Il funerale del convertito

La notizia giunge improvvisa, ma non inaspettata. Mi telefona Giulia: “È morto Ludovico. Mi ha chiamato Cinzia, ora. Gli fanno il funerale oggi, in chiesa.”

“Cazzo, Ludovico!” esclamo. Per poi mordermi la lingua subito dopo, perché, certo, “Cazzo, Ludovico!” non sembra la cosa più rispettosa da dire quando ti informano che un tuo amico è morto. Però a me è quella che viene più spontanea ed immediata, perché, cazzo, Ludovico no: anche se lo sapevamo che era malato da tempo, anche se ci si era persi di vista già da prima, anche se si era in pratica pure quasi litigato le ultime volte che ci si era incrociati in giro, Ludovico è uno di quelli con cui sei cresciuta, uno di quelli che non ti sai che immaginare che vivi, perché se muoiono loro, che han fatto parte della tua vita da sempre, ti viene il sospetto che prima o poi potrai morire anche tu.

“In chiesa?” domando a Giulia, come se volessi la conferma di qualcosa sono però certa di sapere già.

Una pausa, un sospiro.

“Alla vecchia pieve di S.Giovanni. E preparati, ci sarà tutto lo stato maggiore della Curia, a quanto ne so.”

Sono strani i funerali d’estate: nel caldo africano delle cinque di pomeriggio, il grumo di gente in nero divisa a capannelli davanti alla pieve medioevale, sotto la pergola fiorita, mentre le macchine girano su e giù in cerca di un parcheggio, fa pensare non a delle esequie, ma ad un aperitivo chic, un vernissage di qualcosa, che a Ludovico sarebbe molto piaciuto. Sorge il sospetto che no solo quando ci si accorge che metà delle sottane lunghe sono tonache di preti: a colpo d’occhio riconosco due monsignori e un reverendissimo cardinale, tutti attorniati da un codazzo di segretari o seminaristi. Sulla porta, pallidissima, Cinzia, la moglie, riceve le condoglianze con il capo coperto da una mantiglia di pizzo e un abito nero che le cade fino ai piedi. La sostiene per il braccio un uomo, che, scopro con stupore quando mi avvicino, non è il padre o il fratello, come mi sarei aspettata, ma l’onorevole ****, giovane rampantissimo cattolico conservatore, prezzemolino, in tv, di ogni trasmissione in cui si dibattano temi vagamente etici perché specializzato a liquidarli con un tonante vade retro e minacce d’inferno ai laicisti presenti. Quando ci avviciniamo, Cinzia stenta un sorriso dolentisismo come stupito e anche un po’ sollevato di vederci là; ma l’onorevole, con un leggero strappo al gomito, pare sottolineare che non è lecito distrarsi dal lutto. E Cinzia riassume in fretta l’espressione vuota da vedova impietrita, quasi fosse l’unica concessa dal cerimoniale.

Entriamo. La chiesetta è afosa e zeppa. I primi banchi sono così stipati di autorità che il Sindaco Taragnin s’è dovuto accontentare di una terza fila in ombra, e il suo assessore alla cultura è stato relegato in una sediolina d’accatto, recuperata alla bell’e meglio fra quelle semicionche della sacrestia. Il feretro entra, scortato da un vero e proprio picchetto d’onore di giovanotti in giacca e cravatta, alti, slanciati e fatti in serie, che paiono venuti fuori da un film sui bodyguard. Con Giulia scambio uno sguardo perplesso, chiedendomi chi diavolo siano quegli alieni, e perché siano loro ad accompagnare il corpo. Ma, è ovvio, sono un’emanazione dell’Onorevole, che infatti li comanda con uno sguardo e li congeda non appena appare nella navata, sempre tenendo Cinzia per un gomito e dirigendone i passi. Non so perché, ma la scena mi fa scorrere un brivido lungo la schiena: la trovo insopportabilmente macabra, con quel corpo senza vita nella bara e gli altri che, pur vivi, sembrano muoversi come marionette attaccate ad invisibili fili. Mi manca il respiro, e sospetto che non sia colpa del caldo, né dell’incenso che comincia a bruciare.

