Il Gatto Eterno di Facoltà

Capita. Nella vita capita un po’ di tutto, alle volte, anche che ti chiedano un giorno di andare a farti intervistare alla Radio di Ca’ Foscari, la tua università.

Non c’è nulla che ti aiuti a misurare il tempo passato quanto tornare di botto, un pomeriggio, nei luoghi che ti hanno visto studente. E’ una strana cosa, il tempo, perché razionalmente sai che passa, e lo misuri in anni, giorni, minuti, con congegni via via più sofisticati e precisi: ma passa fuori, scorre sugli orologi e sugli schermi dei tuoi cellulari sempre più multifunzionali. Dentro alla tua testa, invece, sembra che non passi mai. Te ne accorgi quando cammini di nuovo su quelle pietre alle Zattere che hai calpestato mille volte, vent’anni prima, per raggiungere le aule di lezione, o gli amici per un panino al bar fra una lezione e l’altra. Lo sai che sono passati vent’anni, li hai contati tutti: ma quando ti incanali nel flusso di ragazzi ciancicati in jeans e scarpe da ginnastica che vagolano con aria stordita ed incerta fra le calli e le callette, trascinandosi dietro borse zeppe di tutto e di niente, sciarpe dai colori improbabili quanto le sfumature dei loro capelli, occhialoni fuori misura per visini ancora acerbi ed adolescenziali, te ne dimentichi, e nonostante i riflessi delle vetrine ti restituiscano l’immagine di ciò che sei ora, a te sembra di essere ancora quella lì, la ventenne imbranata persa fra le calli, e confusa fra le varie sedi ed i misteri degli orari di lezione.

Poi ci entri, nella biblioteca nuova di Facoltà, e per un momento resti a bocca aperta, perché ti sembra di essere capitata sulla plancia dell’Enterprise di Star Trek (il fatto che la paragoni all’Enterprise è già un sintomo che sei vecchia). La sala studio dei tempi tuoi te la ricordi bene: era composta di quattro panchette gettate a caso in un angolo chiuso con cartongesso di fortuna, alla fine di un vecchio corridoio scrostato. Attorno c’era tutto il caos di un cantiere aperto, perché l’università l’hai fatta lì, in un cantiere: con gli operai che smartellavano in sottofondo durante le lezioni, e le gru che spostavano su e giù per l’aria carichi di mattoni, proprio sopra la tua testa, quando ti prendevi una pausa nel cortile.

Ora invece c’è questo spazio open e molto chic, con tavoli di design simil scandinavo, scale aperte che portano ad un soppalco, e negli angoli divanetti in gomma con poltroncine che ti ricordano molto i puff fantozziani, ma a questo punto di astieni dal pensarlo, perché se oltre al Capitano Kirk citi anche Fantozzi appare evidente che sei un relitto del paleolitico, e rischi che ti imbrachino e spediscano al museo.

La fauna studentesca, almeno, non ti delude: ha un che di eterno, come tutti gli archetipi, e perciò di consolatorio. Li riconosci ad occhio i vari tipi: la ragazza studiosa con gli occhiali e la faccia a pochi centimetri dal monitor del pc, che sta facendo imprescindibili ricerche per la sua tesi di prossima discussione; le due studentesse bellocce e stordite, che hanno di fronte una pila di libri per qualche esame e li fissano perplesse, mentre sul loro volto è dipinta la domanda: «Ma che, li dobbiamo leggere tuttiii????». I tre ragazzi che la sanno lunga, e guardano la sala con quell’aria da uomini vissuti che si può avere solo a vent’anni.

Certo, rispetto ai tempi tuoi ci sono gli aggiornamenti tecnologici. La sala è un tripudio di macbook air tenuti con nonchalance sulle ginocchia per mostrare al mondo la mela trionfante sul dorso, di tablet appoggiati accanto ai libri, di smatphone attaccati ai polpastrelli come se fossero un naturale prolungamento delle dita. Mentre studiano i ventenni fanno sempre altro: chattano, feisbuccano, whatsappano, e per tutta la sala il rumore di sottofondo è il trillo muto di qualche congegno.

