Storia divertente della letteratura latina: Mecenate, l’inventore del marketing culturale

Cilnio Mecenate fu il marketing manager di Augusto, curò la politica culturale dell’impero e divenne immortale attraverso la letteratura senza aver mai scritto una riga di suo.

Cilnio Mecenate: si chiamava così, con un nome che per i Romani era difficile da pronunciare, anche perché lui, in realtà, era etrusco. Si diceva discendente di principi tirreni, anche se poi, a stare alle fonti, proveniva da una famiglia di cavalieri, quindi borghesissima, e forse l’unica a poter vantare avi illustri era la madre. Però soldi, ecco, quelli ne aveva a fiumi, tanti da poter passare la vita sua e quella di diverse generazioni di eredi senza far nulla se non seguire le proprie passioni.

La passione di Mecenate era l’arte. Non la propria, eh. Non risulta che avesse alcun talento particolare. Se un Cicerone, quando lo pensionano forzatamente, si mette a scrivere di filosofia, e un Tacito di storia, Mecenate in tutta la sua vita non risulta che abbia scritto una cippa: un verso, una poesia, un trattato, un mezzo saggio di memorie. Niente.

Ne avrebbe avuto da raccontare, perché fin da ragazzo si era legato ad un altro promettente giovane, di nome Marco Ottavio, poi Ottaviano, ed infine Augusto. Assieme ad Agrippa erano i suoi collaboratori più stretti. Agrippa era un comandante militare, Mecenate no. O meglio, combatteva pure, a dire il vero anche meglio di Ottaviano, ma non ci voleva un granché perché Ottaviano sul campo di battaglia era una vera pippa.

Ritratto di Mecenate, Arezzo, fonte Wikipedia

Il vero talento di Mecenate era la diplomazia e soprattutto la propaganda. Oggi sarebbe un perfetto manager della comunicazione. Per le parole e il loro uso aveva un istinto finissimo. Se c’era da trattare per convincere un nemico ad arrendersi o un alleato a diventare meno riottoso, si mandava lui.

Questo amore per le parole lo seguiva sempre, e così nel tempo libero amava andare alle letture, alle presentazioni di libri. Gli piaceva conoscere i nuovi poeti, i nuovi scrittori. Ci parlava, ne diventava amico, se li coccolava. Gran signore, non si permetteva mai di dire “dovresti fare così o cosà”, ma lasciava cadere qualche velato suggerimento su l’argomento da trattare, o su come trattarlo. E loro, visto la sua innata eleganza nel farlo, spesso lo seguivano. Gli artisti, si sa, sono come i bambini: non bisogna dare loro ordini, bisogna convincerli che hanno deciso da soli.

Sono anche di solito in bolletta e incapaci di organizzarsi. E Mecenate lì veniva in aiuto, con il suo pratico buon senso etrusco. Li adottava, trovava loro casa, passava loro uno stipendio perché potessero fare gli intellettuali, un mestiere così aleatorio che ha bisogno di un introito fisso. Non era certo il primo, ma fu quello che lo fece più in grande e sistematicamente.

Se Augusto è diventato Augusto lo deve a Mecenate. È lui che ha trasformato un’epoca piuttosto grigia e perbenista in una età dell’oro, pagando chi doveva raccontarla. Virgilio, Orazio, Livio erano creature sue, che lui vezzeggiava, coccolava, assecondava nelle loro manie.

Ritratto rinascimentale di Augusto, palazzo ducale di Urbino, foto mia.

Assecondò anche quelle di Augusto, che in fondo era altrettanto capriccioso, se non di più. Andarono perfettamente d’accordo per anni, anche se quanto ad intelligenza e cultura Mecenate stava una spalla sopra ad Augusto come Agrippa gli stava una spanna sopra quanto ad umanità e valore militare.

Poi, come nella favola dello scorpione, Augusto tirò fuori anche con lui la sua vera natura, quella grettezza che lo contraddistingueva, l’egoismo che lo spingeva a fare sempre quello che desiderava fregandosene degli altri. Gli scopò la moglie.

Mecenate, da gran signore, non fece un plissé. Era un uomo di mondo, e poi Augusto di donne ne seduceva a frotte, con il silenzioso benestare della moglie Livia, che pur di continuare a gestire indisturbata il potere non dava certo peso alle corna, anzi forse si sentiva sollevata dai doveri sessuali.

Ma per Mecenate quel tradimento fu una incrinatura impossibile da perdonare. Non tanto per le corna, ma per la fiducia spezzata. Erano amici, si sarebbe aspettato quantomeno un po’ di lealtà per tutta quella che aveva dato lui.

Così si ritirò, in buon ordine, senza scenate. Lasciò ad Augusto la gestione del potere e delle cene eleganti con giovani donzelle che lo ossessionavano sempre più. Presagiva che la dinastia si sarebbe trasformata in un disastro, ma non disse più nulla. Quando morì, ricordò persino Augusto nel testamento, perché era un gran signore fino alla fine. O forse perché lasciare un legato all’imperatore era il modo più sicuro per evitare che quello sì vendicasse confiscando il resto del patrimonio. E se ne andò con l’eleganza sobria di chi a teatro, quando lo spettacolo scade, esce in punta di piedi.

Rese immortale l’età augustea e se stesso attraverso la letteratura.

Il che, cintando che non scrisse mai una riga, è una impresa notevole, eh.