Globalizzatori/3: Augusto, l’imperatore nascosto

Accadde oggi: il 18 agosto del 14 d.C moriva Caio a Giulio Cesare Ottaviano Augusto, il primo imperatore di Roma

Augusto, il primo imperatore romano

Augusto era uno di quegli uomini che non capisci mai. Ce ne sono. Li frequenti per una vita, ci stai assieme, ci dividi il pranzo, la cena, le ferie; ma quando ti domandano a bruciapelo: “Ma com’è?” non sai che rispondere. Non puoi dire che sono cattivi, no. Ma nemmeno sei certo che siano buoni, o che siano amici. Uno di quegli uomini che mettono sempre una barriera fra sé e il mondo, non sai se per difendersi o per fregarlo. Di quelli che ci sono, immancabilmente, quando conta che ci siano e quando gli conviene, ma paiono come in seconda fila, anche quando stanno davanti.

Il giovane Marco Ottavio, il nipote invisibile di Giulio Cesare

Marco Ottavio aveva tutto per passare inosservato. Sì, la mamma era sorella di Giulio Cesare, ma il padre, il padre non aveva fatto mai nulla di memorabile, tranne sposare la sorella di uno che dopo aveva cominciato a contare, appunto. Era un ragazzino caruccio, ma magro, e pure graciletto: di quelli che sembrano costantemente sul punto di ammalarsi e si ammalano poi davvero: ogni corrente d’aria era un prodromo di raffreddore, ogni spiffero un nemico. Che te ne puoi fare di un nipote del genere? Giusto salutarlo quando passi in campagna, fra una spedizione militare e l’altra, e scordartene subito dopo, se sei Giulio Cesare e sei impegnato a conquistare il potere.

Quando Ottaviano non era ancora Augusto

Ottaviano Augusto
Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto

Delle frequentazioni fra zio e nipote si sa poco, anzi, si sa nulla. Strano, ché le fonti antiche sono di solito così ricche di aneddoti, e qui i personaggi erano di statura tale che anche qualche bella invenzione retorica ci stava comoda: invece muti tutti quanti, non c’è una voce, non c’è un pettegolezzo, non un quadretto fasullo, ma familiare. Eppure si saranno ben frequentati, talvolta, i due. E qualcosa in lui Giulio Cesare doveva aver pur visto, per nominarlo suo erede nel testamento, preferendogli Antonio, suo luogotenente in tante battaglie. Oppure, chissà, forse non ci aveva visto nulla davvero: se lo ricordava a stento, Cesare, il nipote; ma pur sempre nipote era, e, per la legge romana e per l’orgoglio dei Giulii, quel ragazzetto costipato e palliduncolo era l’unico erede possibile della famiglia, perché Giulia, la sua bella Giulia, figlia tanto amata, non gli aveva dato nipotini, Calpurnia, l’ultima moglie, si era rivelata sterile e Cesarione, sì, Cesarione era un bel maschietto, ma era figlio di Cleopatra, che, pur se regina, era straniera, e Cesare s’era sempre dimenticato di sposarla, perché i grandi uomini con le loro amanti sono spesso così, un po’ distratti. Dunque non restava che lui, Ottavio, diciannove anni appena compiuti, e un petto da uccellino che lasciava presagire qualche difficoltà ad arrivare vivo ai venti. Le sue spallucce parevano troppo fragili per sopportare persino il peso del nuovo nome, Caio Giulio Cesare Ottaviano, che gli arrivava improvviso come una mazzata, dallo zio, per testamento.

Ottaviano Augusto: un provinciale a Roma

A vederlo giungere a Roma, con la sua aria da provinciale attonito nel gran marasma dei giorni che seguirono l’omicidio dello zio, qualche senatore provò quasi tenerezza. “Questo ce lo sbraniamo con calma, dopo averci giocato un po’, fintanto che serve…” pensarono tutti, in primis Antonio, che gli veniva incontro con un bonario sorriso da squalo; in secundis Cicerone, che, dopo anni di forzato ritiro, pensava di poterselo remenare ad arte, quel ragazzino, e, divenendo il manovratore del suo erede, prendersi una vendetta postuma sul sempre poco amato Giulio Cesare.

Ottaviano, zitto e buono, fece finta di non capire, forse molto non capì veramente; ma come tutti quelli nati lontano dalla grande città, era più furbo di quanto i cittadini sospettino; si mise in disparte, a studiarli con calma, quei Romani un po’ spocchiosi convinti di saper gestire il mondo perché ci vivevano al centro. Non lo degnavano di attenzione, perché aveva diciannove anni; non si rendevano conto che un ragazzo di diciannove anni con l’intelligenza di starsene buono buono ad osservare in un angolino quello che succede prima di muoversi dimostra già la consumata esperienza del grande stratega.

Ottaviano e Marco Antonio

Augusto velato
Augusto velato

Venne, vide, e li fregò. Invece di essere pedina, li usò come tanti pedoni di un gioco che forse aveva già in testa, forse perfezionò per via. Come pedoni li eliminò ad uno ad uno, con razionale freddezza: Cesare giocava a dadi, Ottaviano a scacchi. Il primo ad accorgersi quanto gelido potesse essere quel fanciullino pallido fu Cicerone, sacrificato senza un ripensamento. Il principe del foro, che si credeva una volpe della politica, ci rimise la pelliccia, e la sua lingua velenosa fu donata come gentile omaggio al nuovo trumviro Antonio, per sancire un’alleanza inedita e, fino a pochi giorni prima, improbabile.

