestato alla scuola, che domande non se ne pone.
Io confesso che in tanti anni non so se ancora ho capito bene in cosa consista il mio mestiere. Me lo chiedo ogni giorno, quando entro in classe e mi trovo davanti gli occhi dei miei alunni che mi guardano. Persino i più distratti in quel momento da me si aspettano qualcosa. Cosa non lo sanno, forse. Cosa, spesso, non lo so manco io. Costruire un senso alle nostre giornate e al tempo passato assieme è in fondo la sfida di ogni classe e di ogni anno scolastico. Va fatto insieme e cucito addosso ad ogni classe e ad ogni singolo alunno. Se c’è almeno una cosa che ho capito della scuola è che è un lavoro artigianale, che va fatto su misura.

Il complesso di Jep Gabardella

Ma per farlo o provarci c’è bisogno che prima io abbia riflettuto su quello che sono io, su cosa voglio, in cosa credo. Quel famoso “gnothi seauton” che è alla base di tutto, almeno in Occidente, perché il caro vecchio Apollo aveva la vista lunga.
Forse l’insegnante non sarà un intellettuale secondo l’iconografia e l’immaginario attuale del termine, che è un cosa a mezzo fra un gran sacerdote che espone in modo affascinante il suo sapere e uno che vaga per salotti e terrazze romane tirandosela come Jep Gabardella in un film di Sorrentino.
Ma è o dovrebbe essere uno che ragiona, che si è fatto delle domande e ha imparato almeno un metodo per cercare delle risposte, anche se le risposte in sé magari ancora non le ha trovate.
Io in classe quando entro ogni mattina provo a fare questo: ragionare. Partendo da quello che mi piace e non mi piace della società in cui vivo, cercando di smontare stereotipi, per primi quelli che ho in testa io e ripeto senza nemmeno accorgermene.
Insegnare non è fornire delle spiegazioni, è cercare di capire come si può provare a costruirle. Che è quello che hanno sempre fatto gli intellettuali, da che il mondo è mondo, e l’essere umano è diventato umano.

Gli insegnanti sono intellettuali

E quindi, come insegnante, uno scatto piccolo piccolo di orgoglio ce l’ho. Quando mi dicono che io sono “una insegnante particolare, fuori dal comune” perché scrivo libri, sono invitata a festival e dibattiti, intervengo sui mass media, lo so che chi lo dice pensa di farmi un complimento, ma io un po’ mi deprimo. E come se mi dicessero che sono una intellettuale e che vado considerata per quello che faccio quando non svolgo il mio lavoro, perché il mio lavoro, di per sé, con l’intellettualità (passatemi in termine) in realtà ha poco a che fare.
Non è così. Ragionare sul mondo è esattamente il mio lavoro, è tutto il resto che mi capita di fare è strettamente connesso a quello che faccio e mi trovo davanti in classe, ogni santo giorno. Senza quello non scriverei una riga, non saprei produrre nulla.
Potrei giusto arraffare qualche tartina alle feste sperando di avere il potere di farle fallire, come un Jep Gabardella in sedicesima, mentre in sottofondo parte il refrain della Carrà.

Ringrazio per lo spunto e invito a leggere questo bel post di Antonio Vigilante.

6 Comments

  1. “Insegnare non è fornire delle spiegazioni, ma cercare di capire come si può costruirle”.
    Sono commossa.
    Ragionare sul mondo, in questo senso la scuola non dovrebbe mai finire.
    Grazie Galatea

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  2. Bell’articolo
    Ho trovato molto discutibile quello di Vigilante, pure condivisibile in alcuni punti.
    Ho faticato molto a superare le prime righe, lamentarsi del neoliberismo in un paese in cui lo stato controlla il 75% dell’economia ha senso quanto lamentarsi che l’Italiano sta scomparendo perché in strada si parla troppo latino.
    Peraltro tutta la gente che bazzico e verrebbe definita neoliberista insiste sempre che spendiamo poco e male in istruzione. Magari hanno idee diverse su test pisa e reclutamento, ma non sull’importanza della scuola.

    E trovo ridicolo sostenere che la 107 farebbe gli interessi dell’industria. Al massimo dei sindacati della scuola e degli ex precari.

    O che la scuola pubblica sia fatta per insegnare il senso critico. A volte si, a volte è più indottrinamento. Peraltro anche lui riconosce che un elemento di indottrinamento esiste anche nei casi positivi come insegnare a superare i pregiudizi di genere, razza e orientamento sessuale.

    E una nota a margine : vista la storia delle BR non mi fa molto ridere l’idea dell’insegnante terrorista.

    Per il resto ha diversi spunti condivisibili

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  3. Condivido una parte. Doversi riconoscere intellettuale è bene ma significa che prima l’insegnante si considerava un operaio,anzi meno in quanto non produceva cose materiali e tangibili. Il mondo era diventato sotto il marxismo di un materialismo impressionante. Anche gli stipendi allora erano inferiori a quelli di un operaio. Ora tutti i manager e padroni di sono riscattati alla grande tranne appunto la classe degli insegnanti che soffre ancora del complesso del primeggiato nonostante rasenti la miseria..Ma oltre ciò l’insegnante fornisce cultura e crescita intellettuale e di vita a generazioni, gli strumenti per crescere e ricercare il vero ,il bello e il buono nella vita dei giovani. Anche solo in embrione ma importantissimo e preziosissimo. Ma quello che non mi va è il costringere questi giovani a divenire studenti per forza. Una volta metà di loro facevano scuola di arti e mestieri ed erano più felici tutti e realizzati. Oggi vediamo invece milioni di giovani intellettuali disoccupati e miseri che intasano lo stesso canale diventato più che saturo. A pensare che si guadagna benissimo a fare arti e mestieri e si è più felici certamente che è anche lo scopo ultimo della pedagogia…

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  4. L’insegnante NON è mai stato considerato un operaio, ma quando mai. In qualsiasi sistema ideologico è sempre parte della classe intellettuale. E nessuno “costringe” i giovani a divenire studenti per forza. Studiare è un loro dirittto, fondamentale. Per altro, ormai chi non ha un diploma è relegato a fare lavori poco pagati e sempre più precari. Piantiamola di ragionare come se il mondo fosse fermo a cent’anni fa. Oggi anche un artigiano e un falegname hanno bisogno di formazione e di cultura o non vanno da nessuna parte. Se non ad ingrossare le file dei disoccupati e dei NEET, che in Italia sono tantissimi proprio perché si dice ai giovani che studiare è una perdita di tempo. (E, per inciso, le scuole professionali e i corsi di formazione ci sono ancora, mica li hanno aboliti).

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  5. Gli insegnanti sono coloro che per mestiere insegnano, la maggior parte se la cavano. Alcuni rubano lo stipendio, alcuni vivacchiano sul minimo da farsi, ma molti si impegnano e, ciascino a suo modo, fanno il bene dei ragazzi loro affidati. Ma è così da sempre, fin dai lontani anni 60 in cui andavo a scuola io. È la società esterna che è cambiata, è più feroce, consumista, classista, rassegnata e intrisa d’odio corporativo fra le varie caste e castucce. Gli insegnanti sono marinai con un buon impiego, ma su un titanic che affonda, e poco possono farci.

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  6. uno spaccato chiaro di quello che dovrebbe essere l’insegnamento e quanto in realtà si viene considerati.
    Stare in classe è difficile perché è complicato togliersi da dosso degli stereotipi che si sono incrostati sulla pelle degli insegnanti.

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