17 marzo 1861: l’Italia, allora come oggi.

Accadde oggi: 17 marzo 1861, si insedia il primo Parlamento del neonato Regno d’Italia.


C’era Vittorio Emanuele, con i suoi baffoni a manubrio, e quell’aria sempre un po’ a mezzo fra il compagno di scuola patacca che copia il compito e poi scappa a far festa e il furbacchione di paese. C’era Cavour, con il suo viso finto paffuto, gli occhialini che coprono a stento due pupille a punta di spillo, il sorriso stentato di chi calcola sempre la mossa successiva eppure poi, d’improvviso, quando si mette in testa una cosa, da piemontese tignoso, anche se pare del tutto irrazionale non molla finché non la raggiunge. C’erano i deputati, venuti da ogni dove, esaltati, frastornati, e anche stupiti di essere riusciti ad ottenere quello che s’erano prefissi. I più erano allegri come ad una festa, altri molto preoccupati, perché sì, in qualche modo l’Italia era nata, ma i problemi erano tanti, e l’entusiasmo del Risorgimento non avrebbe fatto trovare i quattrini, quadrare i conti, affrontare i guai seri che si profilavano all’orizzonte interno ed esterno. C’era poi l’esercito dei tromboni in buona e cattiva fede, come sempre presente quando,si festeggia o si piange, con tutto l’armamentario di inutili ciance retoriche pronte all’uso.


Mancavano il Veneto, Trieste e Trento, ancora in mano agli Austriaci. Mancava Roma, e con il Papa sarebbero stati ca…voli amari. C’era una voragine nei conti pubblici, un paese arretrato, un popolo che non sapeva leggere, scrivere e non ne comprendeva nemmeno l’utilità. Avevamo ai confini i Francesi passabilmente incazzati, e non perché gli avevamo vinto il Tour, ma perché gli avevamo tirato una sòla notevole con la Seconda guerra di indipendenza, di quelle fregature che sappiamo tirare bene noi. Il resto d’Europa ci considerava dei simpatici pezzenti: non avrebbe scommesso una cicca sulla nostra possibilità di durare a lungo, ma potevamo essere funzionali ai giochi di potere e di soldi di un’economia e di una politica che stavano diventando contemporanee.


Allora, un po’ come oggi, eravamo italiani: casinisti, arruffoni, furbetti, tromboni, spesso amorali, ma anche generosi, entusiasti, duttili, intelligenti, intuitivi, testardi.
Si dice che tiriamo fuori il meglio nei momenti di crisi. Non sempre è una cosa bella, perché poi siamo costretti a vivere la vita come una sorta di emergenza continua. Però con tutto il nostro pressappochismo, la disorganizzazione, la lamentela organica e connaturata, la tendenza a dividerci in mille fazioni e gruppuscoli e impallinarci a vicenda, poi alla fine quando serve siamo qui, in qualche modo uniti. Da allora, e anche oggi: nel modo tutto nostro e un po’ infantile di essere nazione, lo siamo.
E allora auguri, Italia, e auguri italiani.
Ne abbiamo passate tante, raga, passeremo anche questa.