Sull’altare, intanto, fra un nugolo di chierichetti, si sta recitando una copione di deferenze incrociate: fra don Elisio, il parroco, cui spetterebbe la celebrazione, e il Cardinale e le varie eminenze presenti, che, pur schernendosi in apparenza, han già preso il controllo della funzione. Difatti al povero don Elisio, che pure per la bisogna si doveva essere preparato come all’occasione della vita, vengono lasciate le parti ininfluenti della messa, giusto qualche salmodiata e l’annuncio delle letture. Ad officiare sono i Reverendissimi, a turno e secondo l’anzianità di gerarchia.

Non ascolto. Non riesco a concentrarmi sulle parole che vengono lette, solo sui ricordi di Ludovico. Mi pare impossibile non ci sia più, perché io me lo vedo davanti vivo, quasi mi sembra di poterlo toccare. Me lo ricordo diciottenne e bellissimo, ad arrigante noi sbarbati alle assemblee d’istituto, con tutto il fascino che può avere a quell’età un rappresentante studentesco con gli occhi azzurri e senza brufoli. Se la tirava, anche, certo, con la sua aria voluta da intellettuale, i maglioni falso sdruciti che però cadevano perfetti, le giacche di velluto da professore del Vermont fin dal primo anno di Università e quel suo vezzo di togliersi gli occhiali cerchiati d’oro quando si rivolgeva proprio a te e la conversazione diventava più intima, per imbambolarti con il meraviglioso indaco delle pupille. Ma al di là delle pose, in lui c’era qualcosa di più, c’era sempre stata: la passione inestinguibile che gli bruciava dentro, il bisogno di un Assoluto che per lui era una necessità. Le gran baruffe con me nascevano per quello: perché lui aveva la necessità di credere in Qualcosa, senza non ce la faceva, e io, io no, anzi, gli Assoluti mi danno l’orticaria, ogni volta che ne sento magnificare uno ci vedo dietro l’ombra lunga dei roghi, dei lager, dei gulag, di tutti quelli che sono finiti massacrati o lo saranno per la loro incapacità di aver fede in Quello, sotto qualsiasi forma Quello si presenti. Troppo a destra quando lui era a sinistra, di colpo ero diventata troppo a sinistra quando lui s’era spostato, perché una volta che era stata ridotta a lacerti la sua prima ideologia, lui, dopo mesi di crisi nera e profondissima passata a meditare in conventi ed abazie, pronti ad accoglierlo benevolmente grazie alla sua fama di giovane intellettuale critico, se ne era tornato con una Fede nuova nuova proprio perché vecchissima, anzi, arcaica. “Sono stato illuminato come S.Paolo!” aveva detto, radioso. E io niente, non ero stata capace di buttarla giù questa, perché continuo a far parte di quelli convinti che se uno ad un crocicchio cade da cavallo e sente le voci non ha avuto una esperienza mistica, ma solo una commozione cerebrale. La sua deriva religiosa l’avevo seguita dalle pagine dei giornali e dei suoi libri, ogni tanto incrociando lo sguardo di Giulia, smarrito quanto il mio, sentendolo lodare con toni sempre più accesi e privi di dubbio quegli stessi che adesso erano lì, in chiesa, attorno al suo cadavere, al posto di noi amici con cui aveva condiviso la giovinezza.

“Il nostro caro fratello…” è la terza volta che il Monsignore officiante lo dice, e l’Onorevole, con un silenzioso cenno di capo, approva. E ogni volta che lo sento a me viene una fitta alla bocca dello stomaco. Caro fratello un cazzo, mi verrebbe da urlare. Dove eravate voi fratelli mentre noi si facevano le gite in montagna, tornando zuppi fracichi per l’improvviso temporale, e i bagni al mare di corsa, improvvisati, con le scarpe buttate alla rinfusa sul bagnasciuga e le maglie tirate via con i piedi già a mollo? Ai concerti, e nelle infinite notti trascorse a passeggiare dopo la visione dell’ennesimo film, le mani in tasca, la brezza sul viso, lo sciabordio del canale a far da sottofondo, fino a che non si faceva troppo tardi per andare a letto e il nuovo giorno si annunciava con una spolverata di luce fra le calli? Dove eravate la mattina della morte di sua madre, in ospedale, quando piangeva disperato su un gradino, sbatteva la testa sul muro e si sottraeva ad ogni tentativo di abbraccio, o il giorno in cui s’era reso conto di essersi innamorato e di volersi sposare? Ci siete solo ora che è cadavere, brutti corvi neri, dopo averlo allontanato da tutti per tenervelo solo per voi, risucchiarlo nei vostri riti, impegolarlo nelle vostre salmodie…