Poi entri nella sala della radio, che per te è una novità, perché ai tempi tuoi non esisteva una radio di facoltà, o ti ci saresti fiondata a lavorare, e conosci i ragazzi che la fanno, e il direttore che ti fa sentire un po’ meno vecchia perché almeno ha un’età più vicina alla tua, tanto che si ricorda anche lui le panche nel corridoio al posto dell’aula studio, e il cantiere aperto, i professori pazzi che svolgevano esami dadaisti con appelli decretati a caso da cogliere al volo, manco fossero un flash mob.

I ragazzi vi ascoltano incuriositi, quando evocate quel mondo che per loro deve essere distante quasi quanto la Itaca del tempi di Ulisse, tanto che trovare un punto di contatto fra quella che è la loro università a la tua ti pare quasi impossibile, una missione perduta. Finché non citi gli aneddoti relativi al Gatto di Facoltà, ovvero il micione ciccione e rossatro, grosso come un vitello e grasso come un porcellino prima di Natale, che per i quattro anni di corsi è stato il silenzioso compagno delle lezioni: quello che, indifferente a quale accademico tenesse concione, passeggiava indisturbato sulla cattedra e poi zompava addosso allo studente o alla studentessa che più gli andava a genio, e si accolava sui quaderni di appunti per farsi coccolare; quello che aspettava a capo della rampa di scale per farsi aprire la porta come una star, perché la facoltà era sua, e gli studenti, e i professori, erano solo variabili temporanee in transito, che si dovevano perciò assoggettare alla Sua Maestà.

Tu evochi la sua figura mitica, quasi totemica, convinta di citare un qualcosa ormai sparito nelle nebbie del tempo, come il Grande Spirito dei Sioux scomparso nelle Praterie dell’Aldilà. E invece i ragazzi ti guardano stupiti e dicono: «No, ma c’è ancora! E’ sempre lui, un po’ più spelacchiato, ma rossastro e ciccione!»

Così il patto fra le generazioni si stringe ancora, la storia diventa comune, si trova un punto di incontro fra l’esperienza tua di ventenne e quella di ventenni loro: in nome della divinità zoomorfa che è l’eterno custode di quei luoghi: il Gatto Rosso e Ciccione di Facoltà.

11 Comments

  1. Da noi il “gatto” è uno studente ultra cinquantenne che frequenta l’università da quasi vent’anni e si è iscritto tutte le facoltà umanistiche senza mai laurearsi! Un evergreen conosciuto da tutti 🙂

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  2. Anche noi a Fisica a Padova avevamo la Micia! Non veniva in classe, abitava in “Acquario” la nostra aula autogestita. E non c’erano solo fisici a coccolarsela ma anche ingegneri, chimici, farmacisti, insomma tutti quelli che passavano di la’ e si trovavano bene a studiare insieme.

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  3. Incredibile ! E com’è che da noi questa divinità invece non c’era??? Non è giusto! O forse il Gatto è in realtà il figlio del vostro e voi supponete che sia immortale, com’è successo a Giovanni Evangelista??? Mi hai fatto venire una gran voglia di ritornare a vedere com’è diventata Ca’ Foscari, manco da un po’ meno tempo di te, ma è sempre abbastanza….

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  4. Io passo di qua solo per trasmetterti i sensi della mia più totale e stomacata INVIDIA, e sono talmente verde per la suddetta che uno smeraldo, al mio confronto, è bianco come il vinavil: non solo la MIA università (Firenze, ma parlo solo delle facoltà umanistiche) all’epoca era un po’ scalcagnata ma oggi è il trionfo del più squallido squallore; non solo, ma NOI, un gatto, non l’abbiamo mai avuto. Nemmeno l’ombra. E sì che qualcosa per ingentilire l’ambiente ci sarebbe davvero voluto.

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