Divennero cognati, e mai famiglia poteva risultare peggio assortita. Ottaviano riflessivo, distaccato, un uomo che non si riesce ad immaginare altro che nel riserbo di un cortile in ombra, a parlare sottovoce con scelti amici: poco “romano”, se si vuole; e Antonio, invece, che della “romanità” pareva l’essenza, quasi quasi la caricatura: generoso, estroverso, coraggioso, ma anche capace di essere sottile e calcolatore, dotato di quella furba ingenuità che lo faceva idolatrare dagli eserciti ma anche tenere da conto fra i Senatori. Antonio scelse l’Oriente: pareva fatto per lui quel mondo senza confini, dove ancora si poteva conquistare la gloria sul campo di battaglia, dove il pericolo era pericolo e il piacere piacere, una terra di contrasti forti in cui chi domina è veramente re. Ottaviano restò a Roma, a gestire tutta quella “amministrazione” spicciola che Antonio considerava noioso lavoro da burocrate: giusto a quello poteva servire, il pallido nipote di Cesare: a tirare la carretta, tenendo buoni i vecchi barbogi del Senato, mentre altrove si faceva la storia.

Ottaviano Augusto e la nascita dell’impero

Ottaviano resta. Apparentemente non fa nulla, ma intanto tesse la sua tela, e, come il ragno, aspetta. È uno strano uomo, questo freddo calcolatore. Pare di ghiaccio, una di quelle teste che non hanno cuore. Eppure si costruisce un bozzolo di amici che gli saranno fedeli sempre, e a cui sarà sempre fedele pure lui. Agrippa, Mecenate sono i suoi intermediari con il mondo: tengono i contatti, organizzano la propaganda, orchestrano e coreografano una sceneggiatura che Ottaviano scrive e mette in scena giorno dopo giorno. Ottaviano mette sempre una cortina fra sé e il mondo: lo vuol gestire, ma sotto sotto sembra averne sempre paura. Ha bisogno di uno schermo, di una mediazione. E grande mediatrice sa essere la moglie che si è scelto, scippandola ad un Senatore pur se incinta, con l’unico colpo di testa che gli si conosca nella vita: la bella Livia, capace di essere disinibita ed austera, intrigante e ligia, la più gran donna di potere di Roma, e quindi la moglie perfetta per il più grand’uomo dell’Urbe.

Sconfigge Antonio. Nessuno lo avrebbe mai creduto possibile. Antonio aveva tutto, dal calore umano al fascino maschio del generale, ma cade, e viene battuto da uno che lo combatte per interposta persona, uno che fa vincere la battaglia finale da un amico mentre lui è sotto coperta, a vomitare per il mal di mare. Cleopatra tenta di sedurlo, ma il giochetto stavolta non le riesce. E non perché ormai è vecchia, no, ma perché non si può sedurre un uomo come Ottaviano, che della seduzione ha paura, dato che teme tutto ciò che gli fa perdere il controllo e rischia di trascinarlo dentro alla vita senza uno schermo di sicurezza. Muore, Cleopatra, e Ottaviano diventa Augusto. Capo assoluto come Cesare non era mai stato. Gestisce tutto, ma, al solito, da dietro una cortina, che stavolta è fatta di definizioni, di parole che dicono una cosa e ne significano tutt’altra, una nebbia fitta di titoli che lasciano in piedi i nomi delle istituzioni e ne svuotano il significato. Lui fa finta di schermirsi, a chi lo chiama “princeps” dice che il senso è “primus inter pares”, e formalmente tratta da colleghi i senatori che sono solo sue creature o suoi servi. Non ama le sconfitte, e nemmeno i conflitti, perché sono l’unica cosa che non è capace di tenere sotto controllo: gli scontri rischiano di mandare in frantumi i suoi schermi, le sue protezioni.

Augusto: l’uomo che amministra il potere

Conquistò il potere, ma godette forse di più nell’amministrarlo, nel creare ingranaggi perfettamente oliati ed adatti a gestire e parare i colpi del destino, a tener distante l’imprevisto e l’umana stupidità. Non era un uomo simpatico, e forse non fu nemmeno un uomo felice; di certo non fu mai un uomo compreso, perché fece di tutto per rimanere oscuro ai più, tanto più in ombra quanto più si metteva in vista. Le sue statue rivestivano ogni piazza ed angiporto dell’impero, il suo volto era esposto in ogni cantone del mondo; eppure, a guardarle, si ha la costante sensazione di essere davanti ad un uomo che sfugge, che si nasconde. Come se il velo che gli copre il capo non fosse messo lì per le mere ragioni cerimoniali che la religio di stato imponeva, ma per consentirgli di proteggersi, di creare un diaframma fra se stesso e tutto il resto.

Quel tutto che aveva disperatamente voluto, ed era suo, ma che, magmatico, irrazionale e caotico, continuò a spaventarlo.

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8 Comments

  1. Complimenti, il tuo modo di parlare di storia me la fa percepire affascinante, a me che non l’ho mai amata! Arrivare ai fatti partendo dagli uomini, seppur romanzati, è molto più interessante (vedi “Io, Claudio”). E parlando di freddi strateghi, lui mi ricorda qualcuno, non è che per caso era anche dotato di un accenno di gobba?

    Grazia

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  2. Anche io, chissà perché, me lo sono sempre figurato gobbetto, e magari pure con delle orecchie a sventola un po’ appuntite….ma deve essere una forma di suggestione. 🙂

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  3. Il passaggio definitivo dall’oligarchia senatoria al principato è un momento indubbiamente affascinante della storia occidentale, ma anche uno dei più difficili da comprendere nelle sue reali implicazioni politiche e istituzionali, nonché nel suo effettivo esplicarsi regolamentare e normativo.
    Grazie per la graditissima segnalazione e, ovviamente, complimenti. 🙂

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