“Il nostro caro fratello…” implacabile, il Monsignore traccia il ritratto di un tizio a me sconosciuto, testimone della Fede, difensore ad oltranza della Vita, instancabile percorritore di vie di pellegrinaggio, ascetico ospite di monasteri, comunità, agapi; ne loda la conversione fulminea che gli ha permesso di rinnegare quel mondo di peccati e perdizione di cui prima faceva parte, un girone d’inferno di corruzione, ateismo, relativismo culturale, materialismo sfrenato, assenza di valori e di sentimenti puri, Sodoma Gomorra e Babilonia spremuti tutti assieme. Quel mondo che siamo io e Giulia piangenti, rispettosamente immobili fra i banchi, e Teo, che, arrivato in ritardo, vedo appoggiato all’ultima colonna della chiesa, anche lui incapace di trattenere le lacrime. Ci avrà pensato alla fine anche lui così, come ci delinea il Monsignore, e per questo non ha più voluto vederci, o il suo rifiuto di frequentarci ancora era dovuto al terrore di accorgersi che noi invece eravamo sempre gli stessi, i suoi vecchi amici, non dei mostri, non delle anime perdute, e questo avrebbe mandato in crisi quella nuova Fede, quell’Assoluto cui aveva un disperato bisogno di aggrapparsi?

La messa finisce, i machoboy portabara si rimaterializzano nella navata, l’Onorevole ghermisce nuovamente la vedova, don Elisio guadagna il suo lampo di celebrità benedicendo il feretro prima che chiudan tutto e si allontani. Giulia, Teo ed io seguiamo il flusso di gente, quasi ne veniamo travolti. Nonostante il nostro tentativo di celarci, ci spintonano, facendoci arrivare di fianco al carro funebre, nel momento in cui la bara arriva, col nugolo di machoboy attorno e l’Onorevole dietro a presenziare. Ma quando stanno per completare il trasbordo dal carrello portabara al carro, nonostante l’impegno dei machoboy qualcosa va storto, una rotella si ingrippa, e il feretro inspiegabilmente si gira, bloccandosi proprio in faccia a noi tre, che per la prima volta lo riusciamo a vedere così da vicino. È un attimo, l’Onorevole ripiglia con lo sguardo il controllo assoluto della situazione, i machoboy fanno girare la bara per il verso giusto e la infilano nella bocca della mercedes-carro spalancata per accoglierla, poi partono via, mentre tutti, attorno, in fretta, corrono alle macchine per far parte del corteo.

Giulia, Teo ed io rimaniamo là, fermi. Nessuno di noi ha voglia di dover ascoltare un’altra salmondiata, né di vederlo chiudere da loro nella tomba di famiglia.

“Andiamo a casa?” chiede Teo.

“Sì.”faccio io.

“Lo abbiamo salutato, in fondo.” aggiunge Giulia.

“Già.” dico. Poi, in un flash, rivedo la bara, la rotellina che si ingrippa di fronte a noi tre. E anche se la mia anima razionale si ribella e si contorce, mi rimane nel fondo dell’animo il dubbio che in qualche modo strano, in fondo, ci abbia voluto salutare anche lui.

E’ un racconto di fantasia, non si fa riferimento a personaggi reali, vivi o morti. E basta.

11 Comments

  1. sì, il “sospetto” della morte in simili luttuose circostanze si fa vivo, e anche come unica verità. dopo i quaranta si presenta a prescindere, e dopo i cinquanta diventa concreto. dopo i sessanta può divetare un assillo. e poi dipende da tante cose.

    buona la riflessione sull’omelia, ma l’abbandoni troppo presto secondo me. il tema del perché di quella svolta (Cinzia ne è estranea? non sembra), il fatto che il bisogno di assoluto per certi preti declini sempre nella “conversione” più vieta, intesa come scelta di SEMBRARE cattolici coatti, meritava di essere sviluppato. non credi?

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  2. Ecco perchè mi sono “sbattezzata”. Perchè se mi dovesse succedere qualcosa “loro” non potranno prendermi.
    Sperando sempre di non rincoglionirmi troppo invecchiando, ovviamente.

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  3. @ magdog
    le conseguenze di ordine canonico dello “sbattezzo”, ovvero dell’annotazione a margine degli atti di battesimo e, ove richiesto, di cresima, ai sensi e per gli effetti della vigente normativa canonica, della manifestazione di volontà di non far più parte della chiesa cattolica, comportano, tra l’altro, la privazione delle esequie ecclesiastiche in mancanza di segni di pentimento (cfr. can. 1184, 1, 1°).

    Ciò significa, in concreto, che anche sulla base della semplice dichiarazione di un familiare, avvallata dal parroco, al defunto può essere attribuita, in limine vitæ, la volontà di ravvedersi e di pentimento. E a quel punto lo “sbattezzato”, appunto ormai defunto, non ci può far niente e le esequie avvengono comunque secondo il rito cattolico, trovando peraltro apposita annotazione sui registri parrocchiali.

    Non sostengo che ciò avviene sempre, ma per svariate circostanze e motivi familiari, ciò avviene spesso.

    la chiesa cattolica ha un ordinamento giuridico indipendente nel proprio ordine, essa nei suoi registri, dei quali non dà, in genere, visione agli interessati che ne facciano richiesta, può iscrivere e annotare quel cazzo che gli pare.

    inoltre essa, ritiene che battesimo e cresima conferiscano uno status personale idelebile, e l’annotazione di cui sopra non cancella il fatto storico, cioè l’avvenuto battesimo e cresima. tanto è vero che l’interessato non ha l’obbligo della forma canonica del matrimonio, ma nulla gli impedisce di avvalersene. insomma si tratta di un marchio a fuoco e tutta la tiritera dello “sbattezzo” non serve, in pratica, a un bel nulla. cosa molto più importante è quella di non battezzare i propri figli laciandoli liberi di decidere in età adulta, ma qui entrano in gioco già due volontà, quelle dei genitori, che possono essere diverse. pensa un po’ al cas di una coppia in cui uno dei due sia cottolico osservante e l’altro no. un caso sul tipo raccontato da Heinrich Boll ne L’opinione di un clown …….
    🙂

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  4. @ Alice:
    “Ciò significa, in concreto, che anche sulla base della semplice dichiarazione di un familiare, avvallata dal parroco, al defunto può essere attribuita, in limine vitæ, la volontà di ravvedersi e di pentimento. “

    Con la mia famiglia, fortunatamente, sto tranquilla. Deve essere un familiare, comunque, a certificare la “folgorazione sulla via di Damasco”. Estranei non ne hanno il potere, giusto?

    @“la chiesa cattolica ha un ordinamento giuridico indipendente nel proprio ordine, essa nei suoi registri, dei quali non dà, in genere, visione agli interessati che ne facciano richiesta, può iscrivere e annotare quel cazzo che gli pare.”

    A dire il vero io ho chiesto al parroco del mio paese di poter accedere al registro dei battezzati per vedere se effettivamente l’annotazione di apostasia richiesta era stata effettivamente fatta.
    Ho fatto richiesta scritta, preso appuntamento ed il registro me l’ha fatto vedere senza far storie.

    @“inoltre essa, ritiene che battesimo e cresima conferiscano uno status personale idelebile, e l’annotazione di cui sopra non cancella il fatto storico, cioè l’avvenuto battesimo e cresima. tanto è vero che l’interessato non ha l’obbligo della forma canonica del matrimonio, ma nulla gli impedisce di avvalersene. insomma si tratta di un marchio a fuoco e tutta la tiritera dello “sbattezzo” non serve, in pratica, a un bel nulla. “

    Si, s’era capito che non si riesce mai a levarseli completamente dai coglioni. Ma cosa vuoi che ti dica, personalmente, l’aver formalizzato la mia uscita dalla setta cattolica mi fa sentire comunque meglio con me stessa.
    Non servirà, come dici tu, forse, però oggi io, domani tu, dopodomani un altro……..

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  5. 1) per fimiliare intendo il “curatore” dell’estinto;

    2) ho scritto: in genere. conosco un caso specifico in cui il parroco non ha aderito alla richiesta;

    3) mai completamente, esatto. sono scomunicata latæ sententiæ con provvedimento dell’ordinario diocesano
    🙂

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